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Giovanni Fierro, Gorizia on/off (V parte)

foto gianni montieri

Giovanni Fierro, Gorizia on/off (V parte)

[ai seguenti link potete leggere le parti precedenti:  Gorizia on/off I parte  Gorizia on/off II parte Gorizia on/off III parte Gorizia on/off IV parte ]

 

(#41)

Via Michelstaedter è una strada che fa il suo giro
è una curva senza rettorica né persuasione, è
l’attesa di uno sparo, nel suo essere a fondo cieco.
Adriana Music si toglie le scarpe, la porta chiusa alle
spalle, il tempo aperto le si mostra di fronte. Sulla
via non vede nessuno e accosta la finestra. Sa che
non è più suo il dire “la mia crisi di pianto mi aiuta
ad innaffiare i fiori” e che è l‘ora di sapere di quando
la voce si sdoppia in un ascolto, ogni riflesso di uno
sguardo è il cielo blu che si ritrova. È arrivato
questo momento. Non è più il tempo di confondere
scontrini di attese e scarafaggi di ricordi, di pensare
di avere il cuore a forma di Rosa di Gorizia, la vita
con un’ancora nel mare di ogni tentennamento.
Basta. È l’esatto attimo in cui sa fare un nodo alla
parola più difficile da dire, ‘felicità’. E che ora non
si ripeta mai più. “Ti ho dato la speranza che ho fra
le labbra, il dolce di ogni sapore e la bellezza che so
creare con il silenzio, e ti ho fatto vedere “Daunbailò”
di Jim Jarmusch. Sì, credevo che tutto questo poteva
essere complicità, febbre, calore, fame e morso.
E invece per te era solo l’ansia di un prodigio, la
curata sicurezza di una volontà, un amore”.

 

(#42)

Con il pensiero che il cielo è questa trama di azzurro,
silenzio e separazione, anche quando si appoggia
alle case di Piazzutta, Silvio Onda si ricorda che “già
da ragazzino ho avuto dietro l’orecchio sinistro una
pallina di grasso, minuta. Veniva e se ne andava,
compariva e scompariva. Era la bussola che misurava,
ad intermittenza ma con precisione scientifica, la mia
giovane età. Perché prendevo una direzione e la
sbagliavo, nello stare mi muovevo con un inciampo,
a fatica trovavo le parole giuste per dire. Tutto questo
è rimasto nei decenni arrivati poi, e rinnovato”.
Si toglie il respiro di dosso, allarga lo sguardo e
aggiunge che “da poco più di un anno la ciste si è
ispessita, è rimasta fissa lì, più grossa, sottopelle e
in rilievo, con la sua forza di ricordarmi il mio tempo
di ragazzo, di errori e smarrimento. Due mesi fa ho
preso l’appuntamento in ospedale”. E il suo presente
è adesso, “oggi sono nell’ambulatorio di ottorino,
con l’anestesia, il taglio e l’odore di bruciato,
i quarantacinque minuti d’intervento chirurgico e i
quattro punti di sutura. Spero che sia l’ultima volta
che mi tolgo di dosso la mia età immatura”.

 

(#43)

Gorizia ha un vitino da vespa, in questo caldo
soffre la febbre e come ogni anima sbagliata
a me non sa preferire un fiore. Non conosce
il polline e quando punge, poi per staccarsi
dalla carne, con tutta la sua forza si spinge via,
ed evira il suo corpo, lascia il pungiglione
conficcato e il suo ventre vuoto e cavo. Così
si toglie il fiato, con la forza di una bellezza
che sa fare male. Anche a se stessa. Di tutto
questo ti parlo, e almeno tu sai rimanere. Già, con
te mi arrendo e mi sbaglio e mi dici ‘va bene così’.
A matita scrivo “questa città ha la memoria di
un adulto, quando pensa alla sua infanzia e,
a bassa voce, si dice ‘carezze, non me ne ricordo’”.
La galleria Bombi è sempre il fondo di un respiro
che non si riempie mai, l’occasione per l’aria di
fare una capriola e riuscire a non farsi male.
So costruire un silenzio, è il nodo di lontananza
e ore e minuti rinviati, lo tengo dietro gli occhi.
Nel tuo ascolto mi permetto la verità del mio
primo rinunciare alla protezione, “anche se so
stare nel cielo, e dell’azzurro disegno le direzioni
e la promessa della meteorologia, io ho con te
il limite di una nuvola, porto la pioggia”.

 

(#44)

Fulvio Bonomi guarda il fucile da caccia, ereditato
da suo padre; “Non ai caprioli e ai fagiani, neanche
ai cinghiali, ma un colpo al centro del cielo è sempre
da sparare”, pensa con gli occhi che non entrano
nello sguardo. Un secondo centro lo ha nella parte
giusta del suo petto, dove “il tramonto è sempre
sbagliato, con la stessa precisione dell’ascensore al
castello, iniziato anni fa e non ancora finito, i suoi
lavori lasciati lì, a terra rivoltata, vomiti di cemento
e tempo lasciato marcire. Come chi non ritorna più
a casa, riga per sempre il paesaggio. E quel paesaggio
è lì, a dire il disprezzo per la mia città, il cuore spinto
a sfiancarsi, abbandonato”. Sono le undici del mattino.
Il finire dell’estate è dalla sua parte, con un sollievo
che si mostra piano, nella tazza di latte che porge al
suo gatto bianco. Non ha da farsi perdonare nulla,
non certo il sogno di sua madre trapassata da orecchio
ad orecchio con una croce argentata, che ha fatto
la scorsa notte; neanche la macchina del vicino che
ha graffiato con il parafango del suo motorino, senza
volere. No, nulla. È tutto a posto. Tranne le parole
che ieri lui le ha detto. “Sì, abbiamo goduto assieme,
ma non pensare che il mio sia stato un gesto d’amore,
era solo il modo più sincero di disperdere il mio calore”.

 

(#45)

Anche le farfalle non sanno come togliersi dal
finire dell’estate, volano in ogni direzione possibile
e impossibile. Sento il rombo di un aereo, tanto
lassù che non lo vedo, e mi ricordo che c’è un cielo
più alto e mi rimane invisibile. Dietro gli occhi trovi
la natura di ogni sguardo, la radice più profonda
di ogni immagine veduta. Oggi il mio desiderio è
imparare la bellezza; trovare la sua vena, indovinare
i respiri che la tengono in vita. Ma dove si muove
la sua spinta, come trova il profumo, che cos’è?
L’impronta nell’aria che lascia l’altalena più vicina,
le briciole rimaste sul tavolo che degli abbracci
sono la conta, ogni tuffo al cuore che non sa
nuotare, la parola ‘attesa’ quando sui propri
polmoni sostiene tutto il tempo possibile e non
si spezza a metà, l’odore di una gioia rinviata…
Ma forse è ancora più semplice, e lo capisco prima
e meglio. È accettare che “sei il silenzio di luce
dove non entrano le mani del buio”.

 

(#46)

Anche oggi c’è questa nuova pioggia e io continuo
a credere che gli uomini dovrebbero assomigliare
alle pozzanghere, esistere solo in caso di profondità.
In viale XX Settembre mi fermo, lascio i passi, mi
tolgo dall’andare, la poca luce sulle foglie non ha
nessuna colpa, la sua è l’innocenza che si appoggia
alla natura, senza peso e con le dita a contare fino
a dieci. Forse a questo assomigli, il tuo è un amore
di ceramica, pregiato e fragile. Ha lo stesso timore
del viso quando si appoggia ad una carezza, il silenzio
che si nasconde in un angolo, il colletto di una camicia
che non si riesce a stirare. La buona abitudine di
trovare la bocca aperta della pace inizia adesso.
Sarai il canto di richiamo, la voglia di seme sui seni,
le dita tra i capelli, il fare bene di una margherita.
E ogni sospiro che si aggiunge. Farai degli occhi lo
sguardo che scopre, di ogni giorno che inizia la conta
per il nascondino, del dire ‘si, ancora’ la prova che dio
esiste. Lo sai, solo con il centimetro del primo passo
dentro un campo di girasoli puoi misurare la durata
della fioritura di una fortuna.

 

(#47)

Sto bene nel silenzio con le ore contante, l’aria
del non dire si perde in ogni saggezza lontana,
più delle rondini non torna neanche a primavera.
Guardo via Garibaldi dentro l’attesa del giorno
iniziato, non si muove, il suo respiro è un bianco
scolorito, vuole essere trasparenza. Qui è più facile
stare dalla parte dei demoni, aprono il loro cuore
alla fiamma, incantano con la parola ‘felicità’
annodata al collo, tolgono la paura alla sposa. Io
so solo che stare dalla parte di chi sbaglia è contare
il coraggio che manca alla foglia per affidarsi alla
caduta, portarti per mano nell’abbraccio da
nascondere, dirti scusa, sono io che dovevo capire
tutto. All’anagrafe la Rosa di Gorizia è radicchio
rosso di Gorizia, ma in natura rimane un bocciolo,
l’unico suo desiderio è di essere un fiore. Le assomigli.
Ma sei l’idea giusta del mio desiderio sbagliato.
Ti prego, togliti da me con la precisione della
febbre che si toglie dalla malattia. Lo sai, per
imparare bene a volare bisogna volare via.

 

(#48)

Fino adesso ho indovinato gli errori e le loro parole,
li ho messi a fare un filo a cui mi aggrappo e tiro,
sì ci sei anche tu, sei il nodo che lo fa finire.
Ma saranno i piccoli rumori del cuore in attesa
a salvarmi, farò entrare la luce nella luce, per
misurare lo spazio che rimane attorno, dove lo posso
chiamare casa. Ci sarà un silenzio al sapore di dolce
arresa, il suo profumo si disegna sui vetri, i contorni
evaporano. Saranno le ore giuste dei giorni vicini a
dirmi che posso rimanere, con tre poesie di Raymond
Carver, la gioia cucita che si tiene con una molletta
e un pallone da calcio. Ti dico sottovoce ‘sarai il
sonno prima del cuscino, e dopo il sognare che prende
coraggio e fa di ogni bambino un eroe’. Potrò solo
ritornare in galleria Bombi e dire buongiorno agli
uomini venuti da lontano, con una coperta inventano
un nido, portano con sé la fame e lo sguardo di dove
non si vede, la fuga sui passi, la febbre di ieri e di
domani. Sarò il ritorno, che non si incespica più
sulle radici della paura. E sarà sempre più vero che
la vita la si attraversa a morsi, e dall’amore ne potrò
uscire solo con una capriola.

 

(#49)

L’autunno arriva con una luce che si curva,
vuole tornare indietro e non sa più dove
andare. Via Rastello sale e sale, eppure al
castello non arriva, si spezza prima; l’aria per
via Monte Santo è uno stare che si rimanda,
il rintocco dell’ora è il suono delle campane
di San Rocco, sbatte contro le tegole della
chiesa di Šempeter. Claudia Saro sa che le
sue belle gambe la difendono dall’ignoranza,
le regalano i passi dentro l’aurora di una porta
aperta, si accavallano nel silenzio più giusto,
il desiderio di un buon caffè la aiuta a trovare
le parole “va bene così”. Dai tacchi non scende,
non vuole calpestare l’erba di una felicità che
indovina l’oroscopo e il proprio riflesso sulla
vetrina di Oviesse. Oggi dell’estate rimane un
rimorso, gira ancora sotto le forchette e i coltelli,
sulle tavole all’ora di pranzo. Lei con il suo sorriso
ha il respiro delle dita sulle labbra, nella sua
borsetta bianca nasconde il gomitolo di un nido:
“È inutile, sotto la lingua custodisco il sapore di
una fine, la morte è l’unico sonno al cui inizio
il sogno finisce. Ci credi?”.

 

(#50)

È più facile stare con lo sguardo in una bellezza
che si trova nelle cose dimenticate, nel vuoto
che lascia il sasso del tuo ricordo quando si
spezza. “Alla vita si risponde con la vita, se alla
vita hai chiesto la vita” è la filastrocca che ho
scritto tanto tempo fa, la ritrovo ora. Cammino
nel mattino di parco Coronini, gli alberi i rami le
foglie sono un intreccio di silenzio, una trama
sottile di figlio che assomiglia al padre, tiene su
il cielo. L’aria si muove e non torna. Qui sotto
mi fermo, nella mia giacca blu, nei miei capelli
più bianchi, nella barba che non vuole nascondermi.
Qui c’è il grande tronco tagliato e deposto, ad
Adele quand’era piccina le dicevo che era il mostro
marino, e lei inventava il mare, tutto attorno.
Anche così ha imparato a nuotare. Lascio fuori la
città, le carezze dei suoi passeri, le fermate
d’autobus che non arrivano mai, le parole del
pittore Nico Di Stasio che ricordo, “la gente ha
paura di quello che sa”. Faccio un passo indietro,
dentro ad un piccolo buio e alla sua ombra,
nel suo rimanere costruisco una pace che non
sa arrendersi. Solo qui si raccoglie vento,
e non si semina tempesta.

 

© Giovanni Fierro


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