a R.B., con il cuore intero.
Ora vedo che sei un uomo e non soltanto un cucciolo.
La giungla ti è preclusa d’ora in poi. Lasciale scorrere, Mowgli,
sono soltanto lacrime.
Il Libro della Giungla
C’era una volta un regno. Era una vasta, bianca città circondata da mura di pietra così bianche da sembrare di perla, e al di là delle mura c’era un paese anche lui dalle mura di perla. Anche quello era il regno. E al di là del paese, una vasta campagna dalle case di mura di perla, e anche quello era il regno.
Reggeva quel regno un re che era solo un ragazzo, per questo tutti ancora lo chiamavano principe. Ma nessuno l’aveva mai visto, perché il principe era molto malato.
Se solo di rado si alzava dal letto, e arrivava appena alla finestra per guardare in giardino, era perché il principe aveva nel petto solo metà del suo cuore. L’altra metà l’aveva un cane, un grosso cane che lui chiamava lupo, che viveva ai piedi del suo letto e faceva per lui tutto quello che si può immaginare. Era il cane, al mattino, a uscire per chiedere la sua colazione, ed era lui a dettare parola per parola il volere del principe ai suoi consiglieri. Chiamava la domestica quando il principe voleva vestirsi e lo teneva stretto con i denti alla vestaglia quando lui era in piedi per guardare alla finestra.
Una notte, il cane si svegliò con un senso di allarme, come quelle notti in cui la neve cadeva tanto da far scricchiolare la grondaia. Sollevò il muso e vide che il principe era seduto sul letto, la fronte aggrottata e la mano aperta sul torace. Allora il cane si mise a sedere, pronto a scoprire quale fosse il malessere del suo amato padrone.
«Il mezzo cuore che ho è inquieto» disse il principe.
«Che succede, padrone?»
«Lupo, lupo, tu non senti questo ronzio?»Il cane chiuse gli occhi e tenne fermo il muso alzato. Ma non c’era niente che sentiva nella notte.
«Non puntare alla finestra, lupo» disse il principe. «Sono giorni che sento un ronzio venire dalle stanze di questo palazzo. Ma ora, lupo, lo sento anche di notte. Vai a scoprire chi lavora a quest’ora, e mandalo via.»
Il cane ubbidì. Si alzò sulle zampe, si scrollò, infilò il corridoio e, con passo felpato, si fermò davanti a ogni stanza alla ricerca del rumore che aveva inquietato il suo padrone. Ma ancora niente sentiva nella notte.
Percorse i piani del palazzo. Scese nelle cucine, risalì le torri, ma non riuscì a sentire alcun rumore.
Decise così di uscire in giardino, per pulirsi il naso con il freddo della notte e lavarsi via l’ultimo sonno. Era questo, forse, pensò, che gli impediva di sentire il rumore.
La notte era chiara, e oltre gli alberi di magnolia si potevano vedere le mura di perla a recinzione del palazzo. Il cane abbracciò con lo sguardo tutto quello splendore, e si rese conto ancora una volta di quanto fosse fortunato a dividere il cuore con il principe, suo padrone.
Non fece alcun suono, la volpe che penetrò il giardino. Percorse pochi metri affusolata come una lingua di fiamma e restò ferma, seduta, la folta coda avvolta sulle zampe e il lungo muso intelligente rivolto al cane.
Lui ringhiò. Desiderò stringere le zanne attorno a quella schiena, sentire lo schiocco delle vertebre tra i denti. Era il suo istinto, e fissò la volpe in nessun altro modo del cacciatore che fissa la sua preda. In quel momento prese a scendere una pioggerella sottile. La volpe non si mise al riparo, ma continuò a restituire al cane il suo sguardo tranquillo. Le gocce cadevano sulle foglie più alte della magnolia. Il loro rumore copriva il ringhio del cane, e qualsiasi ronzio il cane potesse sentire arrivare dalle stanze del palazzo. Questo pensiero lo rese triste, così per un attimo dimenticò la volpe e chinò il muso nelle zampe per il dispiacere.
«Io posso aiutarti», disse allora la volpe, non come chi domanda ma come chi sa di poter aiutare davvero.
Il cane la guardò e le credette. Il suo istinto di schioccarle le vertebre d’un morso si addormentò, e provò solo la speranza di poter essere a sua volta d’aiuto al suo padrone.
«Il rumore che cerchi», continuò la volpe. «Io so dov’è. Ti porterò in quella stanza, a patto che tu sarai gentile.»
«Chiunque troverò in quella stanza» rispose il cane «sarà bandito dal palazzo e dovrà vivere in città. Questo è l’ordine del mio principe.»
«Non importa» disse la volpe «perché lei ha il dono della calma. Vedrai quando l’avrai conosciuta. Starà bene. Ma tu, sii gentile.»
Il cane promise e seguì la volpe attraverso una stretta fessura nelle mura del palazzo. Di lì risalirono le scale del mastio, e a perdifiato percorsero la chiocciola che portava fino alle stanze superiori.
La volpe si fermò accanto a una porta di legno, la lunga coda a punta e una zampa alzata.
«Piccola volpe», disse il cane in mezzo al fiatone, «sono già stato qui e non sento nessun rumore, dove mi hai portato?»
«Entra» disse la volpe «e mi darai ragione.»
Il cane sollevò il chiavistello con la zampa anteriore e fu investito dalla luce delle lampade.
La prima cosa che vide furono i tappeti. Lunghi tappeti accatastati, del colore del rosso della volpe, intrecciati in figure o conclusi a metà, stesi sul pavimento o pendenti dagli schienali di paglia delle sedie. Di lei avvertì prima il rumore, e si domandò come avesse potuto non sentirlo prima. Allora capì cosa intendeva il principe: il ronzio del telaio su cui correvano le sue mani magre, incredibilmente lunghe, dalle giunture come frecce di libellula.
Il cane la guardò e ricordò di dover essere gentile. Ma non era necessario ricordarlo davanti ai suoi occhi chiari, che correvano da lui al telaio con una fonda grazia quieta.
La volpe l’aveva avvertito di come lei avesse il dono della calma. Il cane pensò a questo, e allora parlò:
«Signora, il tuo lavoro disturba il principe, mio padrone. Lui ti chiede di andare a vivere in città. Provvederemo a che tu abbia una casa, e che ti venga portato il telaio. Anche la tua volpe potrà venire con te.»
«Io non conosco nessuna volpe, cane. Quanto al resto, se potrò continuare a lavorare non mi importa di lasciare questa torre. Di’ al tuo principe che stanotte raccoglierò i miei tappeti e domani sarò pronta per andare.»
Non si dissero più nulla, anche se il cane la guardò a lungo perché non aveva mai visto nulla di così calmo. Poi il cane uscì e la donna chiuse la porta dietro di sé.
I giorni seguenti il principe sembrava tranquillo. Nessun ronzio lo disturbava, né di notte né di giorno. Spesso voleva alzarsi per passeggiare nella stanza e non era raro che chiamasse la più fidata delle guardie per una partita a scacchi. In quei momenti il cane sonnecchiava ai piedi del suo letto o girava per le cucine in cerca di un pezzo di carne. Era un cane molto amato, e c’era sempre un buon boccone per lui.
Non pensava mai alla donna del telaio, né alla volpe che non aveva avuto il cuore di cacciare.
Una notte si svegliò di soprassalto e vide che il suo padrone era di nuovo seduto sul letto con una mano al torace.
«Lupo», diceva, «svegliati.»
«Sono sveglio, padrone», disse lui.
«Lupo, lupo, forse sto impazzendo? Io sento una risata nella notte.»
Il cane chiuse gli occhi per ascoltare meglio. Non c’era niente che sentiva nella notte, ma ormai si fidava del suo padrone che poteva avvertire i ronzii più lontani.
«È la risata di una donna», disse il principe, «è lei, è lei che abbiamo scacciato, è troppo vicina ancora! Vai in città e cercala, e dille di andare via oltre le mura, dille che c’è una casa per lei in paese ma che mi stia lontano!»
Il cane corse fuori dalla stanza e attraversò il palazzo veloce quanto gli permettevano le zampe. Attraversò la recinzione e si scaraventò nella notte, dove la luna bagnava le mura di perla delle case. Attraversò i vicoli e le piazze, frugò tra le porte, le orecchie attente a carpire il minimo segno di risata, ma la città dormiva e dappertutto, nelle fontane e nei carri lasciati a riposo, era silenzio.
Sconsolato, il cane poggiò il muso tra le zampe in un cantuccio della grande piazza e sospirò.
Sulle scale della chiesa, la volpe lo fissava.
«La porta che cerchi», disse. «Io so dov’è. Ma devi essere gentile.»
«Volpe, tu sai che sono gentile.»
«Sì, lo so.»
Il cane seguì la piccola volpe lungo una stradina di ghiaia.
«Piccola volpe, tu mi porti da lei, ma sai che quando la incontrerò dovrò bandirla dalla città? Così vuole il mio padrone.»
«Non importa, perché lei ha il dono della gioia. Starà bene. Ecco, la porta è questa.»
Di nuovo il cane fece scattare il chiavistello con la zampa ed entrò.
Quando lo vide, la donna sorrise. Allora il cane capì cosa intendeva il principe. Ricordò cosa la volpe aveva detto, che lei aveva il dono della gioia, e vide la pienezza della sua allegria, simile al giorno in cui in cucina sfornavano il pane, simile a quando la domestica apriva le finestre del principe per far entrare l’aria nuova.
«Signora, il mio padrone sente il suono della tua risata e ha preparato per te una casa in paese, perché tu possa ridere senza svegliarlo.»
«Per ridere un posto vale l’altro», disse lei, «e a questo non sono ancora affezionata. Farete portare via il mio telaio? Ma tu prendi un po’ di prosciutto, hai l’aria trafelata.»
«Ti ringrazio, sto bene», rispose il cane. «Ma forse ne vuole un po’ la mia amica volpe.»
«È molto strano un cane che ha per amica una volpe», disse lei, e lui notò come la sorpresa le faceva alzare i palmi delle mani. Erano curiosi i suoi gesti, pensò, e impararli sarebbe stato bello.
«Davvero tu non conosci la volpe?», le domandò.
«Io non conosco nessuna volpe.»
Non si dissero più niente, ma il cane restò a guardarla a lungo, perché anche se lei aveva smesso di ridere non aveva mai visto niente di così allegro. Poi uscì e la donna chiuse la porta dietro di sé.
Il cane gironzolò per la notte in cerca della volpe ma non la incontrò, così verso l’alba tornò a palazzo, dove il suo padrone finalmente dormiva, e si accoccolò ai piedi del letto.
Furono giorni chiari. Il principe chiedeva sempre burro e marmellata per colazione, e dava ordini gentili. Di notte non si svegliava mai, e ogni volta che il cane si alzava per controllare il suo sonno lo trovava a dormire sul suo fianco preferito.
Finché una notte il principe si tirò a sedere con un urlo e si portò le mani alla testa. Piangeva singhiozzando. Il cane, terrorizzato, saltò sulle quattro zampe e gli chiese cosa avesse.
«Sta piangendo! Sta piangendo! Non lo posso sopportare! Che vada a vivere nelle campagne!»
Il cane uscì di corsa, e non tanto per l’ordine del suo padrone, ma perché lei piangeva.
Attraversò la città, ne superò le porte e arrivò in paese e lì, ancora correndo, abbaiò a gran voce il nome della volpe. La lingua di fiamma scese colandosi da un muricciolo e si affiancò alla sua corsa.
«Sarò gentile», disse il cane, «ma ti prego, indicami la sua porta!»
Senza parlare, la volpe superò la sua corsa e puntò con il muso una porta del paesino.
«Soffre», gli disse. «Ma tu stai tranquillo, perché ha il dono della pazienza.»
Il cane abbassò il chiavistello ed entrò. E allora capì cosa intendeva il principe, perché anche senza pianto la sua sofferenza faceva rumore.
Lei era tranquilla, aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto, ma lui lo vide, il dono della pazienza. Vide un corpo piccolo rispondere al dolore. Vide una mente pronta davanti al tremolare. La sacra resistenza di chi si ostina a essere vivo.
«Signora», disse. Ma non disse nient’altro.
«Se il pianto disturba il tuo principe, andrò a vivere nelle campagne.»
La donna si alzò e andò a chiudere la porta. Il cane rimase solo nella notte. Anche la volpe era sparita.
Nei giorni seguenti, il principe organizzò una giostra. Fece decorare di fiori il cortile che vedeva dalla finestra, e ordinò che sulla cima di ogni merlo sventolasse una striscia di seta con i colori della sua casa. Perché finalmente dormiva, e più nessun pensiero lo disturbava di giorno.
Ma il cane restava insonne. Non scendeva più nelle cucine e non giocava ad acchiappare i passeri in giardino e questo non perché l’aveva vista piangere o perché l’aveva scacciata nelle campagne, ma al contrario perché aveva conosciuto la sua calma e la sua allegria e si chiedeva dove mai ne avrebbe viste di simili.
Finché una notte, la notte prima della giostra, durante uno dei suoi molti risvegli il cane vide il suo principe dritto contro la finestra a occhi spalancati.
«Che succede, padrone?», sussurrò.
E il principe lanciò un urlo, e batté talmente forte la mano contro la finestra che questa si sbriciolò e gli ferì un palmo.
«Non succede niente», urlò il ragazzo, «e lei è lontana, eppure la sento! Continuo a sentirla! Lupo, vai nelle campagne e dille che è in esilio!»
Il cane si alzò lentamente a sedere.
«Padrone, questo non posso farlo.»
«Allora ti bandisco!», disse lui. »Bandisco te e la metà di questo cuore malato!» poi abbassò la voce. «Lupo, lupo, tu non vuoi vedermi così, non è vero? Vai da lei, e dille che è in esilio.»
Senza sentire il mezzo cuore che aveva nel petto, il cane prese la porta della stanza, attraversò il palazzo, la città, il paese, e si lanciò di corsa nelle campagne.
«Dove sei, mia diletta?», guaiva cercando la volpe.
La luna era piena, e si spargeva come latte sui campi appena seminati. La piccola fiamma sbucò dal tronco di un melo e di nuovo si affiancò alla sua corsa.
«Volpe, indicami la sua casa per l’ultima volta», disse il cane con la morte nel suo mezzo cuore.
«È facile, vedi?», rispose lei. «È quell’unica con la finestra illuminata. Vai e affacciati. Ha appena posato il telaio. È là che si riposa tranquilla.»
Il cane posò le grosse zampe sul davanzale incrostato di brina e guardò.
E allora capì cosa intendeva il principe, perché non c’era scampo a lei che sedeva tranquilla, le mani sul tavolo e lo sguardo distratto, presa in chissà che pensiero, del tutto occupata a essere viva.
Il cane tornò dalla volpe e le premette il muso sulle spalle.
«Diletta, mia diletta», disse. «E io ora dovrei entrare ed esiliarla per ordine di quello che è stato il mio padrone, per ordine di metà del mio cuore? Ma io non voglio. Lo facciano le guardie al posto mio. Io, io preferisco andare. Non tornerò a palazzo. Volpe, mia diletta; prima l’ho vista lavorare, poi l’ho vista ridere, e un giorno ho visto anche il suo dolore. Ho conosciuto la sua calma, la sua gioia e la sua pazienza. E ora guardo oltre questa finestra e la vedo intera. Possiedo solo mezzo cuore, ma l’ho dato a lei. Potrei esiliarla dalle campagne, ma non dal mezzo cuore che ho in petto. Cosa devo fare?»
«Cane. Cane.» disse la volpe premendo più forte il muso nel collo di lui. «Fai quello che hai detto: prendi il sentiero del fienile e vattene lontano.»
«Ma tu verrai con me?»
«No, cane, non posso. Anche il mio mezzo cuore deve stare accanto al suo. Ma tu. Guarda la tua fortuna. Guarda cosa ha fatto di te. Guarda dove lei ti ha portato. Fuori dal palazzo, all’imbocco di tutta questa potenza. Cane, se ti guardo mi sembra di vedere qualcuno che ha un cuore intero.»
Il cane si concesse un ultimo sguardo alla finestra.
«Avrei voluto farla ridere quando desiderava ridere. Le avrei premuto il muso sulle mani quando aveva voglia di pianto.»
«Non è il tuo compito, cane.»
Il cane guaì solo una volta. Poi pensò di entrare, di annusarle le dita come saluto, ma le vide svelte e lunghe e non la volle disturbare.
«Cane», disse la volpe. «Guarda quanta libertà c’è in questo esilio.»
La luna illuminava le tegole dei tetti. Il vento era caldo e scuro, come prima di una pioggia. Se pioverà, pensò il cane, mi riparerò sotto la pergola di un fienile. La metà del suo cuore era gonfia, mentre salutava la volpe, ma sapeva di dover essere pratico. Sapeva di dover pensare al cibo, al riparo. Di non doversi girare a guardare la finestra.
Viaggia ancora. Non è certo perché lo divide con il principe che metà del suo cuore è nel regno.
© Giovanna Amato, dicembre 2016