Una lettura ingenua (e compilativa) di 3 dicembre di Vittorio Sereni
3 dicembre
All’ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace, dove la città
in un volo di ponti e di viali
si getta alla campagna
e chi passa non sa
di te come tu non sai
degli echi delle cacce che ti sfiorano.
Pace forse è davvero la tua
e gli occhi che noi richiudemmo
per sempre ora riaperti
stupiscono
che ancora per noi
tu muoia un poco ogni anno
in questo giorno.[1]
Il 5 dicembre 1940 Vittorio Sereni scriveva all’amico Giancarlo Vigorelli di avere «dedicata, nelle intenzioni e non dichiaratamente, all’Antonia» la poesia 3 dicembre, una delle otto poesie nuove composte a Modena dopo uno di quei periodi, a volte lunghi, a volte meno, durante i quali il poeta non componeva nulla. Di lì a un mese la poesia avrebbe visto la luce in «Tempo» (a. V, n. 1 [2-9 gennaio 1941]), insieme a Paese, unite col soprattitolo Due poesie.[2]
Dell’amicizia che legò Sereni ad Antonia Pozzi molto è stato scritto;[3] fu un legame sincero, di dialogo, e anche di ricerca, da parte della giovane poetessa, di un reale confronto che forse a un certo punto lei sentì venir meno, come se pure Sereni, come già alcuni amici della cerchia di Banfi, non le riconoscesse quella patente di poeta che Antonia sentiva di meritarsi.
È per questo che io, molto ingenuamente, ho sempre visto in 3 dicembre il tentativo di dare voce a un chiarimento a posteriori, con quella modalità e quel codice che Antonia avrebbe compresi all’istante. Potrebbe sembrare più una banalità che un’ingenuità, ma son convinto che a Sereni questi versi costarono fatica sia nel comporli (le varianti documentate da Isella ne sono testimonianza), sia nel licenziarli: vuoi perché, come confessava nuovamente a Vigorelli, tra la fine del 1940 e i primi mesi del 1941 si sentiva tentato dalla prosa, vuoi perché riconosceva nella natura di questo componimento uno «sbandamento verso il passato» rispetto al solco già tracciato della propria poesia.[4]
A mio avviso, però, lo ‘sbandamento’ va cercato più nel legame con Antonia, pagina realmente privata, e quindi tenuta distante da ogni indiscrezione e nel massimo riserbo, atteggiamento tipico di Sereni, che non nello scarto stilistico, come alcuni critici individuano. Andrà cercato nell’immagine di un passato che ha in Antonia il suo termine definitivo, assoluto.
Andrà cercato quindi anche nella presenza del tema, o motivo, dei morti, così ricorrente proprio in Frontiera, tale da apparire quasi una concessione alla ripetizione. Ma quella di Antonia Pozzi era una morte che non poteva essere taciuta! E con ciò non intendo dire, e mai dirò, che Sereni abbia voluto giustificare l’estremo gesto dell’amica; affermo solo che qui i versi ricreano quel senso di ‘pace cercata’ sia nell’atto sia nel luogo, perché è una morte indiscutibilmente accettata: quella periferia tanto amata dalla Pozzi negli ultimi anni di vita, nella quale aveva trovato il modo di essere diversamente sé stessa, fuggendo dalla città e dalle convenzioni sociali dell’intera società borghese, nelle lunghe corse in bicicletta – come osserva e immortala in Periferia, poesia datata 21 gennaio 1938 («Sento l’antico spasimo/– è la terra/ che sotto coperte di gelo/ solleva le sue braccia nere –/ e ho paura dei puoi passi fangosi, cara vita,/ che mi cammini a fianco, mi conduci/ vicino a vecchi dai lunghi mantelli/ a ragazzi/ veloci in groppa a opache biciclette,/ […] Nel tramonto le fabbriche incendiate/ ululano per il cupo avvio dei treni…»)[5] –, in un «volo di ponti e di viali». Mentre sul piano stilistico vedo, contrariamente a certe letture, la presenza di elementi che a partire da Frontiera si manterranno nella successiva raccolta Diario d’Algeria, spesso in corrispondenza con tematiche mortuarie, come ben evidenzia il commento di Georgia Fioroni. Mi riferisco alla forma verbale negativa del verbo ‘sapere, come ai vv. 5-6 “non sa/non sai”, che ritornerà, variata nella persona, a poca distanza nella poesia Alla giovinezza, sempre in Frontiera («Ma non sanno altro bene o altro male»), e che troverà una sorta di consacrazione icastica in Diario d’Algeria con il celebre attacco «Non sa più nulla, è alto sulle ali», ribadito a breve distanza dall’altrettanto celebre attacco «Non sanno d’essere morti/ i morti come noi».
Eppure a me pare che sia importante soffermarsi sulle possibili suggestioni provenienti dalla poesia della stessa Pozzi, con la quale questi versi sereniani dialogherebbero, dando così conferma alla domanda indiretta che Alessandra Cenni si poneva tra le righe alcuni anni fa.[6] Soprattutto penso, ma qui forse son io a subire il fascino di una suggestiva coincidenza di date, alla poesia Funerale senza tristezza, composta da Antonia Pozzi il 3 dicembre 1934, che inizia con gli splendidi versi «Questo non è esser morti,/ questo è tornare/ al paese, alla culla», e nella quale compare l’immagine degli «aerei ponti/ di cielo»[7] che ho sempre legato al «volo di ponti e di viali» della poesia di Sereni. Mentre il puntuale e già ricordato commento di Fioroni fa emergere la lunga serie di elementi che trovano una certa affinità con versi di Antonia Pozzi, a partire, per esempio, proprio dal primo verso che forse riprende non solo l’inizio di Fine di una domenica («Rotta da un fischio/ all’ultimo tumulto/ s’è scomposta la mischia») ma pure il verbo ‘sapere’ e l’immagine di qualcosa di ignoto e irrimediabilmente perduto («E a noi/ forse sovviene di un istante, quando/ qualchecosa si perse/ ad un crocicchio: che non sappiamo»),[8] poesia alla quale si può pure avvicinare Periferia, poco sopra ricordata. È una comunanza di sentimenti ciò che emerge con forza da questi versi di Sereni; sono versi che trovano nell’immagine eternata di Antonia Pozzi – eternata nel segno di Rilke e della sua idea di ‘morte compiuta’, che sia Sereni sia Pozzi conoscevano molto bene – il perno dell’intera poetica del primo Sereni, dove lo sguardo al passato è un dialogo continuo con la morte e le sue ombre (penso alla poesia Diana, o alla sezione Versi a Proserpina, tacendo altri componimenti). E allo stesso tempo 3 dicembre prende le distanze dall’immagine ‘ufficiale’ che la famiglia Pozzi, soprattutto il padre, voleva dare di Antonia. È un ‘passato che non passa’ quello di Vittorio Sereni; uno ‘sbandamento’ che durerà, variato nei modi e nei toni, per tutto l’arco della sua poesia.
© Fabio Michieli
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[1] Vittorio Sereni, Poesie. Edizione critica a cura di Dante Isella, Mondadori, I Meridiani, 1995 (d’ora in poi Poesie). Per una lettura commentata di 3 dicembre si veda anche Vittorio Sereni, Frontiera/Diario d’Algeria. A cura di Georgia Fioroni, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda Editore, 2013, pp. 100-103.
[2] Cfr. Apparato critico, in Vittorio Sereni, Poesie, cit., pp. 329-330.
[3] Uno su tutti: Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, La giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere, a cura di Alessandra Cenni, Scheiwiller, 1995.
[4] Cfr. Apparato critico, in Vittorio Sereni, Poesie, loc. cit.
[5] Periferia, in La giovinezza non trova scampo, cit., p. 40.
[6] Cfr. Alessandra Cenni, Le ragioni della memoria, in La giovinezza non trova scampo, cit., p. 15.
[7] Antonia Pozzi, Parole. Tutte le poesie. A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Ancora, 2015, p. 327 (d’ora in poi Parole).
[8] Parole, cit., p. 420.
Una replica a “‘3 dicembre’ di Vittorio Sereni”
L’ha ribloggato su asSaggi critici.
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