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Gli Arcani Maggiori #16: LA TORRE

Ventidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con La Torre, carta della rottura.

 

La prima volta che se ne accorse, Lei si era fermata su una sedia in cortile per fumare una sigaretta prima di rientrare a casa. Faceva buio molto presto, e il cielo del pomeriggio era di un gonfio grigio scuro: così qualcuno, in un piano alto dello stabile, aveva acceso una luce che l’intelaiatura del cemento di fronte assorbiva, restituendo un riflesso morbido e azzurro. Bisognava alzare lo sguardo verso l’alto per accorgersene, e Lei lo vide quasi per caso, dal profondo del suo cortile. Per qualche memoria che non le apparteneva, provò tenerezza e fumò la sua sigaretta per intero fissando la luce impressa contro il muro, che portava la sagoma verticale del telaio di una finestra. Quando ebbe finito la sigaretta si alzò e non pensò più a quello che aveva visto.
Ma quella sera, quando stava per mettersi a dormire, si accorse che puntando lo sguardo da un angolo della stanza riusciva a vedere la sagoma del riflesso sul muro di fronte, perché la finestra da cui proveniva la luce era proprio accanto alla sua. Allora trascinò il letto in modo da riuscire a guardare il riflesso, che le conciliò il sonno.
Il giorno dopo non pensò al riflesso finché fu di nuovo ora di tornare a casa. Accese la sigaretta in cortile come aveva sempre fatto, e solo allora il gesto le fece ricordare di alzare lo sguardo verso il muro. Il riflesso era di nuovo lì, della stessa forma e con la medesima intelaiatura di come lo ricordava. Fumò una prima sigaretta, poi una seconda, e continuò a guardare quella forma cercando di capire se le ricordasse qualcosa che poteva giustificare tutto quell’affetto. Perché era affetto vero e proprio quello che portava per quella sagoma azzurrina, come lo si potrebbe portare a un luogo che ci è stato caro da bambini o a un oggetto regalato da una persona amata.
«Guarderò questo riflesso come i giapponesi sistemano i fiori o prendono il tè», disse a se stessa, «con la stessa tenera attenzione.»
All’improvviso, alla terza sigaretta, vide il profilo del riflesso cambiare: l’asse del telaio scorse fino al limite della zona illuminata e una forma tonda e scura, con tutta probabilità una testa, ne occupò la parte centrale. Lei provò un’immediata rabbia per quell’intrusione. Non le importava che fosse grazie al suo vicino che quel riflesso esisteva: lui non aveva il diritto di interrompere quel sortilegio con il volgare gesto di affacciarsi alla finestra. Spense la sigaretta sotto il piede, la buttò nel cestino comune e salì le scale di corsa per non correre il rischio di incontrare il vicino se fosse uscito. Di nuovo, quella notte, sistemò il letto in modo da guardare l’area illuminata e riuscì a prendere sonno prima che la luce si spegnesse.
La terza sera portò in cortile un libro e una lucina da campeggio, per passare del tempo in compagnia del riflesso. Era bellissimo fare le cose che avrebbe fatto una volta a casa ma sotto il chiarore benedicente di quel taglio di luce di cui era innamorata. Nessun contorno umano disturbò quelle ore.
Finché, a un certo punto della sera, un ragazzo fece irruzione rapidamente nel cortile e alzò lo sguardo verso l’alto. Lei se ne accorse, e non le sembrò affatto strano che il ragazzo rimanesse improvvisamente rapito da quella sagoma, incapace di smettere di fissarla.
«Io vengo qui ogni pomeriggio soltanto per guardare quel riflesso», gli disse chiudendo il libro. «Cerco di comprendere che forma abbia, in qualche mia memoria lontana, ma non riesco. Allora rimango solo a fissarlo, per me ha più senso che guardare la luna o le costellazioni.»
Il ragazzo si voltò verso di lei, sembrando sovrappensiero. Improvvisamente a Lei sembrò di aver detto una cosa stupida o terribilmente intima, così gli tese la mano di fretta e gli disse il suo nome, e Lui fece altrettanto.
Qualsiasi cosa avesse portato il ragazzo a entrare in cortile a rotta di collo sembrava essere stata dimenticata, perché Lei, notò subito Lui, aveva i capelli più neri che avesse mai visto e gli occhi di un capriolo. Lui sedette accanto a lei su una sedia e la pregò di parlargli del riflesso. A Lei, dietro preghiera, non sembrò più di parlare di una cosa stupida e gli raccontò di come di notte orientava il letto e di come quel semplice riflesso contro il muro le dava l’impressione di essere protetta da qualcosa di bello e superiore. Poi Lei gli chiese cosa facesse in quel cortile. Lui spiegò che aveva un invito a cena ma probabilmente aveva sbagliato ingresso, e che anzi avendo fretta sarebbe dovuto andare. Quindi si alzò, le salutò e sparì oltre il portone dell’ingresso principale. A Lei dispiacque vederlo andare via perché aveva i capelli più neri che avesse mai visto e gli occhi di un capriolo.
«Come farò adesso a tornare a casa?», pensò Lui contro il portone chiuso. «Se le dicessi che sono io ad abitare quella casa da cui viene il riflesso, e che avevo solo dimenticato la luce accesa, Lei mi guarderà come il padrone di quel riflesso che ama tanto, e invece io voglio che siano altri i motivi per cui guardarmi proprio come mi guardava stasera. Non mi sbaglio, le piacevo quanto Lei piaceva a me, ma adesso come farò a entrare e uscire di casa senza che lei scopra che le ho mentito?»
Quella notte il riflesso non accennava a spegnersi e Lei dormì saporitamente nel suo riverbero, ripensando ai capelli di Lui. Lui tornò a casa tardissimo, senza fare il minimo rumore.
La parete che avevano in comune lo aiutò, nei giorni che seguirono, ad adattarsi ai ritmi di Lei perché non si incontrassero mai sul pianerottolo. Se voleva vederla bastava che appena dopo il tramonto, dopo aver lasciato la luce accesa fin dalla mattina, si presentasse in cortile per farle compagnia mentre fumava. Ogni giorno le portava del tè bollente, che Lei riceveva con tutte e due le mani e sorseggiava con Lui posandogli la testa sulla spalla.
«Sapevo che questo riflesso mi avrebbe portato qualcosa di splendido», diceva, «ma non sapevo che sarebbe stato un uomo di cui innamorarmi. Adesso comprendo la forma che ha quando si imprime sul muro, come se fosse una lingua che mi parla. Se noi avessimo un alfabeto, sarebbe quella la forma che avremmo.»
Lui, che in quei pomeriggi era tremendamente felice, quando sentiva parlare del riflesso impallidiva, perché ricordava che stava continuando a mentirle, andando nella direzione opposta per tornare a casa e fingendo di non conoscere il condominio quando andava a casa di Lei.
«Che ne sarà di me quando mi chiederà di andare a casa mia?», pensava. «Dovrò inventare una storia in cui mia madre e le mie sorelle sono molto gelose, oppure dovrò dire che sono talmente povero da vivere in un’unica stanza di una casa affollata di persone.»
E infatti Lei iniziò a chiedergli dove viveva e con quante persone abitava. Quella di Lui fu una storia confusa di una casa lontana e disordinata dove si sarebbe vergognato di portarla.
«Vorrà dire che quando vivremo insieme» disse una volta Lei «sarà qui, così sposteremo il nostro letto di fronte al riflesso che ci ha fatti incontrare.»
Lui, che non aveva mai sentito una donna esprimere il desiderio di vivere insieme, la ringraziò con un bacio sui capelli.
«Sarei molto infelice, sai», disse Lei, «se l’inquilino accanto a casa mia si trasferisse o smettesse di usare quella luce. Sentirei come se un amico morisse.»
Lui sentì i capelli tirargli la nuca: cosa sarebbe successo se fosse andato a vivere da Lei e non avesse più potuto tenere accesa la luce?
«Quindi per il suo bene» pensava «dovrò sperare che la cosa più bella al mondo non accada mai? Dovremo per sempre vivere separati perché lei è innamorata di un riflesso sul muro?»
Passò un anno. Continuavano a vedersi nel cortile o a casa di Lei, e non passò un giorno senza che Lei parlasse del riflesso. Lui continuava a tenere la luce accesa ma cominciò a detestare quella sagoma azzurrina, di cui era il creatore, e che ossessionava tanto la sua fidanzata. Soprattutto sapeva che prima o poi avrebbe dovuto confessarle la verità, non tanto perché era diventato sempre più snervante evitare di incontrarla sul pianerottolo quanto perché più tardava e più la sua bugia, anche se piccola e in buona fede, diventava imperdonabile.
Ma con l’anno venne anche la decisione di Lei di vivere insieme.
«Potresti venire da me» gli disse, «e portare in questa casa tanto vuota tutto quello che affolla la tua casa disordinata.»
Lui capì che era quello il momento definitivo per parlare. Non avrebbe potuto né voluto dirle che non aveva intenzione di vivere con Lei, ma nemmeno poteva pensare di lasciare per sempre la luce accesa in una casa che avrebbe smesso di abitare.
Invece, mentre era a un soffio dal rivelarle la verità, gli venne in mente uno stratagemma.
«Quello che dici mi rende felice. Dammi solo il tempo di trovare qualcuno che abiti la mia casa al posto mio, perché ci faranno comodo anche i pochi soldi che prenderò dall’affitto.»
«Vuoi cominciare intanto il trasloco?», disse Lei carezzandogli una guancia.
Lui ricordò che non avrebbe potuto farsi trovare impegnato in un trasloco dall’altro lato di un pianerottolo, così con molto rimpianto rispose:
«Lascerò tutto al mio nuovo inquilino, non ho niente cui tenga così tanto da non voler cominciare una nuova vita daccapo.»
Fece una lista dei suoi amici più fidati e cancellò molti nomi, fin quando trovò il nome ideale: il suo amico, studente squattrinato, che ogni giorno doveva prendere il treno per andare all’università.
«Ti ho chiamato per proporti un affare», gli disse quando andò a trovarlo. «Lascio la mia casa tanto vicina all’università e voglio darla a te. Te la darò a un prezzo minimo se rispetterai tre condizioni: la prima è di sopportare tutta la mia roba in giro negli scatoloni, la seconda è di far finta di non conoscermi ogni volta che mi incontrerai nel palazzo, la terza è di non usare mai il piccolo studio che dà verso il cortile interno ma assicurandoti sempre, sempre, che ci sia la luce accesa. D’accordo?»
L’amico non poteva credere a tutta quella fortuna e poteva sopportare tutte quelle stranezze, quindi senza fare domande accettò.
Con la morte nel cuore per tutti i libri che lasciava nella sua casa, e con solo un borsone pieno di vestiti che era riuscito ad ammucchiare alla rinfusa, Lui prese la sua copia delle chiavi di casa di Lei per cambiare casa per sempre, appena una porta più in là.
Quando aprì la porta chiamò il suo nome, e Lei gli diede un cenno di voce chiedendogli di raggiungerla. Gli aveva preparato una grande cena per dargli il benvenuto. Adesso lo aspettava lì, seduta con i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani, e aveva gli occhi lucidi.
«Cos’è successo?», le chiese immediatamente Lui, e l’occhio corse al riflesso sul muro esterno. Il riflesso era lì come lui aveva disposto che fosse, quindi non capiva cosa potesse esserle accaduto.
«Come ci sei riuscito?» disse Lei, sorridendo.
Lui posò a terra il borsone e sorrise a sua volta.
«Lo so dalla seconda sera che ci siamo visti», disse Lei. «E ti rimprovero per avermi mentito, ma ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per amore. Adesso vai a recuperare i tuoi libri, la tua biancheria, le tue cose, ma solo l’essenziale, prima che si freddi la cena.»

© Giovanna Amato


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