proSabato: Giovanni Comisso, Riposo su una collina
Mi piaceva una breve spianata tra piccole colline. Asciutta e raramente erbosa, pavimentata da detriti di roccia, aveva per sfondo l’alta parete di un monte vicino, tutta costruita di stratificazioni sovrapposte le une alle altre, contorte e chiazzate di rossastro. Solitaria e tiepida come un sacrato di campagna, non era stata invasa da alcuna costruzione di guerra, né mai v’era caduto alcun colpo di artiglieria. Come fosse stata un mia camera segreta, vi andavo quasi a nascondermi ogni volta la stravaganza dei miei superiori mi faceva subire rimproveri immeritati. Allora veniva che in quel luogo abbandonato mi dimenticavo della mia divisa e della guerra. Quel monte scarnificato dai ghiacciai della preistoria e quell’altra parete costruita forse dal fuoco o forse dal mare, distraevano a osservarli. In seguito m’accorsi che era più bello stare sulla cima d’una delle piccole colline attorno. Colline senz’alberi, tumoli di detriti del monte.
…..Una mattina (l’aria era tutta un giuoco di venti dolci) mi chiamarono d’urgenza al Comando di Divisione. Era il maggiore addetto ai servizi tecnici che voleva parlarmi. Il giorno prima avevo presentato una richiesta di materiale che secondo gli insegnamenti del corso allievi ufficiali, ritenevo necessario agli impianti telefonici della zona, per impedire l’intercettazione. Il maggiore voleva delle spiegazioni. Abituato ai sistemi dozzinali del comandante della mia compagnia, che si trovava in licenza, non volle intendere le mie insistenze e mi stracciò la richiesta. ebbi ancora l’ingenuità di pregarlo che mi facesse avere almeno un po’ di nastro isolante (animandomi con passione, come per una cosa necessaria personalmente a me), allora egli s’alzò e presomi per un braccio, m’accompagnò nella stanza degli scritturali, dicendomi in loro presenza, in diletto lombardo, di andarmene e di non seccarlo più. Ne uscii umiliato nel mio entusiasmo di giovane ufficiale. Nel rifare l strada tra i filari dei meli dove le frutta luccicavano acerbe contro l’ombra degli alti monti, sentii il passo d’uno che mi correva dietro. Era un mio soldato, che saputa ogni cosa dagli scritturali, mi veniva a spiegare, come poco prima stando al centralino, avesse inteso il colonnello del genio del Corpo d’Armata, sfuriare col maggiore per gli eccessivi prelevamenti di materiale. − Mancanza assoluta di comprensione, − gli aveva gridato; e chiuse il telefono senza voler intendere ragione. Capivo, perché ero stato trattato così male, ma già mi consolava l’idea di trovarmi nella mia solitudine tra le piccole colline. Il vento intermittente, tepido e piacevole agli occhi mi accompagnò al solito posto e come mi distesi per terra mi passò con tale tenerezza sul volto da farmi reclinare il capo come su d’un cuscino tra l’erba fresca e piena d’ombre. Allora mi piacque guardare tra i fili d’erba simili ad alberi d’una foresta, intessuti tra loro per resistere al vento; e meglio osservando, scorsi una carovana di formiche, lucide, negre, agili e pulite passare interminabile. Sospettose e vigilanti alcune deviavano ai lati del percorso per fiancheggiare la marcia del grosso della colonna e nell’incontrarsi con altre che provenivano in senso opposto, si fermavano per un breve abboccamento come per comunicarsi le informazioni topografiche necessarie. Pareva difettassero di provvigioni e partissero in esplorazione e conquista verso lontane terre promesse. Il vento mi portò d’improvviso un attacco risoluto di musica suonata al di là dell’Isonzo, ai piedi del Polunik tutto formoso di nuda roccia. Era una banda reggimentale che s’esercitava, chiusa in una baracca. Il monte copriva con al sua ombra tutta la curva del torrente. La musica veniva a sbalzi, sorvolando le acque tremule e il piccolo paese dove le case si alternavano di alti alberi. Suonavano la marcia dell’Aida, ripetendola così comicamente da farmi ridere da solo. Preso da una leggera allegria tolsi dal taschino della giubba una sigaretta e allora m’accorsi che una mosca grossa e grigia stava fissa sulla mia mano intenta a succhiarmi il sangue. Un dispetto immediato mi animò l’altra mano e gliela sbattei addosso rapida come un fulmine. La mosca tramortita cadde sull’erba e chinai il capo per cercarla. Non era morta, era caduta sul percorso delle formiche, subito fattesi sopra per stringerla avide e feroci alle ali e alle zampe. Dopo alcuni morsi già la portavano via, prima in tre o quattro, poi come misurato il peso, in du soltanto. «Come ogni avvenimento si coordina!» mi venne da dire, e accesi la sigaretta.
…..La marcia dell’Aida continuava all’infinito. I suonatori balbettavano le note come bambini chiusi in una scuola che tutti in coro imparino a sillabare. Ascoltavo, e guardavo la parete vicina che ora mi faceva pensare con la sua solida bellezza data dai macigni sovrapposti, ai muri dei vecchi palazzi di Firenze. Anche l’aria tepida e leggera ventilata dall’Isonzo, come dall’Arno, aiutava il raffronto. E scossa la sigaretta che era stata fumata dal vento, feci cadere la cenere fra l’erba. Subito m’accorsi d’aver spaventato le formiche come se un tiro d’artiglieria fosse stato concentrato su una colonna di soldati in marcia. Anzi una formica n’era stata scottata e si dibatteva raggomitolandosi negli spasimi della morte. Le altre s’erano irradiate in tutte le direzioni, tese e con le mandibole aperte, pronte a mordere. alcune erano già arrivate sul panno della mia manica, altre sul mio ginocchio accanite nella ricerca del nemico. Mi sentivo aggredito e credendo d’averne parecchie dappertutto tra le colline si lasciava vedere bagnata d’una luce di madreperla. Pensai che avrei potuto farne un bel campo di foot-ball a divertimento dei miei soldati, ma mi doleva privarmene. Più invece mi persuase d’organizzarvi un piccolo concerto, perché la buona risonanza c’era, e i suonatori pure: quelli che suonavano per il generale; e il violoncellista era il mio furiere. «Sì, sì, alla prima notte di luna, voglio mangiarmi mezzo stipendio». Ma dal fondo della spianata vidi gente che avanzava. Un piccolo gruppo di soldati, e uno veniva portato, come nel giuoco dei bambini, a seggiolino d’oro. Non capivo perché mi fece attento. Un ufficiale, che era tra loro, indicò l’alta parte del monte. Uno li seguiva d vicino e con le braccia sul petto, come un religioso che pregasse. Si fermarono. Quello sorretto a seggiolino d’oro, venne deposto per terra e tutti gli s’erano fatti attorno per difenderlo. Pensai fosse un ferito o uno svenuto, certamente. Un altro ufficiale sopraggiungeva a grandi passo dal fondo della spianata. Quello che teneva le mani sul petto d’era inginocchiato accanto al debole e pareva gli parlasse. Tentò di sollevarlo, prendendolo sotto le ascelle. I soldati che erano armati si schierarono in riga. I due ufficiali scambiatosi il saluto, s’erano messi a parlare, allontanandosi dai soldati. Poi ritornarono. Un foglio di carta biancheggiò al sole, l’ufficiale arrivato da ultimo, rivolto ai soldati, incominciò la lettura a voce alta, accompagnandosi a gesti recisi del braccio. La voce veniva riecheggiata dalla parete,ma non potevo distinguere le parole. Cessò, a un cenno tutti si scostarono. Intesi un comando simile ad un urlo e i soldati impugnarono i fucili puntandoli contro quello che era rimasto solo accasciato per terra. Gettai la sigaretta, non volevo vedere di più e mi precipitai già dall’altra parte della collina, impastoiato nei passi, sul punto di cadere ad ogni istante, sperando di arrivare in tempo per non sentire. Ma appena disceso, la scarica suonò ripercossa dalla parete del monte e da tutta la valle, più forte della marcia dell’Aida che al di là dell’Isonzo non aveva mai cessato d’essere balbettata stupidamente. Per ritornare sulla strada passai davanti alle baracche dove stavano accantonati i miei soldati, ed essi, che lo avevano visto passate, sempre sorridenti e pieni di gentilezze per me, ora pallidi, stravolti e quasi paralizzati, mi guardarono cupî.
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© Giovanni Comisso, Riposo su una collina in «Pègaso», anno I, n. 1, gennaio 1929