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Quando guardi cosa vedi: Misura, di Bernardo De Luca

Misura di Bernardo De Luca (LietoColle 2018, Collana Gialla) è un libro dove forma e contenuto sembrano richiamarsi in modo programmatico fin dal titolo: la misura è innanzitutto quella dei distici in cui è scandito ogni testo, e quindi un ordine, un rigore imposti in maniera strutturale; ma è anche, più profondamente, un tentativo di fare i conti con una certa realtà incattivita mantenendo su di essa un controllo razionale, e prima ancora emotivo. In questo senso, Misura a sua volta costituisce un distico con il primo libro di Bernardo, Gli oggetti trapassati, uscito nel 2014 per D’If, dove lo stesso mondo di scarti, detriti, veleni (scenario partenopeo nei mesi dell’emergenza, ma anche latamente e universalmente post-apocalittico) veniva però affrontato per via di esubero e catalogazione, affondando nel magma della materia degradata (“tutto ingurgita lo spazio che raccoglie/ i nostri morti, le cose inutilizzabili”). Per dirla con Francesco Orlando (rimando a Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, 1993 e 2015), quel primo libro era come un catalogo di oggetti sterili-nocivi (che segnano cioè una reazione e una riconquistata supremazia della natura contro l’uomo), in una variante però inimmaginabile prima dei più recenti disastri ambientali. In Misura non è cambiato lo sfondo e il repertorio sterile-nocivo, ma è come se l’accento emotivo venisse spostato di lato (anche grammaticalmente, a favore di un tu lirico), permettendo uno sguardo lucido e fermo sull’universo intossicato, e un registro stilistico raggelato. Così laddove negli Oggetti trapassati l’io reagiva ancora senza una regola, per inerzia e apatia (“il passaggio della soglia è un gesto/ che non prova terrore, non ha importanza”), svilente senso di vuoto (“poca cosa la stupida/ mia presenza”) o con premuroso allarme (“Posso solo coprirti gli occhi, evitarti/ la paura”), nel nuovo libro si trattiene l’energia, si fissa il tono, si persegue una cadenza analitica. Talvolta la normalità del disastro viene contemplata da un interno domestico, da una finestra notturna che è anche specola adulta di routine e responsabilità: “«Noi dobbiamo assolutamente sopravvivere»/ il televisore parla le sue lingue/ sale un odore di detersivo dai bicchieri./ Sei andato alla finestra”, p. 16; “ti chiedi/ come proteggi quelli che non parlano/ che nella stanza buia stanno/ in un angolo a dormire”, p. 32. Il bisogno di logicizzazione porta invece a conclusioni antifrastiche, che non sono altro che accettazione della dialettica fondamentale passato/avvenire, immobilità/movimento, morte/vita: “Prova a non muoverti/ trattieni./ Muoviti/ segui la scia.”, p. 13; “È solo un’immagine/ è ciò che ora ti vede”, p. 29; “quando guardi cosa vedi/ la stasi di ogni movimento”, p. 33; “ognuno sta dove/ non può tornare…”, p. 44. La sfida della misura avviene dentro la città smisurata, “aperta e chiusa/ nell’intermittenza delle sirene”(p. 20), distesa “nella sua aria spettrale” (p. 27), agglutinata ai paesi che “s’addensano all’incrocio delle statali” (p. 18). Ma è soprattutto la città velenosa “coi suoi buchi neri”, che “si espande nei fumi dei polimeri” (p. 28). Contro la pioggia di scorie, “muovere la scopa/ è un gesto di speranza” (p. 22, immagine speculare a quella dello spazzino che negli Oggetti trapassati “spazza croste/ essiccate del giorno precedente/ in un lavorio di rozza precisione”). Si osservano “lastre di acciaio/ lamiere dei capannoni sventrati” (p. 34), il mare diventato “un’escrescenza della plastica” (p. 48), un paesaggio post-umano in cui sperimentare la morte in vita: “Sai cos’è la bellezza di queste/ strade inumane, le rovine/ come domande sospese” (p. 35). Questa contrastata esperienza estetica ha molto a che fare con un certo sentimento romantico del Sublime, ma appunto si tratta ora di un Sublime di nuova maniera, in cui nessuno può dirsi veramente al riparo dalle rovine, nessuno può considerarsi del tutto incolpevole rispetto al loro accumularsi. Proprio in un libro che ha fatto della misura dichiarata il proprio solco di scrittura, non deve sorprenderci allora questo sentimento ambiguo di grandezze e forze incommensurabili, che sono anzi la ragione profonda del correre ai ripari, di un dare argini formali all’apprensione. Come di fronte alla notte che appare quale “uno scintillio di roghi” tra cui si muovono “gli uomini della caligine” (p. 45), immagine che sembra congiungere la Terra dei Fuochi e l’ultimo Twin Peaks. Ma è ancora quel tono freddo a registrare che “non sono una minaccia, sono ciò che vedi” (p. 45), e questa evidenza basta a darci la misura del guasto. Bernardo raggiunge così il risultato ammirevole e raro di una poesia civile in assenza di enfasi e protagonismo.

@ Andrea Accardi

 

«Noi dobbiamo assolutamente sopravvivere»
il televisore parla le sue lingue,

sale un odore di detersivo dai bicchieri.
Sei andato alla finestra. Hai aperto

un’anta e a passi lenti hai camminato:
la ringhiera, il freddo ferro verde,

ti divideva dalla strada e il piombo
scendeva dentro nei polmoni.

Sei rientrato in casa, hai messo su l’acqua:
hai aspettato che il tè bruciasse gli organi.

***

L’allarme ha risuonato nelle tempie
è passato di occhio in occhio, qualcuno

ha formulato ipotesi, nessuno
ha chiara la natura dell’evento.

Inutilmente digitano le mani
le porte chiuse dell’informazione.

Restano le facce che non si leggono
i cerchi e le serpentine dei movimenti

questo camminare, aprire e chiudere
di portoni, e in un sussulto tutta

la città si è aperta e chiusa
nell’intermittenza delle sirene.

***

Le piscine lasciate vuote, i bordi
come precipizi su mattonelle sporche

e intorno s’accalcano i resti
degli ombrelloni, le sdraio come promesse

inascoltate. Gli alberi si muovono
nel tempo grigio dei polimeri

che si accumulano. Ti domandi
cosa resta di te nella materia

che si consuma più lenta del corpo
cosa per te circoscrive il dissiparsi.

***

Sai cos’è la bellezza di queste
strade inumane, le rovine

come domande sospese, le stazioni
di servizio abbandonate come

un nuovo paesaggio ospitale
la consuetudine senza combustibile.

Al tuo fianco, lei non si abitua
a vedere nel grigio diffuso il tono

del tuo mondo, nel dominio della geometria
la possibilità di percorrere le forme

di quest’era glaciale – tu che osservi.
Ha ragione, dispera più di te.

***

Per molti giorni hai cercato un rifugio
il posto che racchiude una certezza

visitando le strutture degli agglomerati urbani
palazzi caserme alberghi, niente

presentava ai tuoi occhi
l’inesauribile coscienza della sicurezza.

Ogni edificio turbava con i suoi angoli
di buio, le zone d’ombra senza controllo

in ognuno scorgevi nient’altro che
una serie interminabile di agguati.

***

Superstiti III

«…dall’altra parte del lago
non aveva più importanza

quale fosse la posizione
dello stare, se su o giù

o nella impercettibile stazione
del mezzo. Sapevamo ormai

che ognuno sta dove
non può tornare…»

***

 

La notte è diventata uno scintillio di roghi
il fumo è una nebbia che accompagna la sera.

In lontananza bruciano anche i monti
la città è circoscritta nelle fiamme.

Gli uomini della caligine non sono mai
stati qui, restano in silenzio e si muovono

senza direzioni. Vengono da fuori
e non portano nulla, non sanno nulla.

T’inquieta vederli nei dintorni:
non sono una minaccia, sono ciò che vedi.

2 risposte a “Quando guardi cosa vedi: Misura, di Bernardo De Luca”


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