Il testo qui presentato è parte di un lavoro più ampio, intitolato Verso il centro vuoto di Poesia, e rappresenta, per l'occasione necessariamente scorciato, il primo dei quattro sentieri che Alessandro Santese ha costruito per portarci nel Contemporaneo, per poterlo pensare e restituire. Tramite la poesia. (CP)
«Due nell’uno»: su Milo De Angelis, tra Millimetri e Poesia e destino
di Alessandro Santese
La descrizione di quel pane, briciola dopo briciola,
è una teoria dell’anima[1]
Non fuori; né dentro.
Torna e ritorna; si accosta strisciando, in questi giorni, all’orecchio, un detto sottile e scheggiato, terso, indiano anche questo. A portarlo l’anziano che vedo ancora di fronte a me, dall’occhio tumido di stupore, cilestre, grigiocilestre, appassito di ceneri e distacco come le acque parlate dai morti del Gange, dove va a sciacquare se stesso e le poche cose che da anni si porta sempre dietro, ramingando di quartiere in quartiere. Ha la veste che cade sulle ginocchia, le ginocchia incrociate, le braccia secche e brunite che si muovono senza fervore, come a riunire una folla di note che lui solo sa, nell’aria; seduto, parla, ma non è un parlare; è un rituale inconfessabile e felice anche questo.
«Né fuori, né dentro»; per chi creda nella via, raccolte tutte le forze, che porti davvero, quando tutto è caos e rumore, fuori del rumore, al centro esatto e salvifico del silenzio, allora, sì, né fuori, all’estremo, né dentro: allora, sì, «non si è che nella paura.» Non un gesto. La partenza, conficcata anch’essa nella pietra, allora, sarà lì, non distante, tanto quanto il cane al guinzaglio fedele, che accucciato freme e ti guarda.
Eppure può, è possibile, per colpo non sospetto, senza volerlo, darsi un giorno il contrario, mostrandosi invisibile prima un’altra strada guizzata fuori dall’erba all’opposto, per abbandono di ricerca, un giorno pieno e certo, quando silenzio è non più fuori, o sopra, o oltre te e le cose, ma delle cose, e il quotidiano rumore con il quale le cose compongono il testo del mondo diventa il suono del silenzio esso stesso, il battito o il sussurro con il quale ci viene scritto addosso il testo per il quale volevamo essere la bianca oscura pagina; esse allora, in quel punto, che diviene la congiunzione e la maglia tesa a diramare tra tutti i punti, manifestano se stesse, se stesse e dunque un mondo che sta, una via, una tregua, sebbene povera o falsa, non lontano dalla quale può darsi si dia in dono, senza posa, il suono segreto e osceno da stringere improvviso come il riso del dio, il musicale bruciante nesso che le congiungerà di nuovo a noi, le cose, a noi, «e all’universo …».
[…]
Secondo le pagine rilegate del grande libro del globo che ruota, in questo universo sacrificale che intorno si sfoglia e poco a poco nella luce si sfa, è cibo tutto, è pasto, è fame, dice la sacra leggenda, è tremendo pacificamente l’ochema che noi distrugge e rinasce della sete, ciò che sospinge a vedere le cose spezzandole dentro chi le vede. L’incantesimo, fatto da bambini, ritorna. La cosa diventa la costola vera e rotta; tu che entri, nell’ombra, – scostando una tenda – chi vede: e si spezza. Davvero.
E ti spezzi, dentro – e fa male – un poco anche tu.
Millimetri, il secondo libro di Milo De Angelis, parrebbe perseguire, inaugurandola (era il 1983), una simile, antica, dissepolta via, toccando o vero sia un territorio dove sfumato e labile può divenire il confine tra vita che sorge e vita che scema, come tra ciò che pertiene all’umano e ciò che appartiene all’inumano, tanto i due mondi si ameranno lottando, penetrando l’uno nell’altro; giacché la presa sia lunga, fatale, senza tregua.
Al limite, è molto probabile, di un ingaggio amoroso senza difese e sotterfugi con l’invisibile che è già la parola, che è e sono tutte ancora le parole, le quali possono esporre chi le adoperi alla oscenità di un mondo buio perché interiore, alle pudenda del sentimento e alle allegrie venute prima, anni prima, giorni prima, attimi prima, ma inverate solo poi, nell’interstizio fugace del tempo che si incrina soltanto in un verso, saltate fuori dal buio nel buio al momento giusto e costrette infine ai millepiedi dello spavento e delle insonnie che si moltiplicano di giorno in giorno, le quali in loro vanno depositandosi, cercando una tregua o una casa; scavando lì la loro tana; sì: nelle parole, le silenziose aggraziate fameliche testimoni del tutto che abbracci vivendo e non abbracci mai se non in loro, tutto questo che ti circonda ed ami in fondo e non in fondo ti uccide.
«Vedi bene ancora.»
Vedere cosa.
Ecco allora i succhi, il cucchiaio dell’officiante, le molliche divorate dei supplici e degli avverati, quello antico gettarsi in preda al pasto che noi si è o il mondo; come se all’orizzonte, a contenere il profilarsi svettante del veduto, ad abbracciare questo mondo che si alza inabissandosi, fosse lo stesso indiano gesto che fu del dio all’origine, in quanto attraversamento e pronunciamento doveroso dell’offerta: ricordiamo la Upanishad, allora, la ricordiamo quando dio-morte-Myrtu-Prajapati divora sé generando il tutto, che è la indigenza fatta niente, e mondo; solo una fame, all’origine del mondo. Una fame immensa. A gettarsi su di sé. Ma non di un avatara – questo direbbe il critico della mitica origine; persino il grande Malamoud lì crolla – di un sostituto umbratile o, peggio ancora, puramente metaforico del dio si cibano gli dei, in quel caso, che lì si gettano: no, bensì, del dio intero si pascono, perché potentemente simbolico e dunque integrale, ma mai allegorico, sia il sacrificio. Detto in modo lievemente diverso, è molto probabile che non valga più, in opposizione al mondo, il principio di una interiorità da proteggere o salvare – specie se la salvazione può affacciare sul pericolo, altrettanto mortale, di non poter morire – quando le cose del mondo diventano l’interiore uomo: esse sono la sua interiorità, il suo silenzio, la sua musica inaggirabile e ossessiva da iniettare, raschiare via, succhiare.
Sotto un lampeggiare di incenerite stelle può darsi allora che noi ci alziamo in piedi, e sentiamo, al fondo, in Millimetri esatta, questa fame: una figura vivente. Grande un uomo o le spalle di un’ombra, ingigantisce dietro il testo, riducendo la parola, nell’impatto, alla sua vocazione di solitudine e leggiadria, di singolarità chiusa luminosamente in sé stessa, quasi che la macchina retorica – e difensiva – sempre in atto nel linguaggio ne risultasse d’improvviso aggirata o incrinata per sempre, colpo di lima dopo colpo di lima, secondo l’approssimazione di ogni elemento non alla macchina ma a sé stesso, alla verità di sé stesso, alla materia grezza o unica del quarzo, della briciola, del frantume grande un monte nel vuoto spalancato e come un monte forte e fragile di questa sua estrema duplice esposizione, tanto quanto chi detta, sprovvisto o vero sia della tana o del riparo di cui il soltanto piccolo e minuto potrebbe pur sempre giovarsi. Nulla, per questo, in seno nasconde, ventriloquando – espungendolo – il dettato direttamente in petto all’autor. Rastremata del superfluo, una diversa forma di intelligenza corre difatti, nuda e baluginante, attraverso il nitore della sua stessa lama verso quel terreno che confina con la grazia del gesto atletico compiuto, il quale, stando alla metafora dello sport, solo dopo il lungo tunnel, buio e scalpitante, materiato di notti, rigore e ostinazione, allenamenti e fango, varianti infinite e insonnie, potrà manifestarsi nella luce e nella sacralità dell’istante, del senza pensarci ovvero sia dell’istante, e soltanto lì, come appunto solo un gesto atletico deve e può, nel clamore e con il fiato mozzato del giocatore, in mezzo al pericolo, le gambe molli, lì in mezzo, nell’aria, sì, mentre la palla arriva, sì, d’un colpo, senza pensarci, come fosse ogni secondo di gioco, lì, in quel rettangolo di bianco, l’ultimo sempre, buono per vincere o sparire.
Là dove la stessa pervicacia divenuta esaltazione di pensiero riesca nell’impresa di strappare di dosso al poetico la patina elegiaca e riflessiva di chi, come il generale impaurito di fronte all’oracolo, titubante, aspetti o recalcitri, per calcolo malcelato – ignobile lì, di fronte quella chiamata – o paura.
In direzione contraria piuttosto il libro sembrerebbe procedere, tanto da spostare al fondo – rovesciandolo – l’asse della quotidiana normalità, di cui viceversa voracemente si ciba: l’oggetto, e meglio ancora ciò che abbia consistenza di pasto, agisce, fa, fende, compie il gesto; dove il latte annega ceci, e ceci come umani lì annegano.
E così, nel libro, tutto respira e vive o assume consistenza di manna e «pioggia bucaniera dalla fine» se davvero coincide chi scrive con il gesto della auto-cancellazione, giacché solo ad una dilagante pluralità – i versi i compagni stessi; la terza plurale è il soggetto invocato più ricorrente – si poteva pensare di affidare quella strenua ricerca di là del dubbio.
[…]
Capace di sgusciare via da braccia eccessivamente nervose, o desideranti, quali queste, Millimetri aprendosi, allora, si chiude, raddoppiando il suo inganno luminoso in un testo fraterno, o sia Poesia e destino, (di nuovo edito per Crocetti) nel quale, obliquamente, è dato pure di ritrovare spezzate alcune delle punte originarie che affondano nella forma parallela dei versi.
Entrambi i testi, difatti, vicini nel tempo, pensati e posati su di uno stesso piano, nel riverbero luminoso che l’uno getta sull’altro, sembrano venire per rifrangersi a distanza come i due poli speculari di uno stesso terremoto speculativo, di uno stesso moto centripeto di conoscenza in quanto scoprimento del reale: dove Millimetri risulta essere l’atto appassionato e disvelante di questa incursione pensante, la figura numerica di un lancio di dadi azzardato – e possibile solo lì – con Poesia e destino.
Sotto la veste magnetica e irta dell’andamento saggistico, difatti, che annoda gelosamente, sappiamo, poeti e poeti, India e Grecia, tragici a Veda, anche in questo libro l’istinto originale sembrerebbe procedere in una direzione non diversa da quella verso la quale andava Millimetri, secondo la necessità di stringere con la pinza scottante, nel punto esatto, là dove si manifesti, il nodo che le lega e le unisce, il nesso cruciale che affratella e sposa le cose, ciò di cui si diceva: la loro collisione rivelatrice e vera. Questo improvviso «bivio del destino» che può essere il verso, il quale incessantemente va facendosi carne, capelli, riso, uomo e lacerazione.
[…]
«Dove sei stata per
tutta la mia vita.»
Luogo terremotato e spezzato tra opposte forze, Poesia e destino sembrerebbe dimostrarsi inoltre, seguendo altri saliscendi, un semenzaio alla rovescia, secondo una semina parmenidea che proceda dal passato verso il futuro, lungo gli anni a venire. Soprattutto la sezione indiana e l’Impresa, bacino di storie e folgorazioni e deformato specchio liquido per il poeta dove tornare a sporgere il pensiero per lasciarlo da lì riaffiorare, negli anni, intingendovi lo stilo del tragico, ancora e ancora, non altrove che lì, non lontano da sé, con una fedeltà vicina al crimine, per ritrovare integri quei lontani vertiginosi nuclei ed ossessioni depositate o sepolte in un luogo esatto una prima volta, per tutte le volte, con forza al fondo stesso del lago. Di lì infatti torneranno in spirali, nel tempo, contro il tempo della saggezza, dal fondo alla superficie, ad increspare le acque. «Ero lì … guarda bene
… ero già lì …»
È il caso del colloquio con morte, o Krishna, tirato fuori in Poesia e destino, come un aculeo, dalla fiaba di Vivekānanda, la storia del testimone acquattato nell’ombra dei giorni e da sempre lì, accanto l’uomo che vive – perché lui veda mentre tu vivi, lì «dove tu non guardavi» – dapprima imago vitale nel tragitto del poeta, se volessimo ripercorrerlo, essa stessa, di coscienza poetica nel senso vero del termine, il due nell’uno capace di «scollare dall’attaccamento al sé personale», come pure, secondo un altro tragitto, del doppio disperso e ricercato – quasi perduto del tutto al tempo di Millimetri – ma soprattutto amato nella distanza, come un padre – ma un padre vedico: nel senso del tat tvam asi – nell’arco grande del tempo e dei versi, destinato per vocazione ad essere ritrovato a distanza anni dopo, in nuova forma di vita e dunque di poesia – perché mai nel poeta si separano le due forme – o vero sia in quanto ritrovamento della possibilità stessa di dialogo e interlocuzione, con quel testimone silenzioso che da sempre è sé: con il doppio spogliato e immemorabile, sé appunto, o la morte in persona. A quel punto l’ombra perduta ai tempi di Millimetri, tornerà, e così il doppio dell’ombra, non altro che per custodire la esatta distanza dalle cose e ad accogliere l’altro lato del tempo e delle cose – schiacciato prima di fronte gli occhi, nell’imminenza, da una morsa cieca – crescendo con lei nei versi lo spazio acuminato persino per il ricordo, per la figura plenaria del passato, il quale prenderà viceversa, poco a poco, peso e misura: lì materiandosi dello spessore non del quotidiano ma del sacro, di un non tempo, o vero sia di assoluto.
Nel racconto indiano, nella nettezza del testimone silenzioso e perduto c’è il taglio bruciante che sfigura e ricuce il tempo, e lo accorcia in istante, e lo anticipa, simile allo strappo di forbice che agiva in Millimetri. Dove persino la profezia della donna dai lunghissimi capelli marroni raggela e stupisce, così prossima anch’essa alla storia dell’autore e al fuoco di un accaduto che pure, per altre vie, diversamente verrà, come impigliato o partecipe anche questo dei nastri molteplici di un tempo non puramente storico e lineare, bensì spiralico e diffranto, verticale, lo stesso concepito dal poeta, che attira i suoi nodi e intorno ad essi torna, colpendoli ripetutamente, secondo una visio temporis dell’anima più ampia, dove è ammissibile persino accogliere il pensiero che ciò che è stato è ciò che segretamente si nasconde nello spazio del futuro.
Un passato mai potenziato dalle tentazioni stoiche della retorica bensì per natura fragile e spezzato in due, in ogni caso, tanto certo e scaraventato tragicamente oltre sé – destinato per ciò ad un secondo, venturo movimento di verità e vitalità – quanto interdetto, sempre, in prima battuta, alla seconda falsa vita dell’elegia e del compianto, la quale può condannare all’immobilità uno sguardo che più nulla, appunto, può sul passato, costringendolo in un limbo fantasmatico. Per non amarne la fine.
Ciò che già era scritto in quanto destino, è allora qui, alla rovescia, ciò che dal futuro viene camminando verso il presente, ciò che, o vero sia, sempre ancora deve tornare, in un arco temporale che si muove distorcendo i nastri abituali, giacché perennemente impegnato anche il passato a disfarsi per farsi incontro, di continuo, da angolature e spazi remoti e sempre diversi, cogliendo alla sprovvista chi si dica vivo, per chiedere sempre e ancora una parola; ancora una; terribilmente. Per spandere vita ma non ombra.
Dove anche la perdita più tremenda, come nella storia del mito, può coincidere con la prova del dono più grande restituito un giorno in sorte al cosmo, o a Krishna. Tutto è esposto: questo è l’esposto; una furia di amore, fino alla cancellazione totale del privato nel privato, reso viceversa al tutto, perché diventi parte del tutto.
Tra un cucchiaino e una treccia di pane, tra il verde intenso di un semaforo e le forze inabitabili della terra.
Essere il brulichio stesso che intreccia le vite e le fa accorgere, tra vivo e vivi, essenza e sparizione, poeta e perduti, perché ogni verso partecipi, al fondo, dell’ininterrotto finale tema del cosmo dell’amore e dell’addio. E dell’addio.
Tanto che nel lago, sotto le sue acque, o poco più in là, nell’aperto dell’aria, è possibile forse intravvedere, come uno spino o un accenno di petalo sotto il profumo di rosa, per chi capiti a chinarsi sulla sua corolla di tenebra e impalpabilità, uno dei destini più antichi e lungimiranti della poesia.
Essere quel bisbiglìo.
Allora, toccato il punto, il silenzio della clessidra universale e quella esatta del tempo circolare, il vento colmo di sabbia del sacrum facere e il tic tac frenetico dei compagni che chiama, che chiama sempre, e scandisce il battito del carcerato in forsennata reclusione, potranno forse tornare a scorrere e a mescolarsi, con amore, ancora, felici e mortali, felici perché mortali, anche loro, un giorno, come antichi lontani irrisolti compagni di banda.
©AS
[1] Milo De Angelis, Poesia e Destino, Crocetti, Milano 2019; pag. 121.