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Francesco Guazzo, 13 (di I. Grasso)

Francesco Guazzo
13
Edizioni Corte Micina
Premio Città di Fiumicino
2016

Recensione di Ilaria Grasso

 

Alla raccolta 13 di Francesco Guazzo ci sono arrivata casualmente come spesso capita “in rete”. Chi la scrive, vincendo il Premio Poesia Città di Fiumicino, è pressoché un ragazzo. Vi confesso di aver letto più volte la data di nascita dell’autore perché mi sembrava incredibile che un ragazzo così giovane po­tesse produrre versi di questa portata. Dovetti convincermi sull’età e iniziai a pensare di aver di fronte un enfant prodige. La sua raccolta ha il grande pregio della semplicità e al contempo dell’eleganza. Per me questi due elementi sono sinonimi, ma giudicate voi. La prima poesia che avevo letto on line era la se­conda della raccolta. Mi colpì molto il senso del movimento dei suoi versi e mi richiamò subito l’arte cinetica di Bruno Munari per alcuni aspetti, e l’arte astratta di Bonalumi per la modalità di trattare le luci e le ombre.
Il richiamo all’arte cinetica, nella sua compagine non strettamente legata alla scultura, mi balza agli occhi perché leggere i versi di Guazzo è come assistere ad una proiezione commentata di diapositive. In tutta la raccolta le immagini si susseguono in slow motion raccontandoci il dettaglio delle scene che hanno fatto nascere l’ispirazione e la contemplazione filosofica che ne consegue.
Qui ad esempio è palpabilissimo il movimento dalle cose grandi e lontane (l’orizzonte da invertire) alle cose piccole e vicine (il bambino con la bicicletta) Le immagini mi passano di fronte agli occhi e il mio pensiero anche come costretto a riflettere su quanto rappresentato.

A cadenza regolare, si è fatto
più urgente il desiderio
di invertire gli orizzonti,
e non è soltanto un sentimento
di esitazione per la monotonia
del giorno, stando almeno
alla spiegazione senza congetture
del ciliegio in fiore o al moto
perfetto del bambino dietro
la siepe, che gira su se stesso
con la bicicletta in mano.

Lo sguardo di Guazzo sembra studiare ogni fotogramma per coglierne i meccanismi e riuscire a mettere le parole in condizione di lavorare puntando all’aspetto percettivo e psicologico delle cose. Non ci sono icone o eroine nelle sue poesie, bensì figure che non ammettono, nella loro rappresentazione, un valore mistico o divino; si affacciano nei versi con tutta la loro immensa umanità. Anche lo spazio assume va­rie dimensioni. Il movimento creato nei versi diventa quindi uno strumento creato con consapevolezza per far esplodere in lungo e in largo la “contentezza” per l’autonomia e quindi la dignità ritrovata come possiamo vedere in questa:

Una donna, al mio paese, sta seduta
su una carrozzella senza scelte,
verso la quarta parte del pomeriggio,
sotto il sole, e mi parla
della necrosi agli ossami del corpo,
io la interrompo con il successo dei sorrisi,
e lei mi mostra la contentezza
per la novità dell’ascensore,
che trafora il soffitto, e le pareti.

Dicevamo di Munari. Mi riferisco a Munari perché è l’unico degli artisti del movimento artistico facente capo all’arte cinetica a dare una grande rilevanza alla pedagogia e al contatto coi bambini. L’artista infat­ti si è occupato di libri per bambini. Noti erano i suoi Prelibri che il designer aveva concepito per bam­bini che non avessero ancora iniziato a leggere. Furono disegnati per adattarsi alle loro mani e assem­blati usando diversi tipi di materiali, colori e rilegature. Questa sensibilità è forte anche in Guazzo che si reca nelle scuole elementari per avvicinare i bambini alla poesia. Un’iniziativa insolita anche questa per un diciottenne, ma che gli fa acquisire quella semplicità, quella chiarezza utile anche ai lettori adulti che, non comprendendola a fondo, si allontanerebbero dalla lettura delle poesie. Un ritorno alla semplicità con la consapevolezza della complessità del mondo, questo sembrano raccontarmi i versi di Guazzo che tratta il tempo privandolo del senso cronologico cristallizzandolo e sospendendolo nel presente. Perché è solo il passato a delineare i contorni del vuoto così non rimane che la felice scelta di collocarsi nel presente finalmente libero da ruoli assegnati da nessun’altro se non da se stesso.

Mi piace pensare al gioco
immobile,
sul centro della scacchiera,
al momento esatto della resa,
i giocatori incapaci di attesa,
ed io, a fissare la partita,
senza ruolo.

Un altro riferimento artistico è Bonalumi (immagino che l’autore lo conosca bene) non solo per la puli­zia dei versi e la nitidezza delle immagini ma anche per la consapevolezza con cui tratta la luce. Ne mo­dula i raggi e prova quasi ad addomesticarli in modo da creare la giusta quantità di ombra a evidenziarne nei fogli le liriche («perché si cambia luce/ ed era come se la gente/ avesse cominciato ad accalcarsi/ in farmacia/ io a buttarmi sulle strade/ guardando le stelle e il cielo»). Lo stesso fa con i pieni e i vuoti trattando l’amore come si fa con una vecchia pratica da trovare solo in parole in disuso o troppo usate o forse semplicemente troppo “grigie” («Amore/ o le sue mancanze»).
Tutte queste certezze, illustrate in maniera così granitica e quasi perentoria verranno messe in discus­sione nella raccolta («ed io sto senza custodi per la domanda»; «tuttavia più generica/ e senza posa»). Al­lora per la “soluzione dell’enigma” non rimane che osservare bene ciò che ci circonda per trovare ispira­zione poetica o di vita. Ammesso che ci sia tra vita e poesia uno stacco, un confine, una differenza. Per Guazzo di certo questo confine non può esistere, anche se ciò comporta sofferto impegno a recidere, come sottolineano i versi che chiudono raccolta.

Poi girarsi, cadere, farsi male,
come improvvisamente ripensare
da lontano, continuare a cercare,
stare con mia madre,
lasciarsi raccontare,
dire il silenzio che era
non vedersi, e assistere alla morte
del cassonetto fuori casa,
vedendo abbattuta
la siepe della scuola elementare

© Ilaria Grasso

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