Bruno mi fece: Eugenio, mi sono innamorato. Davvero? Davvero? dissi. Aveva un’espressione sconvolta. Era illuminato e disfatto dalla felicità, sembrava che la gioia lo avesse pestato. Era morto di vita. Non avevo mai visto uno innamorato sul serio: era una cosa così bella e deprimente, nei suoi occhi azzurri che guardavano oltre, come se stesse pregando in quella strana maniera che mi aveva insegnato, che ne ebbi paura. Puoi dirlo con certezza che sei innamorato? dissi. Cosa provi? Non te lo so dire, è una specie di ansia, una voglia di cose nuove, e anche, anche un po’ di sonno. E di chi ti sei innamorato? Di quella ragazza con il grembiule nero, la vedi? Mi sporsi un po’, lui si sporse insieme a me, indicandomela col dito. Arianna era tutta concentrata sul dolce, mangiava in fretta in fretta, come se avesse timore di non fare in tempo prima della fine della ricreazione. Teneva la merenda tra le mani come uno scoiattolo tiene la ghianda tra le zampe. Io, quella lì, la conosco, dissi. La conosci? Come si chiama? disse lui, quasi afferrandomi per il bavero. Arianna, si chiama. Abita nel mio palazzo, nell’appartamento accanto al mio. È la figlia della Papessa. Bruno non sapeva chi era la Papessa. E chi era? chiede anche Bruna. La madre. La chiamavo la Papessa. Una donna molto religiosa: perciò la chiamavo così. Andava a messa tre volte al giorno: la mattina prestissimo si comunicava. Usciva alle sei del mattino. Poi tornava a casa, svegliava la figlia e le preparava la colazione. Usciva per la spesa, più tardi, e faceva una capatina alla messa delle undici. La sera, alle cinque, di nuovo a messa. Si confessava, per essere pronta, pulita, per la comunione dell’indomani. L’ostia doveva essere la prima cosa che metteva in bocca, prima di iniziare la giornata: non sapeva muovere un passo, senza Cristo nello stomaco. Quando si ammalò, una volta, e non si poteva comunicare, le venne una crisi isterica, diventò matta. Aveva le visioni, vedeva tutti gli oggetti della casa muoversi contro di lei, precipitarle addosso, lo si capiva dalle sue urla che schizzavano per tutto il palazzo: niente stava più al suo posto, il suo stesso corpo si spezzava e ogni pezzo picchiava la sua anima. Arianna era molto piccola, allora. Gridava e piangeva: Mamma, mamma, calmati! Ma lei nemmeno la riconosceva più. La bambina fu vista sulla porta, fu sentita chiamare aiuto disperatamente. Dovette venire un prete a comunicare la Papessa a domicilio, come si fa con i moribondi. Appena ebbe l’ostia sulla lingua e la sentì sciogliersi dentro di sé, si placò, sorrise, disse alla figlia: Cara, tesoro mio. Un attimo dopo era guarita anche dalla malattia che l’aveva costretta a letto. Si alzò, aprì le finestre e si mise a cantare a squarciagola: Cristo è proprio una gran vitamina! Ero terrorizzato da quella donna. L’ho sognata infinite volte. Facevo un sogno ricorrente, con lei. Sognavo di cavalcare un cavallino nero, in una piazzetta di paese che aveva una fontana al centro. Il mio cavallino trottava intorno alla fontana. Alle finestre che davano sulla piazza stavano affacciati gli abitanti del paese: applaudivano cavallo e cavaliere. Ero ebbro di approvazione universale. Facevo anche l’equilibrista: mi mettevo in piedi sulla groppa del cavallo, allargavo le braccia, poi puntavo le mani sulla groppa e spingevo le gambe verso l’alto. Gli applausi erano sempre più forti e ritmati, era come se decine di tamburi suonassero all’unisono. All’inizio i colpi apparivano ravvicinati, stretti in un’allegra marcetta. Poi gradualmente si distanziavano, cupi, lenti, sempre di più, rimbombavano come cuori. Mi rimettevo a cavallo del mio cavallino, gambe in giù, e lui non trottava più, si trascinava alla meno peggio, arrancava, stanco, intorno alla fontana. Il ritmo delle mani diventava patibolare: era la marcia che accompagna i condannati a morte. Alzavo lo sguardo verso il mio pubblico, tutti battevano le mani con espressione triste, compassionevole. Che succede? domandavo. Nessuno mi rispondeva. Le donne piangevano silenziose, reclinavano le teste sulle spalle dei mariti. A un certo momento la fontana smetteva di buttare acqua e tutti smettevano di battere le mani. Il mondo era secco, immobile. Il cavallino, anche lui si era fermato. Si piegava sulle gambe per invitarmi a scendere. Scendevo. Camminavo, sbandando, per la piazza. C’era una porticina aperta, fatta apposta per entrare. Capitavo in un andito scuro e dicevo: Ma che succede, insomma? Per terra c’era la Papessa nuda, gonfia, con la bocca spalancata, immobile anche lei. Mi curvavo su quel corpo, pareva morta. Signora, che succede? Mettevo l’occhio nella bocca nera e vedevo ardere dentro, dentro quel corpo, una fiammella tremolante. La fiammella si agitava tutta, lanciava imprecazioni in una lingua strana, che però comprendevo. Comprendevo, cioè, ed ero il primo a meravigliarmene, il linguaggio del fuoco, della fiamma. Imprecava come una donnaccia, diceva tutte le parolacce che conoscevo, si protendeva verso di me come per appiccarmi il fuoco. Io mi ritraevo inorridito, mi voltavo verso la porta per scappare. La porta era chiusa. Tentavo allora di passarci attraverso, spingevo con le ginocchia, con le spalle, con la testa, con le mani, con i piedi, con le braccia. E la porta diventava molle, gommosa, appiccicosa. Mi si appiccicava addosso: non sarei mai riuscito a passarci attraverso. Restavo lì, invischiato per l’eternità. Forse la morte non è altro: colla, miele, gomma masticata e sciolta al sole. Una parete della mia stanza, proprio quella alla quale era accostato il mio letto, confinava con la casa di Arianna: ci spartivamo un muro. La sera, prima di coricarsi, la madre sottoponeva la figlia a un interrogatorio. Parlavano a bassa voce, ma io sentivo tutto. Hai studiato, oggi? diceva la Papessa, con la sua voce un po’ roca e un po’ acuta, quasi che fossero due voci di due persone diverse, ma era sempre lei. Arianna, quasi sempre, rispondeva: Sì. Allora la Papessa chiedeva: E quante ore hai studiato? Arianna diceva, mettiamo: Sei ore. Con voce acuta la Papessa insisteva: Sei sicura? Voce a punta di spilla sul vetro. Arianna ci pensava un po’. Quasi sempre diceva: No, non sono sicura. E dove sono andati, allora, i tuoi pensieri? domandava la Papessa, insidiosa, voce a spillo. Non lo so, ho cercato di concentrarmi tutto il tempo. Non sei stata per caso a guardare gli uccelli? O la pioggia? voce roca. No, no, forse mi sarò distratta un attimo sulle figure del libro. Quali figure? voce roca. Una torre, nel libro di storia. Una volta Arianna diceva: Una torre, nel libro di storia. Un’altra volta: Una strada, nel libro di geografia. Oppure: Una zebra, nel libro di scienze. Quanto tempo hai perso dietro alle figure? Arianna non sapeva rispondere, io sentivo un silenzio denso, che confessava il suo imbarazzo. Io stesso ero paralizzato da quel silenzio. D’accordo, chissà per quante ore ti sarai gingillata, diceva infine la Papessa. Per questa notte dormirai con la maschera. Arianna stava zitta e io stavo fermo immobile, riuscivo perfino a sentire il rumore dei legacci dietro la sua nuca. La Papessa metteva alla figlia una maschera a forma di topo. Altre volte era una testa di serpente o di civetta o di rinoceronte o di qualche altro animale ripugnante. Arianna non si ribellava. Dormiva con quella maschera. Mi sono sempre chiesto che cosa sognasse. Nel cuore della notte la Papessa la svegliava, le diceva: Come sta la mia cornacchia? La chiamava sempre cornacchia, non diceva mai: Come sta il mio topolino o come sta la mia biscia. Arianna rispondeva sempre: Sto bene, ero sveglia, e anche qui non so se dicesse la verità. La Papessa diceva: Tuo padre non tornerà, lo sai? Arianna non faceva domande. La Papessa insisteva, come se non fosse sicura di essersi spiegata: Tuo padre non si sveglia, dorme sempre. Il padre, in effetti, non si sapeva che fine avesse fatto. Non c’era. I vicini dicevano: È morto, e in viaggio, e in galera. Ma nessuno osava domandare niente. La Papessa non alludeva mai a suo marito, in pubblico. Soltanto la notte, con la sua voce acuta, quando andava a svegliare la figlia, verso le due, lo tirava in ballo con queste parole: Tuo padre dorme, dorme, e stanco. Oppure: Non tornerà. Io drizzavo le orecchie come un coniglio, sperando, almeno una volta, di udirlo ronfare o pronunciare una sola parola. Ma non sentivo che la voce bisbigliante, eppure stridula, della Papessa. Nessuno l’aveva mai visto, questo padre, e c’era chi diceva che donna la era pazza. Poteva anche succedere che la Papessa le slacciasse la maschera, quando andava a svegliare Arianna, e se la mettesse lei. Diceva: Mi riconosci? Chi sono? E Arianna doveva rispondere: Una cornacchia? La Papessa, con voce acuta o roca, rispondeva: No. E Arianna insisteva: Non sei una cornacchia? La Papessa strillava: No, no, stupida! A quel punto Arianna domandava, per farla contenta: Chi sei, allora? Sono Arianna! esclamava la Papessa, tutta felice. A quel punto avrei voluto gridare: Non è vero, vecchia stronza! Perché dici Così? Ma Arianna non se ne stupiva, stava al gioco: Ciao, Arianna, diceva. La madre si stendeva accanto a lei: Mi lasci dormire qui con te? Ti sei lavata i piedi? chiedeva Arianna. Sì. E i denti? Si. Va bene, allora, però mi volto dall’altra parte. Il giorno dopo non pensavo più a queste cose. Ma la notte, al ripetersi puntuale di questi avvenimenti, il terrore mi divorava, mi rannicchiavo sotto le lenzuola, mi coprivo la testa per non ascoltare. Però una forza poi mi tirava fuori e mi accostavo perfino al muro, ci inchiodavo l’orecchio per non perdere una sola parola. A volte mi pareva di perdere me stesso, sentivo come una spatola muoversi dentro di me, spianarmi tutto dentro, ridurmi a una lastra liscia, un muro senza più anima. Allora dovevo chiudere gli occhi per non perdermi. La picchiava mai? chiede Bruna. No, penso di no, dico io, sforzandomi di ricordare, tentando di immaginare. Era una bella ragazzina, questa Arianna? dice Bruna. Non so, forse tanto bella non era. Aveva un viso mite, rotondo, credo. A dire il vero, non riesco a rivederla bene, fisicamente: ora, dopo tanto tempo, ricordo soltanto una bambina in grembiule che morde questo suo ciambellone come uno scoiattolo. Come apparve quel giorno a Bruno. Gliene parlai, a lui, di quello che succedeva la notte, delle cose che udivo. Lui disse: Vorrei sentire anch’io. Così, una notte, venne a dormire da me. Si infilò nel mio letto e poté udire ogni cosa. Mi teneva stretto. Mi strinse forte forte quando udì la Papessa dire, con voce acuta o roca: Devi dormire con la maschera anche oggi. Il suo cuore batteva come un timpano, chissà se per amore o per paura. Al mattino andammo a scuola insieme. Quando, a ricreazione, Bruno rivide Arianna, si morse un labbro fino a farlo sanguinare. Non volle rientrare in classe, al suono della campanella. Io lo tiravo per un braccio. Lui mi rivolse uno sguardo cattivo: Lasciami in pace, me ne resto al gabinetto, vedrai che non se ne accorge nessuno. Dopo un’ora uscii dall’aula con una scusa e lo trovai lì, seduto sulla tazza, che fumava una sigaretta dietro l’altra. Il pavimento era foderato di cicche. Ero preoccupato. Gli dissi: Ma quando finisce, l’amore? Bruno rispose: Non si sa, non si può sapere. Dissi ancora: Che cosa si desidera? Non sapeva neanche questo. Mi sento vuoto, disse. Stavi pregando? Non mi interessa più, non ho più voglia di pregare. Pensi che Arianna potrebbe aiutarti? Non lo so. Stai pensando a lei? No. E ne sei davvero innamorato? Fece di sì con la testa. Era come se si vergognasse, Ora. Vorresti, dissi, che fosse qui, al mio posto? Fece spallucce. Le parlerai? Non credo, disse. Si mise a pisciare. Io non avevo più niente da dirgli. Per qualche mese non ebbi argomenti, ci parlammo pochissimo. E il cammello? chiede Bruna. Non si parlava più dell’angelo? No, non si parlava più neanche di lui. Uscivamo a passeggio per il quartiere senza parlarci. Andavamo a una piccola stazione ferroviaria, ci mettevamo a sedere sui sedili di marmo vicino ai binari e lui, muto, guardava in terra. Quanto a me, per distrarmi, mi mettevo a contare le traversine. Partivo da una traversina a caso e contavo verso destra e verso sinistra, finché ce la facevo, finché la distanza non le rendeva invisibili. Se passava un treno, perdevo il conto e allora riprendevo dall’inizio. Quando avevo finito di contare, gli mettevo una mano sul ginocchio, lui capiva che ero stanco, ci alzavamo e tornavamo a casa. Mi pareva di averlo perso per sempre. Cominciavo a odiarlo, il tempo che passavo con lui mi sembrava di spenderlo inutilmente. Forse anche Bruno pensava così, se pensava a qualcosa. Provavo insieme a Bruno la stessa noia che avevo provato da piccolissimo, un sentimento molto simile all’ansia: l’impazienza che mi veniva dal trovarmi solo con me stesso, la sensazione che il mondo fosse pieno di cose, di suoni, di immagini, che non mi appartenevano. Durante le nostre uscite, era come se non mi muovessi. Camminavo, eppure avevo l’impressione che fosse il mondo a muoversi senza di me: la stessa che si ha, a volte, guardando fuori dal finestrino di un treno. Io guardavo fuori dal finestrino di me stesso: c’erano negozi, persone, automobili, alberi, marciapiedi, lampioni, tutto, tutti passavano accanto, davanti, dietro a me, fermo come una colonnina spartitraffico, sospeso a fianco al mio amico, sospeso a sua volta, sospesi tutti e due, senza terra sotto i piedi. Ciò era solamente, semplicemente noioso. La presenza di Arianna nel cuore di Bruno mi spingeva inoltre a pensare a lei mio malgrado, e quasi avrei voluto innamorarmene io, se soltanto avessi saputo cos’era l’amore, per liberarlo, per rianimarlo, per ridare un po’ di senso alla nostra amicizia. Anche nelle ore diurne cominciava a tornarmi davanti l’immagine di lei, associata a quella, lugubre, della Papessa, alle sue maschere, alla sua voce mutevole. Ciò nonostante vedevo Bruno tutti i giorni, la mattina a scuola e il pomeriggio, dopo aver studiato. La domenica no, perché era il giorno destinato alla famiglia. I miei genitori, se faceva bel tempo, mi portavano in gita: in campagna, al mare, a mangiare fuori. Si passavano pomeriggi interi, fino al tramonto, a raccogliere cicoria nei prati. Io mi sedevo sull’erba, a una certa distanza da loro, che non si stancavano mai di star curvi a frugare in mezzo al verde, a riempire borse e borse di plastica. Anche lì continuavo ad annoiarmi. Passavo il tempo contando mentalmente: uno, due, tre, quattro… Come con le traversine. Non contavo oggetti: contavo entità astratte, solo per riempire, per saziare il tempo. Quando i numeri erano troppo alti, siccome mi impegnavo a pensarli per intero — per esempio: duemilasettecentoventisette, duemilasettecentoventotto, duemilasettecentoventinove — le parole si facevano talmente lunghe che le dimenticavo, ma subito ricominciavo daccapo, senza scoraggiarmi. La notte, inevitabilmente, avevo appuntamento con Arianna e la Papessa, con la mia angoscia. Una notte, per strapparmi da loro, fantasticai addirittura di uccidermi. Il metodo più semplice, più rapido e indolore, mi sembrava quello di gettarmi dal balcone, volare fin dentro la morte. Mi immedesimai talmente in questo pensiero che dovetti saltar giù dal letto. Camminai un po’ in circolo per la stanza, senza accendere la luce. Tremavo. Ma non riuscivo a strapparmi l’idea del suicidio: essa era accesa, lei sì, dentro di me. Camminando nel buio, mi girava la testa: era già come volare verso l’asfalto, lo stomaco si svuotava e doleva nel mio corpo, la nausea e un’insperata leggerezza si alternavano fra loro e con l’angoscia. Alla fine precipitai davvero sul pavimento. Lo svenimento si tramutò subito in un sonno profondo, incolore. Mia madre mi trovò in terra, raggomitolato, la mattina. Io dissi soltanto: Mi sono sentito male. La pregai, finalmente, di spostare il mio letto dalla parte opposta della stanza. Mia madre mi chiese: Perché? Io dissi: Per favore. Arrivai presto a scuola. Dovevano ancora aprire i cancelli. Erano in pochi, fuori, ad aspettare. Tra questi, Bruno. Aveva un’aria un po’ diversa. Notò che avevo gli occhi cerchiati: Cos’hai? mi disse. Mi sono sentito male, ho vomitato (non era vero). Fu molto tenero con me. Sorrise, finalmente, con un sorriso aperto, disteso. Non entriamo, oggi, propose, andiamo alla villa. Okay, dissi, ma prima andiamo a prendere il cappuccino al bar. Scegliemmo un bar abbastanza lontano dalla scuola, per non rischiare di essere sorpresi da qualche professore di passaggio. Ordinammo due cappuccini scuri, al vetro. Ci piaceva vedere il colore marroncino della bevanda. Io staccai le corna a un cornetto e le lasciai cadere dentro, aspettai che si ammollassero ben bene. Le raccolsi con il lungo cucchiaino e me le ficcai in bocca una dietro l’altra: le sentivo molli e dolci sulla lingua, mi piaceva molto, mangiare diventava un giocò. Mi pare che Bruno prese anche una pasta, un sospiro. Volle pagare lui. Non appena ci trovammo fuori, cominciò a correre come un matto. E io a corrergli dietro. Arrivammo alla villa con i polmoni che ci scoppiavano. Ci lasciammo cadere su una panchina e per un po’ pensammo solo a respirare. Intanto l’aria si era fatta più calda, il freschetto del primo mattino era stato spolverato dai raggi del sole. Dovevano essere le nove.
© Marco Papa, da Le nozze, Theoria, 1992.
Testo selezionato da Davide Valecchi, che ringraziamo.