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Lorenzo Pompeo, La “invenzione” di Buenos Aires di Jorge Luis Borges (1921-1929)

Quando, nel 1921, il poeta ventiduenne ritornò nella sua città natale, dopo sette anni di permanenza in Europa, «Era un giovanotto che aveva vissuto in Svizzera e in Spagna, aveva imparato il latino, il francese e il tedesco, aveva partecipato indirettamente a dei movimenti d’avanguardia ed era divenuto membro attivo di un nuovo gruppo, quello degli ultraisti; aveva pubblicato recensioni, articoli e alcune poesie, e aveva scritto due libri. A ventun anni era ancora timido ma abbastanza stagionato».
I Borges andarono ad abitare in una casa su via Bulnes, non molto lontano dal vecchio quartiere Palermo, e vi rimasero per due anni. Jorge cominciò lì ad avere un’abitudine che avrebbe mantenuto fino a cinquant’anni inoltrati: camminava moltissimo per le strade di Buenos Aires, percorrendo distanze enormi «Imparò così a conoscere Buenos Aires, o almeno la sua Buenos Aires; si trattava di percorrere, centimetro per centimetro, ripetutamente, un territorio che i suoi scritti avrebbero percorso allo stesso modo.»
Ma l’indirizzo di Buenos Aires al quale rimase per tutta la vita affezionato era la casa nella quale visse gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, al numero 2135 di Calle Serrano, quartiere Palermo. In una conversazione con Napoleon Murat nel 1964 Borges la ricorda così:

Quando ero ragazzo, la città finiva lì, a cinquanta metri da casa nostra. C’era un ruscello piuttosto sporco chiamato Maldonado, poi dei terreni incolti, e la città ricominciava di nuovo a Belgrano. Quello che c’era tra il ponte Pacifico e Belgrano non era campagna: sarebbe una parola troppo bella. C’erano dei terreni abbandonati e delle ville. Il quartiere era molto povero. In Calle Serrano c’erano solo tre case a due piani con patio. Sembrava di essere al confine estremo della città.

Scrive Emir Rodriguez Monegar in, Borges, una biografia letteraria: «I Borges erano indubbiamente degli estranei a Palermo: erano per metà inglesi e discendevano da una antica famiglia argentina. Palermo invece era una città di emigranti, una specie di terra di nessuno dove lavoratori “poveri ma rispettabili” abitavano vicino a mezzi delinquenti le cui energie erano prese da attività come il ruffianaggio, la prostituzione e vari tipi di azioni criminali.»[1]

Come racconta lo stesso Borges, i contatti con il mondo al di fuori del giardino di casa erano rari: «Il giardino di Palermo era un luogo privilegiato da cui Georgie poteva osservare il mondo esterno. Era un luogo sacro. Ma era anche la porta d’accesso ad un’altra realtà: la realtà della gente che viveva vicino a lui in case a un solo piano, gente che non aveva l’acqua corrente in casa né possedeva la sicurezza di un giardino proprio. Georgie e Norah non lasciavano quasi mai il loro rifugio» – scrive Monegar.  Malgrado il tempo ne avesse già allora alterato i connotati, il quartiere Palermo e il giardino di Calle Serrano rimarranno per Borges dei luoghi topici, il centro del suo mondo letterario.
Non appena lo scrittore si ristabilì a Buenos Aires, divenne il capo di un gruppo di giovani poeti, anch’essi interessati alla letteratura d’avanguardia, e con loro fondò una rivista letteraria, Prisma. Ne uscirono solo due numeri. Borges così rievoca gli aspetti più pittoreschi dell’impresa: «Il nostro piccolo gruppo oltranzista era ansioso di avere un suo giornale, ma i nostri mezzi non ce lo permettevano. Fu guardando gli annunci pubblicitari che mi venne l’idea di stampare un giornale murale. […] Così facemmo delle sortite notturne armati di colla e pennelli forniti da mia madre e, camminando per chilometri e chilometri, attaccavamo il foglio qua e là lungo le vie Santa Fe, Callao, Etre Rios, e Mexico.»
In quegli anni era al potere il Caudillo Hipolito Yrigoyen, figlio di un immigrato basco analfabeta, primo presidente eletto, nel 1916, nelle prime elezioni a suffragio universale maschile con voto segreto. L’Argentina era nel pieno di un’impetuosa e turbolenta fase di sviluppo industriale e gli emigranti dall’Europa (prevalentemente italiani) trovavano facilmente lavoro. Questo irruento processo di sviluppo aveva creato una nuova classe sociale: il proletariato urbano. La nascita dei sindacati (anarchici e socialisti), le lotte operaie, gli scioperi e le feroci repressioni che ne seguirono furono un chiaro segnale delle profonde mutazioni che stava attraversando la società argentina in quegli anni. Risale al 1927 il celebre reportage di Albert Londres, Le chemin de Buenos Aires (la traite des Blanches), che faceva luce sulla “tratta delle bianche”, ovvero il fiorente commercio di donne proveniente dall’Europa (Francia e Polonia) spedite in Argentina per essere avviate alla prostituzione. Furono proprio questi gli anni in cui il tango, nato nei postriboli di Buenos Aires e Montevideo, divenne popolare in tutto il mondo (tanto che nel 1912 il papa Pio X lo proibì). Lo stesso Borges dedicò a questo fenomeno il suo saggio Storia del Tango, nel quale, relativamente alla questione delle sue origini, scrisse: «i miei informatori concordavano tutti su di un punto essenziale: la nascita del tango nei lupanari». A rafforzare questa tesi, riporta un suo ricordo personale: «il fatto, che potei osservare io stesso da bambino in Palermo e anni più tardi alla Chacarita e in Boedo, che lo ballassero per le strade soltanto coppie di uomini, perché le donne del popolo non volevano compromettersi in un ballo da puttane.»
Proprio in questi anni esplode in tutto il mondo il “fenomeno Carlos Gardel”. Nel 1917, in occasione di un concerto al teatro Empire di Buenos Aires, il cantante mise in repertorio Mi noche triste, un tango di Samuel Castriota e Pascual Contursi che viene considerato uno dei primi esempi di tango-canzone (tra l’altro caratterizzato dall’uso del lunfardo, il gergo dei bassifondi di Buenos Aires infarcito di parole di origini italiane). Da allora incise centinaia tanghi. Le tournée di Gardel in Argentina e all’estero, i film da lui interpretati e la sua figura, oggetto di un vero e proprio culto popolare, renderanno il tango celebre in tutto il mondo. La sua scomparsa prematura, a causa di un incidente aereo, nel 1935, lo rese una vera e propria leggenda.
Anche dal punto di vista architettonico e urbanistico Buenos Aires stava vivendo un tumultuoso sviluppo. Il Colón, allora il più grande teatro lirico dell’America latina, progettato dall’architetto italiano Francesco Tamburini, venne inaugurato nel 1908 con l’Aida. Nel 1923 terminarono i lavori del Palazzo Barolo, fino al 1939 il più alto edificio dell’America latina, uno dei più eccentrici edifici della capitale, un progetto pionieristico per la sua epoca per l’uso ardito del cemento armato e firmato fin nei minimi dettagli dell’architetto italiano Mario Palanti in uno stile definito “eclettico” (che combina elementi art nouveau, art déco con elementi gotici e arabo-indiani).
Scrive Maryse Reunau: «Paradigma della complessità urbana, simbolo dell’evoluzione storica di tutto il paese, la capitale argentina si presenta in primo luogo sotto l’aspetto di metropoli popolosa. Non è difficile trovare nei nostri scrittori allusioni precise, addirittura quantificare numericamente, allo sviluppo demografico senza precedenti fatto registrare dalla capitale nei primi anni del XX secolo. Abbagliati in rari casi dall’immensità di una città ormai allo stesso livello delle più grandi metropoli internazionali, molto più spesso storditi e prostrati dalla marea quotidiana e meccanica di una popolazione laboriosa che pare quasi sonnambula, personaggi e narratori divengono l’eco di questo mondo ipertrofico e disumanizzato in cui le masse sembrano aver avuto ragione dell’individuo.»
Fu questo lo sfondo in cui Borges pubblicò nel 1923, alla vigilia di un viaggio per l’Europa (1924), Fervor de Buenos Aires, la sua prima raccolta di poesie uscita in trecento copie. Furono proprio le forti impressioni ricevute al ritorno in seno alla sua città natale l’oggetto di questa raccolta, come racconta lo stesso autore: «Tornammo a Buenos Aires sul Reina Victoria Eugenia alla fine di marzo del 1921. Fu per me una sorpresa, dopo essere vissuto in tante città europee – dopo tanti ricordi di Ginevra, Zurigo, Nimes, Cordoba e Lisbona – trovare la mia città natia così diversa. Era diventata grandissima, una enorme città di bassi edifici dal tetto piatto che si stendeva a occidente verso la pampa. Era più che un ritorno a casa; era una riscoperta. Potei vedere Buenos Aires con un interesse e un’emozione mai provati perché ne ero stato lontano tanto tempo. Se non fossi mai stato all’estero credo che non avrebbe mai avuto per me quel fascino che adesso aveva. La città – non tutta la città, naturalmente, ma alcuni luoghi che per me divennero emotivamente significativi – ispirò le poesie del primo libro che pubblicai, Fervor de Buenos Aires».[2]
Questo sentimento di meraviglia, di scoperta e riscoperta, di spaesamento e orientamento è ben espresso nella lirica Sobborgo:

Il sobborgo è il riflesso del nostro tedio.
I miei passi claudicarono
quando stavano per calpestare l’orizzonte
e restai tra le case,
quadrangolate in isolati
differenti ed uguali
come se fossero tutte quante
monotoni ricordi ripetuti
di un solo isolato.
L’erbetta precaria,
disperatamente speranzosa,
spruzzava le pietre della strada
e vidi nella lontananza
le carte di colore del ponente
e sentii Buenos Aires.
Questa città che credetti mio passato
è il mio avvenire, il mio presente;
gli anni vissuti in Europa sono illusori,
io stavo sempre (e starò) a Buenos Aires.

Il giudizio che Borges maturo diede del suo debutto non fu lusinghiero: «l’essenza del libro era romantica, anche se era scritto in uno stile piuttosto asciutto e abbondava di laconiche metafore. Celebrava i tramonti, i luoghi solitari e gli angoli sconosciuti; si avventurava nella metafisica berkeleyana e nella storia di famiglia; ricordava antichi amori.»[3] Malgrado queste autocritiche («temo che il libro fosse un gran mattone» scrisse nella sua Autobiografia),[4] Borges ne riconosce l’importanza in relazione alle sue opere successive: «Mi pare che tutto quello che ho scritto in seguito abbia soltanto sviluppato dei temi che avevo affrontato lì dentro e che in tutta la mia vita non abbia fatto che riscrivere quell’unico libro»).[5]
Per quanto riguarda i rapporti con la poesia ultraista e l’ultraismo, la parola d’ordine lanciata qualche anno prima da Vicente Huidobro e che divenne il credo di un piccolo gruppo di poeti che si riuniva al café Pombo (“la tertulia del café Pombo” ovvero il gruppo di letterati guidati da Ramon Gomez de la Sierna) a Madrid, di cui Borges, durante il suo soggiorno a Madrid, nel 1921, aveva fatto parte (quell’anno aveva pubblicato alcune poesie “ultraiste” su qualche rivista), con Fervor de Buenos Aires l’autore prese le distanze da quel movimento e dalle sue prime prove poetiche “ultraiste” (le definirà «timide stravaganze dei miei vecchi esercizi di ultraismo spagnolo»).[6]
In Fervor l’autore ripercorre i luoghi cari della sua infanzia e quelli legati alla sua famiglia, (come il cimitero della Recoleta dove riposavano i suoi parenti) nella diegesi dell’instancabile flâneur («Ormai le strade di Buenos Aires/ sono le viscere dell’anima mia./ Non le strade veementi/ assimilate da smanie e trambusto,/ ma la dolce strada dei sobborghi/ tiepida di penombra e crepuscolo» – scrive Borges in Carme presunto).
Nel corso del suo breve viaggio in Europa, nel 1924, Borges visitò di nuovo la Spagna, dove il movimento ultraista si era ormai disgregato (le piccole riviste legate a quel movimento avevano chiuso i battenti e le parole d’ordine dell’avanguardia non facevano più presa). Nel 1923 venne lanciata «Revista de Occidente», rivista fondata da Ortega y Gasset, pubblicata fino allo scoppio della Guerra civile, che divenne il centro della vita culturale e intellettuale del paese. Fu su questa rivista che Ramon Gomez de la Serna recensì la raccolta del suo vecchio amico Jorge, da lui definito “un ragazzo pallido di grande sensibilità”.  Lo stesso Borges collaborò alla rivista, sulla quale, nel 1924, comparve il suo articolo Magnificazione e diffamazione di Quevedo, nel quale l’autore esalta il poeta barocco spagnolo come modello contrapposto a Gongora, secondo lui interessato solo agli aspetti formali del verso (più tardi ebbe modo di correggere questo giudizio).
Al suo ritorno in Argentina, Borges si accorse con stupore che qualcuno aveva letto e apprezzato Fervor. Nel frattempo la famiglia si era trasferita in una casa più centrale. Nel 1924 era stata inaugurata a Buenos Aires una nuova rivista, «Martin Fierro», a cui il poeta, appena tornato in patria, cominciò a collaborare. Contemporaneamente si gettò in una nuova impresa editoriale e culturale fondando, insieme agli amici Ricardo Guiraldes e Pablo Rojas Paz, una nuova rivista, «Proa», della quale vennero pubblicati quindici numeri (l’impresa andò avanti per un anno e mezzo). Nella sua Autobiografia lo stesso Borges scrive:

C’era entusiasmo e sincerità nel nostro lavoro; eravamo certi di star rinnovando sia la prosa che la poesia. Naturalmente, come tutti i giovani, cercavo di essere più infelice che potevo – una specie di Amleto e di Raskol’nikov fusi in una persona sola. Ciò che noi realizzammo allora non valeva nulla, ma la nostra amicizia era incrollabile.[7]

Alle collaborazioni con le due riviste si aggiunse quella con le pagine letterarie del quotidiano «La Prensa» e a partire dal 1927, quelle con la rivista «Sintesis». In questi anni Borges scrisse e pubblicò moltissimo: articoli, poesie e recensioni. Alcune sue liriche furono pubblicate in tre antologie, la Antologia de la poesia argentina moderna, del 1926, l’Indice de la nueva poesia americana (anch’esso del1926) e, l’anno seguente, nella Exposicion de la actual poesia argentina.
Uscirono in questi anni le due raccolte di poesie Luna de enfrente, nel 1925, e Cuaderno San Martín, nel 1929 (questa gran quantità di pubblicazioni furono rielaborate e ristampate nelle pubblicazioni degli anni successivi). In esse l’autore dà seguito a quella (ri)scoperta delle proprie radici che aveva attraversato Fervor, ma in una prospettiva più ampia (Borges cominciava a essere un poeta noto in patria e nel mondo ispanofono), come testimonia la lirica Dulcia linquimus arva, pubblicata nel ’25 (il titolo riprende i celebri versi della prima ecloga delle virgiliane Bucoliche: Abbandoniamo i dolci campi”) nella quale ripercorre la storia del suo paese dalle origini («Una amicizia fecero i miei avi/ con questa lontananza/ e conquistarono l’intimità dei campi/ e legarono alla loro destrezza/ la terra, il fuoco, l’aria, l’acqua./ Furono soldati e latifondisti»), rievocando la vita agreste dei suoi avi con un tono elegiaco ispirato ai versi virgiliani. Nel finale però il poeta deve ammettere: «Sono un borghese e non so più queste cose,/ sono un uomo della città, del rione, della strada/ i tram lontani mi aiutano la tristezza/ con quel lamento lungo che emettono di sera.»
Nel ’29, in Cuaderno San Martin, apparve la lirica Fondazione mitica di Buenos Aires, nella quale il poeta immagina che la città fosse stata fondata proprio nell’isolato del quartiere Palermo dove aveva vissuto gli anni della sua infanzia («Fu un isolato intero e nel mio quartiere: a Palermo.// Un isolato intero ma in mezzo alla campagna/ esposto alle aurore e a piogge e a venti del sudest./ Quell’isolato preciso che rimane nel mio quartiere:/ Guatemala, Serrano, Paraguay, Garruchaga»), rievocato anche nell’Elegia dei portoni («Questa è un’elegia/ di un Palermo tracciato con vaevieni di ricordo/ e che se ne va nella morte piccola degli oblii»).

Anche la biografia del poeta Evaristo Carriego (un poeta minore vissuto nel quartiere Palermo e che qui morì di tisi a ventinove anni, nel 1912), che Borges pubblicò nel 1930, è parte della rievocazione del quartiere della sua infanzia. In realtà la biografia in questione è l’ultimo tributo dello scrittore a Palermo. Il personaggio di Evaristo Carriego viene considerato espressione dell’immaginario di quella cultura urbana “porteña” d’inizio ‘900 nel quale era nato il tango (non caso in una riedizione di questa biografia venne aggiunto il citato saggio sulla Storia del tango), ricordi di un passato già lontano, ma che proprio per questo poteva essere rievocato attraverso quella elegiaca esaltazione delle “memorie dei tempi che furono”, circonfusa da un’aurea romantica ed epica, nella quale l’onore dei compadritos (termine più o meno analogo al napoletano “guappo”) era difeso a fil di lama di coltello.
Di segno opposto rispetto a questa versione “romantica” della cultura popolare urbana fu l’immagine della capitale argentina nella prosa di Roberto Arlt, lo scrittore che viene spesso contrapposto a Borges, ma che in realtà era da questi stimato (tra l’altro i due si conoscevano bene). A partire dal suo romanzo di esordio del 1927, El juguete rabioso, Arlt si dedica all’esplorazione dello spazio urbano. Le nevrosi, le paure, le parole usate dall’uomo di strada entrano per la prima volta nel mondo delle belle lettere dell’America latina. Buenos Aires di Arlt è una città spietata, che opprime i suoi abitanti con la sua vita frenetica e la tirannia del denaro. Venne artificiosamente creata una contrapposizione tra i due, capofila di due gruppi rivali che avrebbero prediletto alcuni caffè posti in due diversi quartieri della città, la “mondana e colta” Florida contrapposta al quartiere operaio Boedo. A proposito lo stesso Borges scrisse:

Avrei preferito essere nel gruppo di Boedo visto che stavo scrivendo della vecchia zona nord e degli slums, di tristezza e di tramonti. Ma fui informato da un paio di cospiratori – che erano Ernesto Palacio, di Florida, e Roberto Mariani, di Boedo – che ormai ero già uno dei guerrieri di Florida ed era troppo tardi per cambiare. Fu tutta una faccenda combinata. C’erano degli scrittori che appartenevano ad ambedue i gruppi – Roberto Arlt e Nicolas Olivari, per esempio.[8]

La presunta rivalità o la contrapposizione tra Borges e Arlt, evidentemente è solo un artificio di cui si sono serviti storici della letteratura e critici superficiali. In definitiva il “mito” di Buenos Aires è una medaglia dalle due facce, apollinea quella di Borges e dionisiaca quella di Arlt.
La crisi del ’29 mise in ginocchio l’economia argentina. Le esportazioni di prodotti agro-alimentari, che era stato il motore del paese, crollarono. L’esplosione della disoccupazione diede vita al fenomeno delle villas miserias, agglomerati di baracche abitate dal sottoproletariato urbano e dai contadini in fuga dalla miseria delle campagne. Il colpo di stato del generale Uriburu, nel 1930, il primo di una lunga serie, diede inizio a quello che viene ricordato dalla storiografia come il “decennio infame”. Borges fino al 1960 non scriverà più poesie. Il tempo delle elegiache rievocazioni del “suo” Palermo era ormai tramontato definitivamente.

© Lorenzo Pompeo

 

[1] Emir Rodriguez Monegal, Borges, una biografia letteraria, Feltrinelli, Milano 1982.
[2] Jorge Luis Borges, Autobiografia, El Ateneo, Buenos Aires 1999, p. 63, tradotto in Monegal, op. cit., p. 164.
[3] Monegal, op. cit., p. 171.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem, pp. 184-185.
[8] Ibidem, p. 188.

Una replica a “Lorenzo Pompeo, La “invenzione” di Buenos Aires di Jorge Luis Borges (1921-1929)”


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