«Che cos’è Lo stigma?»
Intervista a Carlo Ragliani
Carlo Ragliani vive a Candiana e studia giurisprudenza. Alcuni suoi testi sono stati pubblicati su antologie e webzine letterarie, come «Inverso», «Carteggi Letterari», «Laboratori Poesia», «Niedern Gasse» e tradotti in spagnolo dal Centro Cultural Tina Modotti. Fa parte della redazione di «Carteggi Letterari» con la rubrica Icone. Suoi interventi critici sono apparsi su «Nazione Indiana», «Poesia del nostro tempo» e «Inverso». Lo stigma (Italic Pequod, 2019) è la sua raccolta d’esordio.
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– Ansia
non è che strisciare
tra i dettagli degli oggetti
inestinti
dove le rendite dell’essere
sono flagelli
di vanità
coercizioni composte
per quanto inesistente.
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– Brama
che tutto finisca
che il regno
crolli
nella trama
d’un eterno comune
il sangue sarà mercurio
tra la supplica
e la superficialità
rimaniamo come argini
nella costrizione
dell’indebolirsi.
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R.: Cos’è lo stigma?
Lo stigma non può che rappresentare ciò che divide, e caratterizzare ciò che diparte. Ciò che è finito, e destinato a finire.
Per questa ragione, il solo utilizzo della parola è definitorio della realtà, nella sua forma più esperibile e tangibile.
Per certi versi uno stigma non può che essere ciò che rimane in seguito ad una ferita, ad una imposizione che si manifesta con la forza. Pensiamo al fenomeno “nascere”: in questo, lo stigma della nascita è l’ombelico. Nel parto cesareo, lo stigma è doppio: l’ombelico del nato, e la ferita nel ventre della madre.
In termini strettamente politici, basta riflettere a quante volte si appongono enunciati per circoscrivere la realtà aderendo completamente alla nostra limitata − perché umana − capacità critica del reale. Il risultato di questa operazione non può che essere una descrizione, una macchia d’inchiostro in cui trova completezza tutta la sindrome della definizione.
Per quanto riguarda il libro − o meglio, il titolo del libro − “Lo stigma” è il termine con cui mi venne insegnato a catechismo che definisce come “Caino subì la rabbia divina”, in seguito all’uccisione del fratello Abele, raccontato nel libro Genesi del Primo testamento, passo quarto − versetto quindicesimo.
Ero un bambino allora, e non avevo capacità critica di riconoscere che la traduzione più sensata del termine ‘ot (nell’immagine a fianco) in ebraico è “segno”. Questo mi fa sempre riflettere che nel pensiero di chi fu allora il catechista ciò che è un segno non può che essere uno stigma. Ed ora, eccomi qui, ormai vent’anni dopo (ride, ndr.).
“Lo stigma” è sicuramente il primo passo, e rappresenta anche il passo di chiunque sia scaraventato nell’universo della quotidianità irredenta ed avulsa di ogni compimento − così come fu il destino di Caino, che maledetto, scacciato, destinato alla sterilità del suolo e alla lontananza, prosegue “vagabondo e fuggiasco sulla terra”.
La voce di chi subisce un castigo così grande da non poter nemmeno morire, perché “chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui”.
R.: Cosa ti ha spinto a scrivere questa raccolta?
Non mi è facile definire oggettivamente ciò che può essere il momento originario che poi sfoci nella poesia come risultato.
E questo credo valga non solo per me, ma per qualsiasi poeta ed artista. Di fatto non è la catena a pesare, è ogni singolo anello che la compone a definirne il peso d’insieme.
Per questo non so dire in realtà dove inizi l’impulso, o la somma degli impulsi, e dove la poesia.
Ne “Lo stigma” so che non può che essere stata la pratica il “momento zero” − o meglio, il ragionamento che ho inteso a fondamento dell’indagine che ho svolto è stato il seguente: se si parte da un assunto dato per vero in quanto enunciato, le conseguenze non possono che afferire ad esiti dati e certi.
In questo libro si manifesta tutto l’esercizio nelle futilità.
Questo è stato ciò che mi ha mosso davvero. L’origine più profonda è ciò che dovrebbe essere, o forse di più il non realizzato. L’irrealizzabile che una volta concretato si manifesta nella totale delusione di cui noi uomini portiamo il peso quotidiano.
Non mi definisco un esistenzialista, ammesso che sia possibile aderire volontariamente ed auto-iniziarsi ad una corrente di pensiero; così, ex voto. So di certo che sono un esistente.
E so che quanto vedo e come lo vedo non è che il frutto di ciò che mi è stato insegnato, e quel che poi è la resa effettiva di ciò che ho imparato mal si sposa con la realtà dei fatti. Anzi, spesso si manifestano direzioni distinte ed opposte.
In questo, lo stesso concetto di certezza riguarda qualcosa che passa per la coscienza, la perfora perché non può deluderla.
Quasi vien spontaneo poter dire che ogni ortodossia nasconda in seno l’eterodossia; e viceversa.
Io parlo di ciò che è esperibile; non senza una buona dose di ciò che viene normalmente chiamato “nichilismo”, quando invece dovrebbe essere chiamato “delusion of grandeur”.
Questo perché l’orizzonte che si staglia come visibile dal Golgota comprende anche il vuoto in cui siamo precipitati.
E dopo aver posto degli standard altissimi, irraggiungibili (forse più però per averli costretti a fondamento implicito dell’esistere) non può che avvicendarsi la totale distruzione della realtà per come appare nella sua rovinosa caduta, o dell’adesione frangibile ad una verità fragile.
R.: La tua poesia ci parla del sacro. Cos’è il sacro?
C.R.: Difficile dare una risposta concisa e precisa di ciò che sia sacro, ciò che può esserlo e ciò che lo sarà. Questo perché di fatto il concetto stesso di sacralità si lega a doppio filo al concetto di società, prima ancora di religione.
Dalla più primitiva alla più elaborata, è sempre stata presente questa “chiamata”, questo modo di “dar risposta”, l’impastare le mani nel non esprimibile.
Per questo, non credo di essere intitolato a sufficienza per poterne parlare. In primo luogo, perché il risultato della definizione sacro non può che discendere nella corruzione dell’essere umano. Proseguendo, e lo ammetto con candore, sono soggettivamente avviluppato alla cultura da cui provengo al punto di vivere la stessa poesia con molta vergogna.
Non riesco a distaccare il senso del sacro dal senso di oltre − e credo sia perché il contesto sociale in cui mi immergo ogni giorno non può concedermi che questi bagliori di sacralità. Di conseguenza, il veicolo primo della sacralità non può essere la carnalità, nel senso più stretto di corporalità.
In questo allora possiamo ben dire che vi sia una “cosa ulteriore”, che non si connota necessariamente in un luogo preciso − questo perché non mi piace pensare ad un sopra ed un sotto, sarebbe già ridurre questo oltre ad una dimensione umana al fatto.
Di sicuro mi son molto vicini i paramenti sacri, gli oggetti, i luoghi di culto di ogni religione, senza discriminazione. Questo perché in ogni elemento di questi è profondamente insito quel che di “umanità” che, qualunque cosa essa sia, ispira molto più che ogni altra forma di venerazione.
Si dice che Caterina da Siena morì esclamando “Sangue! Sangue! Sangue!”. In questo, la poesia è un modo (dei molteplici) per poter attingere a quell’oltre che, personalmente, intendo come “sangue”.
R.: La tua poesia è tenera e violenta − anche per la sua forma, spezzata e priva di punteggiatura −, ed emerge dove la contraddizione non è sanata, e l’invocazione diventa blasfemia. Ci dici di più?
C.R.: Non mi è chiaro il come possa risultare violenta la parola che descrive un modo di essere della realtà, tuttalpiù è l’esistenza ad esser violenta, e la parola può solo render edotti del contenuto in essa imprigionato. Che la parola porti in sé un contenuto violento, quasi mortale, non credo sia una questione che possa risolvere io.
Credo che il dubbio e l’inquietudine siano preferibili alla sicurezza di giudizio, fino a rendere quest’ultima una sorta di impronta scialba, slavata ed impallidita. Ormai ciò che procede per statuti, piuttosto di acuire l’intelligenza, la mortifica.
Se esiste solo ciò che è dato come finito, tutto ciò che ha nome, così come ci insegna la cultura di cui siamo figli diretti, è destinato ad essere in rapporto con l’uomo, proprio in relazione al fatto che l’uomo sa dare un nome a ciò che racchiude un senso di esistenza.
Proseguendo in maniera concreta e discendendo, quindi, dal “in principio” delle Scritture alla parola “amen” che conchiude la preghiera, non si può che riconoscere una spaccatura tra l’intenzione delle parole e la forma a cui aderiscano; e questo è ciò che posso intendere come “inconciliabile”.
Tuttavia, non ne siamo responsabili. Ed in tal modo mi risulta impensabile il fatto che la parola ormai non possa permettere un sogno, e non sia più in grado di scalfire il mistero tremendo e fascinoso che vi è insito. Questo è insopportabile, mi è insopportabile.
Allo stato dell’arte non credo esista una speculazione sufficientemente gravida che non parta dall’orrore per la vita. Orrore, o fascino, in fondo non fa differenza in un mondo in cui le rondini muoiono suicide, scontrandosi contro le vetrate dei palazzi. Perciò, invocazione e blasfemia non sono forse lo stesso?
Nessun inchiostro è abbastanza nero da impregnare i secoli davvero, neanche il grido di Cristo dalla croce è stato in grado di eliminare la mortalità dalla carne. Non vedo come possa farlo la poesia.
Al massimo (e non mi riferisco ad un “noi” preciso, è più una questione impersonale) possiamo testimoniare l’afasia, la mancanza di parole innanzi al vuoto. Provare un grandissimo respiro, forse l’ultimo, prima di immergersi.
Di mio non riesco a capire come si possa compiere questo gesto folle e contrario ad ogni regola naturale, se ci si trova ad essere invischiati ancóra ad una questione quale il soggetto, l’io proprio personalissimo.
R.: I testi ricordano un’incisione, una cesellatura precisa. Che valore ha la parola nella liturgia dell’esistenza?
Nella liturgia dell’essere ogni singolo gesto è auspicabilmente significante, poiché in esso si compie il significato dell’essenza di cui è foriero. L’insieme dei gesti e delle parole ai miei occhi computa un insieme insensato ed incomprensibile. E per queste ragioni, sacro.
E questo perché in sé porta e non può che portare il senso del definitivo, di ciò che una volta compiuto rimane − nonostante la parola. Ebbene, è in quest’ottica che vorrei collocare il lemma, il semema, il nome.
La ragione di questo è conservata nel fatto che sono pienamente convinto che sia la devozione a poter ristrutturare il concetto medesimo di preghiera; in un’ottica gloriosa di assolutezza, la parola può essere sciolta dal suo significato.
Il rapporto definitorio esiste tuttavia nel dialogo che lo supporta, questo perché la parola testimonia ciò che è la promessa insita alla naturalità con cui si dimostrano le cose.
Per questo, non credo che l’ispirazione non possa separarsi dalla naturalità delle cose, o meglio: l’abitudine alla poesia mi ha portato nel tempo a riflettere in maniera più “artistica” sulla parola, con gli strumenti che ad essa son più affini ed istituzionali (metrica, eufonia, concezione del ritmo canonicamente inteso nel gioco di accenti, eccetera).
Tramite essa cerco di erigere una pira su cui bruciare un fuoco in cui ardere il gesto di cui è pregna la parola, ed in queste fiamme vedo contorcersi il verso.
Cerco quel quid di essenziale e non permutabile che dia abbastanza sangue alla poesia, che ne conservi il contenuto più significativo. Perciò si procede per scarnificazione.
Sottrarre materia finché la parola e la poesia siano sufficientemente autonome da poter esistere in maniera indipendente, sia nel versante formale che sul piano contenutistico.
Mi piace pensare allo scalpello che scheggia via il marmo, e ne incide una parola. Alla goccia di inchiostro che dal pennino cade sul foglio bianco. Al sangue che macchiò il lenzuolo di chi scese dalla croce, dopo aver conosciuto il vuoto vorace della morte.
Forse penso a questo perché tendo a riconoscermi in ciò che rimane. In quanto non può che rimanere. Perché ciò che rimane non ha l’aspettativa di riconoscersi in un nome, in un gesto. E questo accade soprattutto nella poesia.
R.: La disciplina richiede sacrificio. Esistere come esercizio di disciplina. Qual è la disciplina?
C.R.: Preferirei non mi fosse stata fatta questa domanda, perché implicitamente mi richiede di dare una indicazione, di scegliere volontariamente una dottrina rispetto ad una altra, un “aut-aut”.
Ma io sono perso, e non ho da tornare in nessun luogo.
Perciò credo sia meglio aderire al significato possibile della parola: “disciplina” deriva da “discere”, imparare. “Sacrificio” è composto di due parole, “sacer facere”, e significa rendere sacro.
La disciplina richiede sacrificio perché imparare necessita un altare su cui rendere sacre le cose che possono essere sacrificate. In questo, la poesia richiede sacrificio perché secernere dall’esistente la propria opera è un esercizio di controllo che rasenta la santità – e, secondo Cioran, la santità si misura in lacrime (ride, ndr.).
In verità, la disciplina migliore è ciò che concede di poter sbagliare abbastanza volte da non poter sbagliare più − e non so indicare assolutamente un sentiero di conoscenza piuttosto di un altro, certe cose si manifestano perché è necessario che accadano.
Quindi l’esercizio nella futilità migliore che si può verificare è quello in cui distacco ed allontanamento si compiono come origine e principio della realtà.
Divenire colui che, in un unico atto, intende e si separa dal mondo, provandone pietà − se non disgusto. Ed in questo in fondo si può distinguere nettamente ciò che sia compassione, e ciò che sia comprensione.
R.: Come ti poni in rapporto alla tradizione poetica? Quali sono i tuoi maestri in poesia?
C.R.: Vorrei poter estendere la questione “didatta e gregario” ad un piano non limitato sola alla poesia.
Nell’ambito poetico, son certamente vicino all’Ungaretti de L’allegria, a Magrelli de Le cavie, al Pavese del Disamore, al Pagliarani de La ragazza Carla.
Per ciò che riguarda il senso extra-poetico che voglio indicare, sento giusto pagare omaggio sicuramente alla Scritture, al Meister Eckhart de La nobiltà dello spirito, a Sant’Agostino de Le confessioni, agli scritti di Santo Efrem, a I racconti di un pellegrino russo.
Anche Kierkegaard di Timore e tremore, perché lui mi è stato molto vicino come il Cioran di Lacrime e santi.
Ultimo, ma non ultimo, sento che molto mi è cara sicuramente l’opera di Sergio Quinzio, particolarmente La croce e il nulla, La sconfitta di dio, La gola del leone e La tenerezza di Dio.
♦
– Abbandono
prosciugare l’esistente
indispensabile
manifesta l’inettitudine
per annullare
l’apparenza di unità
in quel che resta.
*
– Perpetuare
la lode
dove l’autunno torna
in uno stallo familiare
ritardando
l’adempimento
ed il non ritorno.
*
– Miserere
nel silenzio
l’infrangibile sentenza
all’altezza di un aiuto
inconcesso
per fissare l’attimo sterile
e perdere tutto
nella liturgia
dell’assenza.
*
– Nulla
di tutto questo
ormai importa
nell’ansimare
dei muscoli
queste parole
cesellano il secondo
sfiorito
la separazione
è tributare
la ballata
della sconfitta.
*
– Regno
l’imperativo dei fatti
costringe
dal suolo
ora sgorga
e si perde
la testimonianza
fallita.