Ferruccio Benzoni, Con la mia sete intatta
Marcos y Marcos, 2020
Nota di Andrea Moser
Nel deserto civile e culturale che contraddistingue questi anni, la fievole voce di Ferruccio Benzoni (Cesenatico 1949-1997) riemerge, quasi per miracolo, dall’ombra che per troppo tempo ha avvolto questo poeta discreto, confinato in una marginalità tragica che lo ha portato su solitari sentieri dove ha tentato di preservare ciò che fugge: gesti, amici scomparsi, la dolcezza dell’amore, forse la bellezza. Tanto più Benzoni ha percepito l’inverno di tutte le cose, il gelo personale e collettivo (e il peggio doveva ancora venire), quanto più si è contrapposto al nulla, nell’umana speranza che non tutto sia perduto (Fortini). In Notizie dalla solitudine (1986) si può leggere Di giugno, un testo che commuove e che condensa alcuni dei temi cari al poeta: «Altre calamità/ non sempre dicibili non/ miniaturizzabili sempre/ – e il sole a bruciapelo/ di un’estate irrompente soccorrendo/ tutto il verde delle robinie./ Ma vedi come l’età aiuta a mitigarne lo sfarzo (lo spasimo)/ adducendo brividi in un poco/ d’ombra serale/ vociferando/ piovaschi da una sventagliata/ bassissima di rondini…/ Così un inverno è divampato/ e i suoi bracieri gelandosi/ in un marzo stentoreo – ma non credere ai miei crepuscoli a/ un infortunio d’amore, tu sai/ non esiste grazia senza l’orrore».
Per capire un po’ di più la figura di Benzoni, e degli altri amici che fondarono negli anni ’70 la rivista «Sul porto» – che voleva seguire una via alternativa sia alla neoavanguardia (movimento di rottura, di rifiuto “dei padri”) sia alle altre sperimentazioni post-sessantottesche – ci vengono in aiuto le stesse parole del poeta che in un’intervista osservava: «L’importante per noi non era prevalere come poeti, ma disegnare l’idea e il sentimento di un’amicizia che avrebbe dovuto durare per tutta la vita e invece non è durata». Probabilmente il destino di emarginazione era già scritto nella lucida scelta fatta da Benzoni e dal suo gruppo. Fu una presa di posizione etica totale di cui Fortini (assieme a Pasolini, Bertolucci, Penna e Sereni, e più indietro nel tempo Pascoli, rappresentavano i punti di riferimento, gli unici “padri” che meritavano il loro rispetto) intravide per primo l’estremo rischio: «Forse fu Fortini il primo a dire che saremmo finiti comunque, che questo vuoto ci avrebbe assorbito».
Per Benzoni la poesia doveva essere radicata nella realtà quotidiana: nel “colloquio” fra vita e poesia scaturiva una tensione etica, e una vera ricerca di senso; una poesia che avesse quindi il coraggio “di andare alla sorgente” (Hölderlin), nei luoghi più in ombra in cui la poesia dona ciò che resta. Quella di Benzoni fu una presa di posizione estrema e rischiosa, forse l’unica possibile per un uomo sensibilissimo e probabilmente troppo fragile per questo mondo.
Nell’ultima raccolta Sguardo dalla finestra d’inverno (1998), pubblicata un anno dopo la prematura morte, e che appare come il suo testamento poetico – quasi percepisse la vicina fine –, si scorge tutta la sua vertigine. In Anni di prostrazione e reparto leggiamo dei versi bellissimi nella loro cupezza: «[…] Furono il mio lager tanto/ che venutone fuori (dimesso)/ d’ogni cosa ebbi paura:/ tornare tra la folla che si urta/ le ombre surrogare nella mia […]». Ogni poesia suscita uno stupore che destabilizza: ci sentiamo trasportati ai limiti delle cose, in una realtà sognante, in cui i vivi appaiono più lontani dei morti. Leggiamo A mia insaputa: «Vorrei per una volta tutti/ della mia vita i volti s’affollassero,/ e uno in particolare contro/ l’invetriata senza desideri./ Sorridono e all’implorante/ ‹Vi aspetto, tornate!› –/ socchiuso lasciano il battente,/ neanche spettasse a me seguirli (chi qua chi là scomparendo)/ o fossi dei loro già, senza saperlo».
Con la mia sete intatta è un libro importante, una sfida letteraria che ci riporta a pensare alle parole pronunciate da Eugenio Montale nel lontanissimo 1975, anno in cui conseguì il premio Nobel per la letteratura. Nel suo intervento intitolato È ancora possibile la poesia? Montale si chiedeva: «Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?». Oggi queste parole appaiono ancora più urgenti di quanto potessero apparire a suo tempo e forse l’unica risposta ancora possibile la diede già lo stesso Montale: «La grande lirica può morire, rinascere, rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana».
Con il cuore un po’ meno freddo ritorniamo a Ferruccio Benzoni e a un altro testo di rara bellezza, dal titolo A mio padre: «Neanche con te che ora mi sorridi/ con occhi nuovi in sogno/ tra il viola delle nubi il giallo/ asfissiante dei crisantemi –/ lo slancio d’un volo ch’è finito,/ neanche con te troverebbe ali./ E mentre t’allontani (rimuori)/ timido come da una riva ti guardo,/ ti sorrido, dopo quanti anni?». Cosa dire? Difficile aggiungere altre parole.
Solitamente non presto particolare attenzione alle copertine dei libri; in questo caso, però, mi accorgo di quanto la veste grafica rispecchi in modo sorprendente la poesia di Benzoni: su uno sfondo di un bianco lunare, si profila una fragile barca che, sospesa in una vuota purezza, appare come una sinopia, una sagoma appena accennata, quasi fosse un disegno rupestre, la testimonianza di qualcosa di debolissimo che vuole però sopravvivere, fortemente; in fondo la poesia di Benzoni trasmette proprio un’idea di precarietà, il tremore di un uomo naufrago della vita.
Im Dunkeln (in L’amnesia dei morti)
Nel verde dei suoi occhi aguzzi
riarde un mio futuro
di metrica e di vita.
Di polvere e di metrica
per l’esattezza con cui ho composto
i miei vivi in marmo.
Ma spiove intanto: i fiori
che lei ama avranno tregua.
Una replica a “Ferruccio Benzoni, “Con la mia sete intatta”. Nota di Andrea Moser”
bellissima notizia. Ferruccio Benzoni è un poeta (uno dei tanti) poco letto
un abbraccio
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