
Mi reputo indegno di parlare di Maurizio Brusa e della sua poesia, ma due ragioni mi spingono a farlo: l’ammirazione per la sua poesia e l’affetto per suo figlio Alessandro, poeta e mio grande amico. Io e Alessandro più volte abbiamo parlato di suo padre, sia dell’uomo sia del poeta. Un poeta così defilato, appartato, che non solo non si è mai visto riconosciuto quel posto che dovrebbe occupare nei discorsi sullo “stato della poesia”, ma del quale in questi ultimi anni si era quasi fatta impossibile la reperibilità di buona parte della produzione, a eccezione delle raccolte più recenti.
L’improvvisa morte di Maurizio Brusa, sopraggiunta lo scorso 29 settembre, a non molte settimane di distanza da quella del padre Omero, ha, come sempre accade in questi casi, risvegliato il desiderio in molti di riscoprire una poesia che porta i segni di un’inedita esposizione al dolore del vivere per un ragazzo che ha conosciuto nell’età liceale la forza rivoluzionaria, utopica, del ′68, senza in verità riconoscersi in essa (lui, uno degli «emarginati coscienti» – definizione di Alfredo Taracchini, che firmò Per presentare Maurizio, ossia lo scritto che seguiva e inquadrava Idea per la prefazione di un ritmo, esordio di Maurizio Brusa nel fascicolo 29/30, gennaio 1977, della rivista «Rendiconti»); quel vento d rivoluzione che soffiò su quella parte di Romagna (lui nato e cresciuto a Imola) che in quegli anni rappresentava, insieme a Bologna (la pars emiliana), e più della capitale, la voglia di riscatto di un’Italia decisa realmente a lasciarsi alle spalle le contraddizioni del dopoguerra.
Spero che firme più qualificate di me nei prossimi mesi renderanno il giusto omaggio alla poesia di Maurizio Brusa. Io, grazie soprattutto ad Alessandro, che immediatamente ha accolto il mio invito a inviarmi dei componimenti di suo padre, compresi alcuni tra i meno noti perché lontani negli anni, voglio proporvi queste sue poesie con l’intenzione di colmare un vuoto, che è stato anche il mio vuoto.
È un percorso di lettura a ritroso, dalla penultima raccolta (Grammatica del silenzio, Manni 2008) alle poesie pubblicate nel 1979 nel n. 43 dei «Quaderni della fenice» diretti da Giovanni Raboni; una stagione, questa sua prima, che proprio in Romagna conosceva pure le esperienze di Benzoni, di Simoncelli e della rivista «Sul porto». Ma se in questi due altri poeti romagnoli la poesia guardava inevitabilmente all’Adriatico, come confine e limes da oltrepassare per riscattare la parola stessa, per Maurizio Brusa proprio su un molo la parola, dove nulla pareva essere mai accaduto, riconosceva il suo di limite; nonostante questa dolorosa constatazione, il poeta non rinunciava a dire e soprattutto non dissimulava l’assoluta fiducia nella poesia, continuamente rinnovata attraverso la costruzione di immagini evocative sorrette da un verseggiare elegante, e una lingua altrettanto fluida e in continua tensione, fino a forzare il punto di rottura e frammentarla (come nella sequenza proposta dalle poesie pubblicate nell’«Almanacco dello Specchio»): Maurizio Brusa diceva ciò che vedeva con gli occhi dell’esperienza, mettendo a nudo da subito un io fragile innanzi alla vita. Lo stesso io che si affaccia, a distanza di anni, nella sua ultima raccolta, La vita scalza, uscito lo scorso giugno per Stampa e che merita un discorso a sé. (fm)

MAURIZIO BRUSA (1951-2017)
Periferia del Domino
(da Grammatica del Silenzio, Manni, 2008)
ad Alessandro B.
L’uomo tace.
Si ferisce dormendo:
alla terra quel ch’è dovuto.
Al cielo l’ordine di restare sospeso.
C’era questo nella casa d’altri:
raccontare suo figlio a dispetto
e montava la rabbia, sapeva
di averlo scordato.
Solo qualche volta
incontrato per le scale.
La prima notte dopo i voti
era ossessionato
dall’idea di saperti povera.
È stato un errore dicevo
ma
ho letto tutto di te.
Ho ascoltato la tua voce
la domenica
durante l’omelìa.
Di’ pure ch’è salita
dalla scala di servizio,
che s’è rannicchiata nel mio posto vuoto.
Di’ che l’hai comprata e venduta
nel gioco facile di un pressappoco.
Non è compito mio
il tubo dell’acqua.
Quel che c’era da fare l’ho fatto.
Ho venduto il vendibile:
a moneta di scambio il disegno di Ruth.
Aveva il profilo di tua madre
mentre leggeva
attenta
“The Sculpture Garden”
e io
che cercavo di distrarla
pensando gli anni persi
e quest’esilio che non fa rumore.
Potresti essere tu
fra qualche anno:
un viso più magro, il cappello di cuoio.
Quel tuo andare sospeso
a far niente di te.
Come pulire casa il mio credito al giorno.
Perdemmo il treno delle undici e trenta
ma se il giocatore di scacchi
avesse vinto
se non avesse avuto
quel taglio penoso sul labbro
avremmo lasciato prima l’Hotel Isvezia
senza quel lungo giro fino a Vienna.
È un lavoro da piccoli servi
da rospi infine.
Non è cosa che mi riguardi
spolverare ogni sasso
e raccattare insetti
ma il suo album di schizzi
il piffero nero
la sua piccola mano
lasciata per sbaglio nella mia.
La crepa è velata
da un triangolo rosa
e lui
che ha imparato
a lasciare nel piatto
un boccone che prima non lasciava
mentre io bevo
tenendo in equilibrio
le cose che non stanno.
Non ti accanire così
non privarti mai
di quello che ti chiude
meno lontana
Nel posto dove un fiume
logge di pietra.
È solo terra che baratta il sole.
Non c’è modo di correggere
un corpo lineare.
Vorrei anch’io
qualche volta impreciso
camminare la polvere
che non è più strada.
C’era un negozio di cravatte
all’angolo:
una rara imperfezione del muro
a questo andare crudele che è la vicinanza.
Le Ragioni del Corpo (Il nido delle tortore)
(da «Almanacco dello Specchio», Mondadori, 1986)
a Matilde
sfiorando l’erba selvatica
trascurando
ogni minima traccia
(lo stesso dolore
due volte al petto
due volte
alla radice dei fianchi) occorre
fare in fretta
per via del sospetto
nessun indugio
nessun credito
in breve
le incomprensioni
i buffi litigi
(capì
quel suo modo
di aderire alla luce
di opporsi
inevitabile
nella perenne vigilia del corpo)
quando crescerà
mi disse
non vorrà la mano
ma
un alfabeto diligente
se di una piccola sepoltura
anche il gioco innocente
è certo
più debole
insidiosa
la goccia
ferendo le ossa
muovendo la terra
(l’erba velenosa
ti dico
è più saggia)
Con la sua Negligenza
(«Quaderni della Fenice», n. 43, Guanda, 1979)
1
. (in fondo
dove il molo
è finito da una stagione) non
era successo nient’altro (e
per sempre
anche le parole
2
. non solo con quelle (diventerò
vecchio certo e
non metterò la cinghia
ai pantaloni né
imparerò
a tossire (la donna capirà e
guarderà in silenzio
senza fare storie) come per gioco a misura
di un incontro
promesso (ma quasi in
silenzio per educazione) senza intenzione
mi scivolò ai piedi del letto
nel vecchio reparto
a vetri tondi (quel suo amico continuava
a ballare in piazza senza alcun
ritegno con
la calza sbottonata
sull’orlo della giacca) passavo
3
. la mattina dietro
l’angolo in
fondo e nessuno può dire che proprio quel
piccolo malato è
ruzzolato
dal labbro provocando un’alluvione di promesse e
presenze inutili (credevo che
la sua gioia
nel trovare canarini morti
fosse una possibilità di cambiare storia) e
quello che mi
riguarda
di questo e parlarne (dopo
io non ci sarò più da tempo non è
per il silenzio che
io voglio ricordare) senza
saperlo mi ero
incantato a
guardargli
la piega buffa dei pantaloni (già
4
. da qualche giorno
aspettavo quella
visita
dopo
le altre
con la tua paura ch’io raccontassi) (ho
una strana sensazione come
di averti perso
e qui dentro) ma
5
. neppure ora che
ricordo neppure
tu stai bene qui a casa (perché prima di
questo giorno non
mi ero
mai chiesto che importanza avesse) allora ma
solo perché non capivo
l’importanza
di quel lavoro nei campi (solo adesso
che posso guardarlo con la pace
di una cosa che non posso cambiare solo
adesso che ho il polmone
spezzato per
tutto questo correre e tutto questo aspettare) (con
6
. l’esattezza che
solo la morte può avere) (con
la sua negligenza la sua
poca attenzione e
tutto questo s’intende con l’unico difetto
di essere una madre) deve
stare tranquillo a guardarla
senza fretta
c’è tempo
con la tentazione
di
non averla mai amata così (e si trova a pensare
che in fondo
assomiglia
ad una piccola rana
morta per un errore di stagione) per
7
. una leggera
dimenticanza (ma era
di notte che scendevano dai letti
e si buttavano contro
la parete) raccontando con
attenzione quello
che più tardi
sarebbero stati (buoni genitori che
infilano lupi severi
tra la coscienza
e l’infanzia) senza un ricordo particolare
per la sua indifferenza (non è
bello rovesciare uno scherzo sulla vecchia stagione)
Maurizio Brusa è nato nel 1951 a Imola, dove è risieduto pressoché tutta la vita. Dal 1977 al 1988 ha dato alle stampe poesie sparse in rivista e raccolte con Guanda, Mondadori ed Electa. Ha collaborato a numerose riviste fra le quali «Rendiconti» (rivista alla quale è legato l’esordio in poesia nel 1977), «Prato Pagano», «Arsenale». Come traduttore ha curato gli Scritti d’arte di Paul Gauguin (Guanda, 1983) e alcune poesie del ‘500 francese in una fortunata antologia collettiva (Mondadori, 1984). A Imola, negli anni Ottanta diede vita e diresse la libreria “La Fenice”, punto di riferimento della vita cultura della cittadina romagnola, grazie all’organizzazione di letture pubbliche, presentazioni di libri e varie mostre d’arte. Lavorò anche come consulente editoriale. Dopo anni di silenzio nel novembre 2002 fece uscire la plaquette I disagi dell’ombra (La Mandragora), cui seguì Grammatica del silenzio (Manni, 2008). La vita scalza, sua ultima raccolta, è uscita lo scorso giugno per i tipi di Stampa. Il 29 settembre si è spento a Imola.
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5 risposte a “Omaggio a Maurizio Brusa (1951-2017)”
Sì, ha avuto “negligenza e poca attenzione” la morte, come dice il poeta, portandolo via prematuramente. Versi sintetici, pregni di significato, molto attuali, di un sentire forte e consapevole.
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Colpisce molto lo sguardo impavido, ma non spavaldo, depurato dalle scorie ma non certo per questo meno appassionato, sulle minuzie del vivere. Le rivalutazioni (non estemporanee) magari arriveranno.
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L’ha ribloggato su Cinzia Accetta.
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L’ha ribloggato su asSaggi critici.
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dispiace tanto che sia mancato tanto giovane.
grazie per aver condiviso: ottima scelta di versi per rendere onore e saluto.
a.
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