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Giovanna Amato, L’inizio della scrittura. Intervista di Anna Maria Curci

Giovanna Amato, L’inizio della scrittura, FusibiliaLibri 2018

«Ci sono vite al mondo che sono morte senza per esempio»: partiamo da questo verso, Giovanna, per ripercorrere la tua raccolta. Senza che cosa? Senza, indubbiamente, l’amore. Nel mio diario in versi scrivevo qualche anno fa: “Tra i cubi che il bambino ricombina/ ha scoperto la A, alfa e amore”. L’inizio della scrittura – e il titolo della raccolta richiama esplicitamente Roland Barthes di Frammenti di un discorso amoroso – davvero coincide con l’esperienza ardente e totalizzante dell’amore. Una scoperta dopo la quale nulla potrà essere come prima. Impetuose e solenni sgorgano le poesie e niente, neppure un verso, andrebbe mutato, tanto che verrebbe da parlare di rigore, di impeccabilità formale, di necessità cogente di dire lo stupore nel modo qui manifesto, e in nessun altro in alternativa. Senza questa rivoluzione, senza il dato sconvolgente dell’esperienza amorosa, non sarebbe mai allora nata poesia?

Ho scritto poesie solo quando ho amato oltre l’umano, e probabilmente ho amato oltre l’umano solo quando non sono stata ricambiata, questo credo sia fondamentale da dire. Il punto successivo è: perché questo amore estremo mi illumina quella zona del cervello deputata a scrivere in versi, a prendersi cura dell’allaccio tra il suono e il contenuto? Che rapporto c’è tra innamoramento non corrisposto e poesia? Nel mio percorso personale la risposta è chiara. L’esergo di Barthes, da cui il titolo del libro, mette bene in chiaro una cosa: la scrittura inizia quando non si scrive per convincere l’altro ad amarci. Non si corteggia, con la scrittura, né si crea un sostituto dell’amore per stare meglio nella sua mancanza. Si sa solo che l’altro non è nostro, e lo si canta perché lo si ama. Non una poesia, non una mail, non un messaggio né una parola io ho mai pronunciato nella speranza di sedurre chi ha messo in chiaro di non amarmi, anche nelle mie parole più infiammate. Questo è lo spirito di ogni parola d’amore pronunciata davanti a un caffè, e questo è lo spirito del libro. Il libro voleva essere il canto dell’amore donato senza chiedere nulla in cambio. Che è una faccenda meravigliosa. Quello che ho imparato è che innamorarsi senza riscontro è un’esperienza affine all’amore, non un fallimento. Ha solo regole più complesse e meno codificate, e diversi margini di gioia. Comporta sì della sofferenza, il desiderio sessuale non realizzato, la convivenza emotiva non pienamente espressa. Ma c’è una componente per cui l’amore dell’altro non è necessario, anzi sarebbe di troppo: la gioia del disinteresse, il dono di sé portato all’estremo. In questo senso, l’amore non corrisposto somiglia a uno stato di grazia che bisogna meritarsi ogni giorno, e che permette di scoprire meravigliosi lati di sé. In questa esperienza monologante, a patto che l’altra persona reagisca con sana apertura (né rifiuto, insomma, né pura vanità), la gioia supera il dolore. Appaga? No, non mi prendo in giro, io non posso possedere quel corpo, e quella persona non ha bisogno di me quanto io di lei. Ma rende felice? Sì, più di molti amori consumati. È questo che attiva il centro nervoso del dono, dello stupore, e quindi della scrittura. Ed è questo che volevo fosse il filo rosso delle mie poesie, più del canto verso una persona. In questo credo di essere riuscita. In altro, credo di aver fallito: nell’universalizzazione di questo innamoramento. Perché quando sono stata capace di innamorarmi di nuovo, ho scoperto un altro odore, altre dolcezze, altri motivi di pianto, altri ritmi di respiro. Ne L’inizio della scrittura credo di aver tratteggiato bene l’amore come dono, ma non l’amore in sé, perché il libro riguarda quell’amore specifico, e non si attaglierebbe bene al successivo. Che avrebbe poesie più lievi, più metriche, più attente alla premura per i dettagli dell’altra persona e meno alle vette emotive raggiunte dal mio sentimento comunque totale. Meno vertigine e più cura, insomma, perché l’amore successivo è nato sulla tenerezza e non sul delirio. Ogni equilibrio tra due persone è diverso.

 «O ris, o frônt, cheveux, bras, mains et doits:/ O lut pleintif, viole, archet et vois:/ Tant de flambeaus pour ardre une femmelle!/ De toy me plein, que tant de feus portant,/ En tant d’endrois d’iceus mon coeur tatant,/ N’en est sur toy volé quelque estincelle.» («O riso, o /fronte, o braccia, o mani e dita:/O liuto, o viola che a pianger m’invita:/ Perchè donna ne bruci, ahi qual favilla!/ Di te mi dolgo, che in tanto disìo/ D’arder con mille faci il petto mio,/ Non sia su te volata una scintilla.» nella traduzione di Enzo Giudici), Questi, dal Sonetto II – e altri me ne sono venuti in mente –, sono i versi della « belle cordière » Louise Labé, che ho rimuginato leggendo le tue poesie. Ora, sarebbe bello, sulla corda e sulla scorta del “flamboyant”, confrontare. a distanza di tanti secoli, due modi di rinominare il mondo e di lasciarsi trascinar poetando dall’amore. Comincio allora questo bizzarro pellegrinaggio verso l’utopia del riplasmare l’universo attraverso l’amore domandandoti quanto la poesia di Louise Labé e, in Italia, di Isabella Morra e di Gaspara Stampa abbiano impresso la loro orma nella tua esecuzione poetica, che giunge, sin dal primo apparire, slanciata in avanti – con uno sporgersi spericolato e agognato –  eppure compiuta.

Non ho ancora disperso i fumi di quello che ho fatto quindi i miei debiti, che sicuramente ci sono, non mi sono ancora chiari. Tanto che qualche notte sogno Mariangela Gualtieri che mi fa notare che le ho plagiato un verso senza accorgermene. Ho letto Louise Labé tardissimo. Ero a casa di Silvia Bre, lei tirava fuori i libri che voleva consigliarmi, se non fosse stato per lei non avrei mai letto Blanchot. Poi ha messo su un’aria quasi da cospiratore e ha tirato fuori una costola fina, Mondadori: era una sua traduzione dell’autrice francese. Anche l’incontro con Gaspara Stampa è stato tardo. E ho di entrambe la chiarissima, luminosa idea di una sistematizzazione da orefice della sensualità, delle frustrazioni, delle ambizioni femminili, e anche della dolcezza di alcuni sentimenti più (uso una parola orrenda) ambigui. Ma a me non interessava quella dolcezza. La verità è che a plasmarmi sono stati autori uomini, e per una semplicissima ragione: li cercavo, volevo che parlassero per me, perché sono loro a cantare di donne in una maniera veramente robusta. Esprimere un sentimento rivolto a una donna con un sentire maschile per me vincerà sempre e comunque sull’esprimere un sentimento rivolto a un uomo con un sentire femminile, mi somiglierà di più, perché in amore si perde la testa ed è l’oggetto a catalizzare. Per questo se penso a cosa voglia dire plasmare l’universo attraverso l’amore penso ai versi d’amore di Rilke, o ad alcune frasi che Kafka diceva a Milena nelle sue, per il resto alquanto noiose, lettere. Ma se devo pensare a qualcosa che, più che plasmarmi, mi ha messa completamente a soqquadro, tanto che non sono capace di leggere quel rigo ai miei alunni ogni volta che arrivo lì con il programma di epica, è un verso preciso all’interno del monologo di Andromaca, quando lei incontra Ettore in cima alla torre. In questo caso i ruoli saltano del tutto, perché l’autore non conta. Lei dice una cosa precisa, dopo averlo implorato di non fare l’eroe, di non renderla vedova, dopo avergli detto che lui, per lei, è un marito, una madre e un padre: gli dice porta i tuoi guerrieri al caprifico, intendendo che lì la battaglia è più semplice. Lei è immersa in una società che vuole gli uomini eroi, ma vuole soltanto che il suo uomo sia vivo. Ecco: porta i tuoi guerrieri al caprifico. Non mi importa quale rapsodo in quale momento del tempo o quale stesura successiva abbiano voluto che quel verso fosse esattamente così: lì c’è l’amore, lì viene detto tutto, è tutto lì dentro, quasi è imbarazzante dire qualsiasi altra cosa.

 

L’amore non solo trasfigura lo sguardo, ma lo rende potentissimo, capace di scavare, trafiggere, così come di irradiare. E dunque, parafrasando il celeberrimo detto (“beauty is in the eye of the beholder”): “love is in the eye of the beholder”. Quello che viene trafitto, scavato, irradiato, pervaso di luce, è tutto l’universo. Se da un lato non mancano i riferimenti all’astronomia e a luoghi leggendari, segni tangibili di un consistente ‘patrimonio dell’umanità immaginifica’, a impressionare con particolare vigore sono le visioni di capolavori dell’arte figurativa – pittura, scultura, architettura – che trovano espressione poetica sublime in questa raccolta. Penso all’affresco del Baciccio – un Trionfo – nella volta della navata centrale della Chiesa del Gesù a Roma, alla Transverberazione di S. Teresa d’Avila di Bernini nella Chiesa di S.Maria della Vittoria: è vero, allora, che l’amore per un altro da sé è tanto potente da trasformare una semplice inclinazione, una mera predilezione, in passione bruciante anche per le opere d’arte, indipendentemente da chi ne sia l’autore ovvero l’autrice? E quanto hanno contato, pesato e soppesato, azionato le leve della stesura poetica le inclinazioni, i gusti preesistenti?

Purtroppo per rispondere devo staccarmi di nuovo dalla letteratura o dalla filosofia o da qualsiasi branca della critica e scendere di nuovo sul personale, che è un po’ il rischio quando si parla d’amore, attutito però dalla speranza che sia qualcosa di universalizzante. Quando ho scritto queste poesie prendevo appunti sui sagrati delle chiese, recitavo i versi ad alta voce in giro per strada per tenerli a memoria mentre macinavo chilometri in preda a un sentimento quasi ubriaco. Il mondo era così sconfinato, era incredibile che io non mi fossi mai accorta di tutti i suoi dettagli che ferivano e di cui essere grata. C’era l’incendio dentro e fuori. Poi tornavo a casa e torcevo, limavo, perché dovevo restituire qualcosa di anche solo lontanamente pulito e incantato. Il mondo somigliava all’amore, l’amore somigliava al mondo. Quando l’amore è diventato un affetto profondo, si è chiusa anche la capacità di vedere il mondo con gli occhi quasi drogati dell’amore, che sono poi quelli della dopamina in circolo. E poi l’evento inatteso, accolto come una benedizione: ho amato di nuovo, e per la prima volta nella mia vita lo schianto è avvenuto a prima vista, o almeno nel giro di meno di ventiquattr’ore. Questo per me è stato un trauma, perché ha voluto dire quello che dici tu, rendersi conto davvero di quanto perforante potesse essere lo sguardo umano, quanto profetico (tutto quello che è seguito è stata solo conferma e aggiunta), e soprattutto ha voluto dire essere assalita da un sentimento che non è cresciuto con lentezza, non ha mostrato sintomi, ma si è impiantato nel mio cervello di punto in bianco. Ricordo quella giornata: ho camminato stordita per ore, fumato una sigaretta dopo l’altra, terrorizzata all’idea di leggere un libro, ascoltare della musica, perché sarebbero stati stimoli così forti che sarei impazzita. L’amore è fatto di ormoni. Dopamina, ossitocina. Questi ormoni governano il desiderio di toccare quelle labbra ma anche il bisogno di fare un regalo di Natale in anticipo. E non è possibile che non siano coinvolti nella semplice realtà che ascoltare Vivaldi da innamorati è un’esperienza che farebbe quasi camminare sui muri dall’estasi. Quanto ai gusti preesistenti, ho sempre avuto abbastanza rispetto per le persone amate da non attribuire mai le stesse cose amate a due persone diverse. Non parlerò mai con nessun altro della freccia di Santa Teresa o dell’Ultima Thule. Sono una che crea universi di riferimento dal nuovo, per ognuno. Anzi, in genere non attribuisco nulla che sia profondamente mio, per non sentire lo strappo all’atto della perdita. Tranne in un caso, di cui non credo mi pentirò mai.

 

Torniamo sul tema del fuoco, al quale abbiamo alluso in attraversamenti e citazioni. Più di una volta, leggendo il tuo libro, ho ricantato a me stessa la strofa finale di Spiegami, amore di Ingeborg Bachmann (qui nella mia traduzione): «Tu dici: un altro spirito conta su di lui./ Non spiegarmi nulla. Vedo la salamandra/ attraversare ogni fuoco./ Non un fremito la scuote e nulla le dà dolore.» L’interrogativo sulla natura dell’amore resta aperto, nella tua scrittura poetica, così come in Spiegami, amore di Bachmann? E quanto è vicina all’io lirico di L’inizio della scrittura la visione della salamandra che attraversa ogni fuoco, consapevole del rischio mortale, eppure pervicacemente intenzionata a tuffarsi nell’incendio perenne?

La strofa è meravigliosa. E anche se io ho da anni un animale totem ho sempre avuto un amore enorme per la salamandra, perché sono nata con la sua tentazione del fuoco e non ho intenzione di cambiare. Praticamente tutte le scelte della mia vita sono nel segno del tuffo della salamandra: ho lavori tenacemente precari e ad alto rischio di umiliazione, cerco amici complessi e pieni di problemi di ogni tipo, e poi c’è l’amore, che non credo non essere una scelta. Solo una scelta di una parte di noi troppo profonda per essere sempre in contatto con lei. Ci si innamora di quello che ci occorre in quel momento: qualcuno uguale a noi, qualcuno di diverso, qualcuno che vorremmo essere, qualcuno che sentiamo inferiore, qualcuno da cui vogliamo imparare, ci si innamora per stare bene, per punirci di qualcosa, per completarci o per metterci in discussione. Ma sulla reale natura di tutto questo, l’interrogativo resta aperto in me come in ognuno di noi fino a prova provata, che probabilmente non verrà mai. So solo che in amore il mio margine di scelta è sempre stato tra lo scappare e provare a guarire da situazioni complesse prima che fosse troppo tardi, oppure restare e tuffarmi come la salamandra. Per bravura mia e degli altri il fuoco non ha mai dato troppo dolore. Certo, esistono istanti terrificanti in cui tutto quello si stringe tra le mani è la consapevolezza di non avere nulla, ma perfino in quegli istanti credo nel verso che ho scritto: sia benedetta tu per questa peste che mi sgretola.

Una replica a “Giovanna Amato, L’inizio della scrittura. Intervista di Anna Maria Curci”


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