, , , , , , , ,

Storia di una vita in quarantena: Guido Gozzano e la tubercolosi (di Elena Santagata)

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori
sovente qualcuno che picchia, che picchia…. Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,
m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.
E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi…. A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli…

«Appena un lieve sussurro all’apice…. qui…. la clavicola…»
E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

«Nutrirsi…. non fare più versi… nessuna notte più insonne…
non più sigarette…. non donne…. tentare bei cieli più tersi:

Nervi…. Rapallo…. San Remo…. cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…»

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,
la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,
trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco
disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi…. A che scopo?
Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestieri pagarli.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora –
che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo
le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
nè più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Non è facile passare il tempo in queste lunghe giornate di quarantena. Abbiamo tentato di tutto: esperimenti culinari, esercizio fisico casalingo, videochiamate con amici lontani. Anche i poeti e gli scrittori, che hanno a disposizione tempo e spunti, sembrano trarre nuova linfa dall’epidemia. Sono all’ordine del giorno prose e poesie a tema Coronavirus (ricordo qui, per esempio, Nove marzo duemilaventi di Mariangela Gualtieri). Il racconto della malattia è sempre esistito, comprensibilmente, dal momento che le epidemie comportano una serie di conseguenze – il distanziamento sociale, la perdita delle certezze quotidiane, la convivenza forzata o la lontananza dalle persone care – che impattano notevolmente sia sull’individuo sia sulla collettività. Sono stati diversi i modi in cui la letteratura ha raccontato le epidemie nel corso dei secoli. Nella tradizione, ha prevalso una prospettiva tragica del morbo quale flagello divino, punizione astrale, processo di espiazione delle umane colpe. Questa rappresentazione ha ceduto il posto, in certe narrazioni, a raffigurazioni comiche del patologico e delle sue conseguenze individuali e sociali. Alcuni autori hanno tessuto dei veri e propri encomi paradossali, in prosa e in poesia, di mali più o meno gravi: fra questi, Francesco Berni, per il quale la peste è un auspicabile rimedio per ripulire il mondo dalla corruzione (Capitolo primo della peste; Capitolo secondo della peste); lo Strascino da Siena,1 che descrive gli aspetti più purulenti e sgradevoli della Sifilide. Nella letteratura europea, Thomas Mann, nel romanzo La montagna incantata, racconta la vita del sanatorio di Davos come felice, godereccia e pacifica: una dimensione in cui la tisi, con i suoi sintomi inquietanti e il suo elevatissimo tasso di mortalità, non costituisce che un contorno spiacevole.
In questo filone di resoconti scherzosi, leggeri, paradossali, distopici, si inserisce la vicenda di uno dei poeti più importanti del Novecento, Guido Gozzano, che alla giovane età di ventiquattro anni, nell’aprile del 1907, contrae la tubercolosi. La vita del poeta, dopo la diagnosi, cambia drasticamente: Guido, che era sempre stato una personalità irriverente e incline alla vita mondana, è costretto a lasciare la sua amata città natale, Torino, e a trascorrere lunghi soggiorni in località balneari o montane, in completo isolamento. L’unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno sono le lunghe lettere indirizzate al caro amico e collega Carlo Vallini, all’amata poetessa Amalia Guglielminetti e alla famiglia.
Leggendo questi epistolari, colpisce soprattutto l’ottimismo di Gozzano nell’affrontare sia la malattia, sia il conseguente isolamento forzato: non una parola di sconforto, né alcuna rammaricata considerazione sulla propria infelice condizione trapelano dalle sue parole. A Vallini Gozzano manda «abbracci con bacini e bacilli»,2 riferisce di stare bene («Io sono qui ormai già sistemato e orientato nel mio tenor di vita e ti dico sinceramente che sono felice»),3 scherza con lui sulle buffe terapie alle quali è sottoposto (come la cura con «maschera inalatrice»), confessa di apprezzare la vita solitaria a contatto con la natura. Una menzogna, che il poeta racconta sia a sé stesso sia alle persone a lui care, alla quale terrà fede fino al sopraggiungere della morte, nell’estate del 1916.
La poesia Alle soglie, contenuta nei Colloqui, la seconda raccolta di Gozzano pubblicata nel 1911,4 è una delle più belle liriche che siano state dedicate alla condizione dell’individuo malato. Alle soglie riprende l’operazione già fatta da Boito in Lezione d’anatomia, ma ne stempera il registro drammatico-scapigliato grazie al disincanto ironico tipico della produzione gozzaniana. Gozzano è in grado di manipolare il lessico più comune con una tale abilità da poeticizzare perfino una asettica visita medica di routine. Prima di lui, i termini tecnologici, anatomici, medico-scientifici (tra cui si trova il vasto sottogruppo di sostantivi di ambito erboristico-farmacologico, come l’«ipecacuana» de La signorina Felicita), non avevano la dignità poetica che assumeranno nella sua poesia e nella produzione a lui successiva: si pensi a Ballata scritta in una clinica, poesia di Montale contenuta ne La bufera e altro, in cui si trovano sia «le fiale di morfina» («Nel cavo delle tue orbite/ brillavano lenti di lacrime/ più spesse di questi tuoi grossi / occhiali di tartaruga/ che a notte ti tolgo e avvicino/ alle fiale di morfina» vv.14-19), la «morfina» che Gozzano aveva già fatto rimare con la «favola divina» in Nemesi, sia la «tosse» di Mosca. La stessa «tosse» che Gozzano censura, insieme alle chiazze di sangue sul fazzoletto, in Alle soglie, come se, nascondendo i sintomi, potesse rimuovere la paura della malattia stessa: in uno dei manoscritti (Ras L) contenente alcune poesie dei Colloqui, si leggono due distici, non presenti nella versione a stampa, in cui Gozzano allude a «un poco di sangue dal petto e un rado colpo di tosse». Le manifestazioni della patologia, già ridimensionate nella versione manoscritta («poco di sangue»; «rado colpo di tosse»), poi eliminate del tutto, sono, per Gozzano, un tabù. Una prospettiva analoga è presente nel romanzo di Mann, in cui gli abitanti del sanatorio si sollazzano tra trimalcioniche colazioni, bagni di sole e serate passate a giocare a carte. Quando capita che qualche ospite della clinica passi a miglior vita, la voce non deve giungere alle orecchie degli altri abitanti del sanatorio e le cameriere devono provvedere, con grande velocità, a pulire la stanza del defunto in vista di un nuovo paziente.
Nella poesia di Gozzano prevale una visione comica di tutto ciò che ruota intorno alla diagnosi e alla terapia prescritta per curare il morbo indicibile (si pensi che Alle soglie contiene, ai versi 11-14, una prescrizione terapeutica in versi, in cui il medico sconsiglia al poeta di fumare e di avere rapporti sessuali). La censura della sintomatologia, quindi della patologia stessa, è in controtendenza con la percezione della tisi che avevano i poeti crepuscolari: il «mal sottile» godeva, paradossalmente, di una buona reputazione nella società. Si pensava che la tisi avesse degli effetti benefici sull’estetica del corpo e passava inspiegabilmente in secondo piano l’alto tasso di letalità che contraddistingueva il morbo: la malattia illanguidiva lo sguardo, donava un pallore etereo dai piacevoli contorni, infine consumava il fisico, costringendo il malato a un repentino dimagrimento. A causa della perdita di peso improvvisa e violenta, sembrava che il degente andasse progressivamente “svanendo nel nulla”. La tubercolosi, a differenza di molte altre patologie dai sintomi purulenti, imbelliva il malato al punto da renderlo oggetto di desiderio.
La consunzione fisica, secondo i crepuscolari, rifletteva la consunzione morale del poeta, provato nell’animo dall’altra malattia tipica dell’epoca, la malinconia. Paradossalmente, chi aspirava a far parte della cerchia crepuscolare doveva essere malato di tisi – realmente malati furono sia Gozzano, sia Corazzini, sia Gianelli – o almeno fingere di esserlo, così come aveva deciso di fare lo Stecchetti in Postuma.
Assume tutto un altro valore, in quest’ottica, la rima composta dalle parole «malinconia» – «radioscopia» (vv.13-14). I sostantivi anatomici che costituiscono il tessuto poetico di Alle soglie non sono più le mani bianche, gli occhi languidi, i profili carnosi delle labbra di una bella donna, ma «la clavicola», «le ossa» e tutti «gli organi grami» del poeta stesso, sottoposto a giudizio medico. Anche il cuore quale organo è un elemento fortemente innovativo: l’apostrofe al cuore riprende un topos della tradizione che da Archiloco di Paro (θυμέ, θύμ’, ἀμηχάνοισι κήδεσιν κυκώμενε, v. 1, fr. 128 W.) giunge fino a Leopardi («Or poserai per sempre, / stanco mio cor», A sé stesso, vv. 1-2) anche se, nel caso di Gozzano, il «cuore» non è l’animo in senso astratto, ma è un organo concreto di carne e sangue.
L’immagine così delicata del fluido che invade i polmoni e disegna il profilo di «ossa» ed «organi grami», ricordando il «profilo d’un bosco» dalle ramificazioni sottili ed intricate, sublima l’immagine ospedaliera della radioscopia. Il gioco di sovrapposizione della «radioscopia» al «bosco» è ottenuto grazie al duplice significato della parola «rami», che può indicare sia il ramo di un albero, sia, nel lessico medico, la fibra nervosa, più specificatamente la divisione di un vaso o di un nervo, visibile ai raggi X. Così come vi è uno scarto semantico nel caso del sostantivo «raggi», che, in prima istanza, indica i «raggi» ultravioletti, ma, se accostato alla figurazione del petto come “casa del cuore”(«la casa ben chiusa ed oscura», v. 16), assume il significato di «raggi» solari.
Gozzano, dopo aver passato una vita di solitudine, muore all’età di trentatré anni, andando incontro alla morte con «le mani in tasca».5 La condizione malata che lo ha costretto in esilio, lo ha esonerato, al contempo, dall’incombenza di trovarsi una professione vera (resterà per sempre l’«avvocato» senza laurea de La signorina Felicita, che si vergogna di essere, in realtà, un poeta). La poesia è stata per lui la cura da ogni male: non solo il passatempo ludico di una vita spesa in quarantena, ma anche il pretesto per “raccontare”, con «dolci (bellissimi) versi», ricchi di ironia, il risvolto giocoso di un’esistenza tragica.

 


1 Si veda il Lamento di quel tribulato di Strascino Campana Senese (1521) di Niccolò Campani.
2 Guido Gozzano, Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, a cura di Giorgio De Rienzo, Torino, Centro di studi piemontesi, 1971, p. 31.
3 Guido Gozzano, Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, cit., p. 50.
4 Guido Gozzano, I colloqui. Liriche di G.G., Milano, Fratelli Treves editore, 1911.
5 L’immagine di Gozzano come poeta disincantato, «con le mani in tasca», è di Montale, in Eugenio Montale, Gozzano, dopo trent’anni, in Prose I, Milano, Mondadori, 1996, p. 1272.
.

© Elena Santagata


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: