Ventidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con La Luna, carta della chiaroveggenza.
Sono un animale da lavoro. Datemi responsabilità, scadenze, e ognuna di quelle piccole fibrillazioni che il mio incarico prevede (sono un insegnante, dovrei fornire al mondo un alto livello di competenza e il massimo grado di improvvisazione) e io le porterò avanti in anticipo e con voce ferma. Mi costa molto: mi costa un’ansia montante dal risveglio al caffè alla colazione in strada al viale fino al cancello percorso un piede davanti all’altro, tanto che sembra io mi stia avviando verso la fossa dei leoni, tanto che ogni volta mi sussurro: vorrei fosse domenica. Quotidianamente dimentico che tutto passa, e che le mie scartoffie sono sotto controllo, e che una volta in aula divento un mattatore. Ma ogni volta, percorrendo il viale con il mio cornetto al miele chiuso nella borsa, mi sussurro: vorrei fosse domenica.
Poi la domenica arriva, e non posso fare altro che staccare la sveglia nella speranza di dormire fino a lunedì. Qualche volta mia madre mi chiama, verso le tre del pomeriggio, e fa ironia: potevi anche fare una sola tirata fino al funerale.
Per i miei amici, per qualche strana disposizione delle stelle, sono qualcuno da cercare durante la settimana, quando sono tanto oberato da doverli incastrare alla fine di una giornata di impegni. Le loro domeniche sono deputate ad altro, non come le mie. Certo, è il giorno della lavatrice, e quello in cui passo l’aspirapolvere con più perizia, e così va via ben un’ora delle otto di veglia che mi separano dal lunedì. Sbrigo piccole cose, come sentirmi occupato se vado un’oretta a leggere in un bar, o camminare fino al supermercato per la spesa settimanale. Ma ancora, il carico di ore della domenica, nella mia casa che si restringe come un paio di pupille non abituate a guardarmi, mi grava sulla schiena.Faccio il giro della dispensa per controllare cosa posso mangiare a cena, ad esempio. Spuntano sempre cose nuove, tra lo scatolame, che non ricordavo di avere. Oggi, tra il decaffeinato e lo zucchero, è il turno del brick di un succo alla pesca: me l’hanno dato qualche giorno fa, dopo un ritardo faraonico del treno su cui viaggiavo, gli omini ci aspettavano al binario con un sacchetto contenente un tramezzino, una barretta di cioccolata e il succo. Sono allergico alla pesca, quindi non l’ho neanche guardato, è lì per qualche ospite; ignoro la scadenza di un alimento in un brick, non compro succhi, non compro latte, quindi controllo per puro scrupolo e scopro che probabilmente questo succo mi sopravvivrà.
La verità è che non posso scrivere, se non ho già avuto una giornata devastante. La verità è che non appunto versi a meno di non star correndo con il taccuino in mano tra la scuola e il tram che deve portarmi a casa a scrivere un articolo. La verità è che non penso a storie a meno di star spiegando la Rivoluzione Industriale con uno schema alla lavagna, il mignolo che trema come per appuntarsi l’idea in codice morse. Il mio cervello brilla a patto di star già brillando.
Poi, la domenica, l’ansia del troppo diventa qualcosa di peggio, diventa l’ansia del nulla. Potrei riposare, ma cos’è il riposo? È il contatto con un me con il quale sono già a contatto abbastanza, che vuole operare, modellare la materia del mondo, essere pronto a correre e luccicare portando a termine ogni minima missione il mondo gli detti in sorte. Potrei distrarmi, ma cos’è la distrazione? È compiere qualche gesto che mi ricorda, nell’attimo in cui viene compiuto, che non sto mettendo a frutto niente della mia giornata. È il demone dell’accidia, quello che insisto essere il più doloroso dei peccati capitali.
Resto alla finestra ad aspettare che il celeste viri al rosso e poi si anneri, solo allora è ora di cena, e cucinare è qualcosa di concreto, e davanti alla cena si può ben vedere a cuor leggero un poco di televisione.
Poi, puntualmente, il miracolo che dimentico ogni settimana accade. Prima il mio orecchio, poi la mia testa intera, pensano a una fiaba che arriva tutta insieme, si srotola come se avessi pensato misura per misura a come costruirla. Stasera è la fiaba del Signore delle Bestie, che chiama gli animali a raccolta per riparare i loro corpi danneggiati in battaglia. Il Lupo delle Terre del Nord chiede una zampa, che ha perso nella trappola di un bracconiere. La Lucertola delle Lande del Sud chiede una coda, abbandonata sotto la zampa di un puma. Il Cervo delle Selve dell’Ovest chiede le corna, incrinate dopo una lotta per una femmina. Solo la Lepre delle Piane dell’Est ubbidisce al richiamo del Signore delle Bestie, ma non vuole che le si ripari la crepa dentro il cuore, perché quella crepa si è formata il giorno che ha guardato l’aurora in mezzo alla tempesta, col muso dritto in mezzo a quello squasso.
Ci vorranno un’oretta o due, per la prima stesura. Anche questa domenica non farò in tempo a mangiare, e probabilmente andrò a dormire tardi.
© Giovanna Amato