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Il nostro comune amico (ceci n’est pas un examen)

Quando leggerò Il nostro comune amico ne farò una recensione. Oppure, se non dovesse piacermi, non ne parlerò e voi capirete dal mio silenzio che mi ha deluso. Ma quello che Il nostro comune amico sta facendo a me, in questi giorni in cui attende chiuso sul mio comodino, vale bene più di due parole.
Volevo comprarlo già da qualche mese. Poi mi ero detta: compralo appena ti prenderanno a scuola, come portafortuna per l’anno che viene. Ho aspettato una supplenza quasi più per la voglia di comprare Il nostro comune amico che di mettere assieme il pranzo con la cena. E quando è successo, tempo un paio di giri di librerie e ho potuto poggiarlo sul mio comodino.
È ancora lì.
Ecco, il fatto è che Il nostro comune amico è grande, sono più di mille pagine. Questo vuol dire che non posso portarlo in metropolitana, ed escludo di lasciarlo in un cassetto a scuola. Non posso leggerlo a letto, perché mi prendo molta cura del mio polso e cinque minuti de Il nostro comune amico basterebbero a stroncarmi la carriera di pianista, ammesso che io ne abbia una. Quindi non l’ho letto ancora.
Ma il fatto che io non l’abbia letto ancora non vuol dire che io non abbia ricordi di lui, che non abbiamo già costruito insieme un legame fatto di aneddotica e di piccoli rituali. Come la volta che ho fatto il mio ingresso in un mercatino con il dubbio di trovarlo usato e, disperando di trovarlo in mezzo a scaffali non sistemati in ordine alfabetico, sono andata trionfante dalla ragazza del reparto libri e ho detto “sai se c’è Il nostro comune amico?” e lei, che con me ha un po’ di confidenza, mi ha risposto “ma chi, Fabrizio?”.
O quelle volte che ogni tanto apro su una pagina a caso e leggo un paio di righe, e sono felice della traduzione così svelta e poco pesante (a proposito, è un Einaudi, traduzione di Carlo Pagetti), e mi emoziono se mi capita un nome che ho già letto in qualche precedente incursione. Conoscerò quella persona, penso. Quel nome avrà una personalità, dei tratti, sta per fare delle cose, e io lo seguirò. Ricordo il momento esatto, la piastrella in cui ero in piedi, quando mi sono decisa a leggere l’incipit. Ero felice. Sapevo che sarebbe stato un bellissimo libro. Lo so.
Se non mi decido a leggerlo, e carico così tanto in aspettativa, non è per pigrizia, e non è nemmeno per un vezzo di imitazione dell’amato Desmond Hume, personaggio di Lost, che ne porta con sé una copia con l’intenzione di leggerla come ultima cosa prima di morire. È, banalmente, per una mera questione di mole, di tempo. Vorrei dedicargli una concentrazione fiume, vorrei che fosse come quel Natale in cui recuperai tutti gli Harry Potter prima dell’uscita del settimo (un giorno parlerò anche di questo, ah se ne parlerò) e mi ibernai fuori dal balconcino di casa ignorando il parentame, convinta che mi sarei meritata anch’io un Gufo honoris causa. Insomma, Il nostro comune amico è grande, articolato, richiede cura, non posso leggerlo ancora, e lo lascio sul comodino. Lo lascio lì, e lui mi chiama. Lo lascio lì, e lui fa quello che fanno davvero i libri, quello che fanno profondamente, perfino quelli non letti ancora: la loro eco riempie tutta la stanza, la loro presenza è in qualche modo arroventata.
Era questo che volevo dire, anche se non l’ho letto ancora. Volevo dire che i libri fanno questo. Che è meraviglioso, quando i libri fanno questo.
Sarebbe davvero buffo, se alla fine mi scoprissi a non amarlo. Ma quello che sto vivendo nell’attesa è impagabile: la scoperta che si può provare un sentimento appassionato per qualcosa in attesa, per una risma di carta e inchiostro che contiene uno degli elementi più preziosi al mondo: una storia.
Come quando si è innamorati, del resto. Niente al mondo vale il tempo passato con quella persona, tranne una cosa. Tranne quei minuti seduti su un muretto, con il cuore fuori dal torace, in attesa che sbuchi dall’angolo della strada. Tutta quella felicità non ancora successa. Tutto quel tempo ancora intatto.

© Giovanna Amato


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