Ventitidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con L’imperatore, carta dell’autorità.
La ragazzina dice che la madre non le ha lasciato i soldi per le ripetizioni, quindi non è che lei se li possa propriamente inventare, è una ragazzina, avrà un quindici euro nel portafogli, certo il portafogli di per sé di euro ne vale una settantina ma mica adesso lui può stare a scipparla e a correre via da quella casa inforcando l’ascensore.
«Me li dai la prossima volta. Assieme a quelli arretrati.»
«Che quanti sono, scusa?»
«Con questa fanno cinque.»
«Ammazza che esoso che sei», scherza lei.
Lei scherza.
Che cara ragazzina.
Lui scende di casa e prende il motorino. Attraversa Roma prendendo le corsie riservate ai tram per non ingolfarsi nel traffico, ogni tanto si chiede se dovrà pagare riabilitazione e casa di cura nel caso si spezzi le gambe in un binario, sono cose a cui uno non pensa.
Il barista sotto casa sua lo vede passare e gli chiede se ha finito la settimana. Una birra, allora, per festeggiare, ma lui non sa come dirgli che ha tredici euro che gli devono campare fino a lunedì e preferisce spenderli in tabacco, e grazie a Dio ha in dispensa tonno e fagioli per una settimana.
Prende le chiavi dalla tasca ed ecco che dal cancello si palesa una gatta soriana i vena di coccole. La conosce, è la gatta di un vicino di casa, corteggiata a lungo dalla figlia di un’altra dirimpettaia, col risultato che la micia fa una spola tra una carezza e l’altra e almeno sette pasti completi al giorno.
Si china ad accarezzarle la schiena. La gatta preme la testa contro il suo palmo e non accetta di buon grado la pausa tra una carezza e l’altra.
Lui pensa che quel gesto, quel sollevare la mano arrivata alla coda e ricominciare dalla nuca, quel gesto così simile al rimettere a posto il rullo di una macchina da scrivere, non ha un corrispettivo linguistico in italiano. Forse nessuna lingua umana ha una parola per indicare quel gesto.
Il che ci rende una razza egoistica, pensa ancora. Di certo un gatto, se avesse una lingua, troverebbe la parola per esprimere quel concetto così importante.
All’improvviso, mentre ormai la micia si sdilinquisce in fusa gloriose e quasi si riversa su un fianco per offrirgli quanta più superficie possibile, un bel gattone rosso si fa avanti dalla ruota posteriore di una macchina. La micia, come colta in fallo, si tira in piedi, e alla sua mano che già si sta scostando risponde con un morso feroce nel palmo, all’attaccatura tra l’indice e il pollice. Poi si allontana, dandosi un tono e ignorandolo pesantemente, con il gattone.
Ora. La settimana è finita. Ne approfitterà per stordirsi di serie tv. Il pollice opponibile gli servirà al massimo a far scattare la fiammella dell’accendino. Ma quel morso è imperdonabile. È addolorato e colpito, e ci tiene che la gatta lo sappia: nel caso vomiti una palla di pelo più grossa del normale, vuole che le sia ben chiaro chi è il mandante morale di quel tentativo di soffocamento.
«Ti ringrazio, eh?», urla. «Ti ringrazio per la pregnanza simbolica del tuo gesto.»
Lei non si gira neanche a guardarlo. Il gattone rosso invece si volta, un attimo solo, scrutandolo con sufficienza, poi spariscono insieme verso un cespuglio.
Lui si ferma per un attimo accanto al cancello. Ecco, non può credere a se stesso. L’ha fatto. Per la prima volta, l’ha fatto. Aveva un pensiero che faceva male, una rabbia da esprimere, una rivendicazione da fare, una piccola lettera al mondo, e invece di rispondere metto su il caffè o è libero il bagno l’ha tirato fuori. L’ha espresso. Certo, ha detto “pregnanza”, ma al primo tentativo nessuno è perfetto.
Pensa seriamente di tornarsene a casa, disinfettare la ferita e mettersi a dormire senza serie tv. Poi no, cambia idea.
Con la mano macchiata di sangue, che fa un po’ Lady Machbet, torna al motorino e guida fino a casa della ragazzina di ripetizioni.
© Giovanna Amato