Ventidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con Il Giudizio, carta della nuova vita.
Romerolago Diazi si sentiva spietatamente solo. Ma era comunque ed estremamente soddisfatto di sé.
Non aveva fatto nulla, nella sua vita di maestro elementare, che gli potesse pesare sulla coscienza; ora, in pensione, si limitava a trottare da casa sua al baretto, e dal baretto a casa sua, scegliendo sempre, per colazione, un cappuccino tiepido e una brioche salata.
Si sedeva sotto i tigli, senza scambiare chiacchiere con nessuno, a vote schiacciando una pennichella riparato dallo scampolo di visiera che gli offriva il suo basco.
Romerolago Diazi era allergico ai tigli, ma questa allergia l’aveva colto quando era già quasi vecchio; così, pur di non cambiare le sue abitudini, usciva ogni giorno di casa imbottito di antistaminici (era anche per questo che aveva la pennichella facile). Si stringeva sempre al suo bastone da passeggio, un lungo ramo di ciliegio che aveva, come pomello, la testa rotonda di un coniglio d’argento.
Romerolago Diazi aveva pianto una sola volta, nella sua vita. Fu quando i suoi colleghi gli prepararono la festa d’addio prima della pensione. Era entrato in presidenza col suo passo macilento, e ci aveva messo qualche secondo a capire per quale motivo fossero tutti riuniti, dietro la scrivania, stretti a coorte, con una grossa torta di un insano colorito arancione che si scioglieva tra loro e la porta. Aveva sorriso battendo le mani, e gli avevano consegnato il suo regalo; dall’incarto non sembrava certo un maglione, ma a mano a mano che svolgeva la carta dall’asse di legno per arrivare al pomello l’ansia aumentava. Aveva uno strano presentimento, come il formicolio del catarro nei bronchi.
Quando aveva svolto la testolina, il respiro si era fatto più veloce, e la mano più lenta. Tutti si erano messi ad aspettare accerchiandolo con le loro teste curiose. Dalla carta regalo erano spuntati due occhietti neri, e un dentino intagliato sotto un musetto rotondo. Romerolago Diazi aveva trattenuto il respiro.
Fu solo quando liberò le orecchie, afflosciate in un unico blocco di metallo attorno alla testa, che scoppiò a piangere. Tutti applaudirono e risero. Romerolago Diazi piangeva di umiliazione e vergogna, a bocca aperta e a guaiti strazianti: erano anni che Romerolago Diazi, per la sua calma e la sua stolidità, veniva chiamato il coniglio.Quando cominciò la sua routine di pensionato allergico ai tigli, Romerolago usciva senza bastone. Quando tornava a casa e lo vedeva nel portaombrelli, lo guardava in cagnesco, e girava il viso del coniglio contro la parete. Ma sarà stato il peso del dente, sarà stato un eterno memento, ogni mattina il coniglio gli mostrava gli occhietti, e gli ricordava il gridolino con cui l’avevano accolto, per anni, allievi e adulti, bambini e colleghi: arriva il coniglio! ecco che arriva il coniglio!
Romerolago Diazi era buono e pacato, era calmo e gentile, Romerolago Diazi era forse un po’ tonto, e per questo tutti, dal ragazzino meno sveglio all’adulto più smaliziato, si erano sempre approfittati di lui. Non controllava i compiti, non sgridava per i ritardi. Pregava i bambini che studiassero, faceva loro lunghi discorsi sull’istruzione, che a volte svicolavano in ricordi d’infanzia che lo portavano a tirare su col naso e a lanciare lo sguardo in lontananza, alla ricerca della solidarietà della lavagna e del gessetto. Ma non aveva mai alzato i toni, non aveva mai chiesto rispetto, e tutti lo accontentavano non riservandogliene neanche una briciola.
Rodeva dentro, Romerolago, ma ripeteva a se stesso che non era vile, soltanto buono, e non riusciva ad essere nulla di diverso.
Per questo, forse, cominciò a guardare con più simpatia al bastone che dormiva nel suo portaombrelli. All’inizio cominciò col mettersi di fronte a lui, prima di uscire; il coniglietto lo guardava con lo stesso sguardo vispo che gli aveva riservato quando era nato dalla carta regalo. Poi prese confidenza, e iniziò a far scivolare la mano lungo le venature del legno. Fu quando gli toccò la testolina, verso il ventisettesimo giorno, che forse si intenerì. Da quel momento lo prese con sé nelle sue passeggiate.
Quella mattina, mentre aspettava il cappuccino e guardava sfilare la gente – gli piacevano tanto i matrimoni, adorava assistere alle mirabolanti avventure del pessimo gusto – un omino curvo, vestito di una giacca color linoleum, cominciò a guardare il suo bastone con insistenza. Romerolago lo lasciò fare. Era un ometto sui trent’anni, con pochi capelli e grossi occhiali tondi, il viso pulito e una cravatta oscena. Aveva lo stesso sentore di unto di un impiegatuccio represso, e sicuramente solo, solo come Romerolago Diazi; ma il vecchio capì subito che quella solitudine non l’aveva reso, come aveva fatto con lui, mite e buono, ma inadatto, incapace e fastidiosamente fuori luogo. Per questo provò disagio quando l’ometto si fece forza, si avvicinò e, drizzando la schiena come un oratore, gli disse:
«Ma voi siete Romerolago Diazi?»
Romerolago aveva sempre sognato di sentirsi rivolgere questa domanda, per dare una di quelle risposte che avevano tanto reso celebri antichi sofisti (chi mai può dirlo?), divi del cinema (dipende da chi lo cerca) e sfilze di commentari ai Vangeli (sei tu che lo dici). Ma mentre sceglieva perse il tempo comico, e decise di lasciar stare.
«Siete proprio Romerolago Diazi! Il maestro Diazi! Vi ricordate di me?»
La faccia di Romerolago si aprì in un sorriso interrogativo, poi in una smorfia di esclamazione. Non si mosse di una virgola e fece il punto dei suoi ricordi, e quando finì la punteggiatura si era ormai ricordato tutto.
L’omino era un suo vecchio allievo, l’unico ligio, l’unico che l’aveva sempre ascoltato. Il bambino aveva una grafia piccolissima, e riempiva tutto il quaderno con gli appunti e con i compiti per casa, che regolarmente chiedeva al maestro di correggere, anche quando già i suoi compagni avevano ammesso che avevano avuto altro da fare. Frignava quando attorno a lui c’era troppo fracasso, e si spostava impettito trascinandosi la sediolina fino alla cattedra, per ascoltare meglio il maestro. Quando suonava la campanella della ricreazione, correva con più fretta degli altri verso la porta, ma per placcare il maestro e fargli domande sulla lezione. Tornava a posto solo quando la campanella suonava di nuovo, i bambini tornavano a sedere, rossi di corsa e col fiato corto, e lui sottovoce commentava che puzzavano. Toglieva di bocca la risposta durante le interrogazioni, e cercava lo sguardo del maestro con i suoi occhioni compiaciuti e complici. Alla fine delle lezioni, gli stringeva la mano e sollevava il braccino per dargli una pacca cameratesca sulla spalla.
Alla fine dell’anno, quando Romerolago aveva salutato tutti i bambini raccomandando loro di studiare e ricevendo più solidarietà dalla parete alle sue spalle, il cucciolo di omino aveva aspettato che tutti defluissero per piazzarglisi accanto e aspettare il suo turno per la benedizione. Visto che restava muto, Romerolago decise di rompere il ghiaccio.
«Bambino» (nei suoi ricordi non riusciva a venirgli in mente il suo nome) «cosa farai quest’estate?»
«Guardate, signor maestro; credo che comincerò a studiare per il programma dell’anno prossimo. Mi sono fatto già comprare i libri da mio zio, che è ingegnere.»
«Ma non andrai al mare? Non giocherai un po’ con gli altri bambini?»
Il ragazzino rimase muto, storcendo la bocca.
«Non hai un hobby?» rincarò Romerolago. «Qualcosa che ti piace fare?»
«Sì, signor maestro.»
«E che cosa?»
«Ce li avete presente gli isolatori di porcellana?»
Romerolago lo guardò come si guarda la coda di una lucertola che continua a muoversi anche staccata dal corpo. Il ragazzino storse la bocca con un gesto teatrale, provato a lungo allo scopo di esprimere seccatura screziata di noia con una punta di coscienza riguardo al destino di solitudine che attende i Grandi.
«I tralicci elettrici, ce li avete presente?» riprovò.
«Sì?»
«Ecco, signor maestro. Quei dischi di ceramica che stanno in cima… No, signor maestro, quelli che corrono lungo le… lungo le aste. Sì, le aste. Non quelle che… Allora; guardate, questo è il traliccio, no? Qua sopra, signor maestro, qua sopra.»
Il maestro ricordò vagamente la forma di un traliccio, e per un attimo gli balenò che sì, dovevano esserci dei frisbee ingrassati tra un filo e l’altro. Dove, di preciso, non ricordava – all’incirca all’altezza della settima costola, sembrava dire il bambino.
«Io colleziono quei dischi.»
Il maestro era rimasto ancora ancorato al precedente concetto; quando la testa raggiunse le orecchie con uno scossone, Romerolago pensò al ragazzino che si arrampicava sui tralicci elettrici, e pensò se era il caso di avvertire i genitori dell’hobby estivo del figlio.
«E come li prendi, scusa?», disse lo yorkshire asmatico nella gola di Romerolago.
«Quando cadono a terra, no, maestro?»
Romerolago aggiornò l’archivio delle immagini raccapriccianti.
«A volte, sapete, mio zio mi accompagna. Lui conosce bene l’ambiente dei tralicci, ci sta dentro. È un pezzo grosso. Allora, maestro, mentre lui parla con gli operai io mi faccio accompagnare a raccogliere gli isolatori. Ne ho una mensola piena, a casa, signor maestro. E mi farebbe piacere» il ragazzino gonfiò il torace «se voi un giorno veniste a vederli.»
Il colletto impettito del ragazzino fu l’ultimo fotogramma del ricordo. Romerolago Diazi si ritrovò a guardare l’omino inamidato e trentenne con una smorfia di orrore.
«Sì, mi ricordo di te», sussurrò. «Che cosa fai di bello, adesso?»
«Signor maestro!» l’omino scoppiò in un risolino eccitato. «Ho seguito la mia grande passione. Ho ereditato il posto di mio zio, lavoro con i tralicci della luce.»
L’ultima sillaba, in realtà, fu poco udibile, perché il musetto d’argento del bastone aveva già mandato i denti dell’omino ben oltre le sue tonsille. L’omino emise un grugnito bavoso, ma le orecchie flosce del coniglio sbattute violentemente contro le sue gli fecero perdere il fiato e l’orientamento. Più si afflosciava a terra, più Romerolago picchiava, ora con l’asta, ora con il pomello. Smise solo quando l’omino scoppiò in lacrime con la faccia nel fango, sputando sangue e denti.
Romerolago guardò il bastone, diviso a metà, e un inizio di starnuto gli fece presente che l’effetto dell’antistaminico stava per finire. Scelse con gli occhi un bel posto per sotterrare il bastone, ai piedi del tiglio, e conservò solo la testolina del coniglietto d’argento, che da quel giorno sorrise più forte.
© Giovanna Amato