Ventitré carte, ventitré racconti. Per ventitré settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con La Papessa, la carta della conoscenza nascosta.
6 novembre 1893
San Pietroburgo
Morte di Tchaikovsky
Non è essere in ginocchio questo tuo cadere bocconi nella neve.
Ti guardo da lontano, ti osservo.
Hai scelto questo luogo per crollare in mezzo agli altri, i falciati dal colera, e se hai una fiala è ben nascosta, ben pressata in mezzo al bianco. Cadi per confonderti, mentre precipiti nessuno ti distinguerà da loro, e non importa che tu sia stato il richiesto, l’applaudito, il desiderato.
Per la bambinaia che ti ha cresciuto eri il bimbo di vetro. L’hai ritrovata, è stato un caso, mentre perdevi tutto, mentre meditavi per te stesso una sinfonia che terminasse col tuo stesso terminare. Vedi quante cose so di te? Anche un tempo, quando ne riportavi centinaia nelle tue lettere intricate che non venivano mai al punto, che impostavi febbrilmente a tre ogni giorno – anche allora quello che dicevi non bastava a quello che sapevo già di te. Ti ricoprivo d’oro, ti chiamavo mio signore. Erano arroventati, i miei biglietti. Nessun pensiero, se non quello di me, doveva mai staccarti dal violino. Ti chiedevo di non incontrarci mai, e passavo, avvolta negli scialli, sotto il tuo balcone; acconsentivi, e visitavi, mentre io non c’ero, casa mia. Solo quel giorno, al parco, per errore, l’uno verso l’altra – siamo stati bravi a non sfiorarci neanche il palmo dei cappotti.
Ero la prima ad ascoltare le tue visioni; tu non lo sai quanto chiudevo gli occhi ad ogni brano, come tremavano le mani ogni volta che ricevevo un pentagramma. Mi hai regalato la tua Quarta. Ero il tuo migliore amico, così mi hai schermata al mondo. Dopo tredici anni ti ho chiuso ogni altra porta, e ancora si interrogano su quanto a lungo ti sia chiesto cosa potrai aver fatto.
Avresti potuto essere solenne, ma nessuno come te ha scavato la dolcezza, e nessuno, nella disperazione, ha saputo essere così leggero.
Cadi. Io ti guardo da lontano, io mi freno dal venirti a consolare. Dov’è quel tuo fratello che ti assolveva quando tu chiedevi di rinfacciarti la tua vergogna? Io lo so degli uomini che hai amato, delle loro spalle grandi e delle loro cosce forti e delle loro schiene come aquiloni. Dov’è Antonina, che hai sposato per evitare scandalo? Io lo so che non sei scivolato per errore nella Moscova, quando hai compreso che non avresti tollerato un altro giorno assieme a lei.
Resto immobile a guardarti non guardata, come ho sempre fatto. Mi freno dal correre e dal dirti che sarà dolce come tu stesso hai dichiarato. Hai cercato di convincerci che la morte fosse una forma gentile, perché nulla che non sia gentile poteva toccare San’ka; e quella linea l’hai trascinata a scorrere nel pentagramma di un passo a due, e ad ogni Schiaccianoci celebriamo tua sorella, e la linea gentile della Morte – io lo so.
Non c’è niente che io non sappia di te da quando sei venuto al mondo. Non c’è niente che io non sappia da quando mi sono separata da te. Come adesso, sempre, da lontano, ti guardo.
Per la bambinaia che ti ha curato eri il bimbo di vetro. E bimbo di vetro lo eri, nove giorni fa, quando hai portato la Sesta. L’hai offerta, ma non ci è piaciuta. C’era qualcosa di oscuro nel suo programma contorto, qualcosa di quello che avevi da dire che non avremmo voluto ascoltare da te. Quando l’avrai ribadito nella neve, piacerà.
Ma adesso? Volevi gli scrosci del Lago dei Cigni, i nostri occhi lucidi all’ultimo volo di Odette? Volevi vederci schiudere la bocca come all’attacco del Trio in la minore? O volevi che qualcuno urlasse “mio”, come ho fatto al sentire la tua Marcia Slava? No, non è per vanità se il bimbo di vetro si è infranto nove giorni fa, né per quello se adesso cadi bocconi, e mai in ginocchio, nella neve.
Ho visto, sai, la tua fotografia sulla terrazza di Klin, lo sguardo stretto e la febbre con cui stringi la tua sigaretta. In sei mesi, l’hai composta, quella Sesta che non ci è piaciuta.
Che sia rapido questo tuo restare ginocchia nella neve. Mentre tutto si chiude, che tu senta il passo a due. Ti sia lontano lo scandalo e l’idea della vergogna e lo spettro dell’esilio e lo sguardo di acciaio che ti condanna: non morire, Pëtr, come hai vissuto.
Nessuno saprà mai nulla di noi, nessuno saprà perché ti ho abbandonato. Non sta a loro saperlo. E non sta a loro sapere perché vai, se per stanchezza o se stremato dalla troppa gioia, se ingoi veleno su consiglio di un giurì, se cadi falcidiato dal colera o se hai bevuto tu stesso dell’acqua infetta. Non sta a loro, Pëtr, non sta a noi. A noi hai già dato, mio maestro e mio signore, ed altro non ti si venga a domandare.
Non è essere in ginocchio, questo tuo cadere bocconi nella neve, né un inchino.
Quando mi chiederanno come ho preso la tua morte, risponderò la verità: non l’ho potuta sopportare.
Tua,
Nadežda von Meck
© Giovanna Amato