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proSabato: Goffredo Parise, Il ragazzo in nero. Racconto

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Il ragazzo in nero

La giornata era cenere come persistesse nell’aria la polvere dei bombardamenti di qualche giorno prima. Ma in quella polvere c’era qualche cosa di rosato uscito dallo sbriciolamento dei mattoni, questa invece preannunciava quanto doveva avvenire che era poi un corteo funebre. Già le nere divise di panno, di povero panno, con povere scarpe come penzolanti da forche avevano invaso la città anche da altre province e già il rullare dei tamburi saliva sulla strada in pendio disseminata di grigie chiese con piccioni arruffati e nascosti negli architravi, imbucati dal freddo intenso di quel gennaio, di quel gennaio. I poveri negozi di allora, con serrande bucherellate dagli spezzoni notturni, privi di merce o quasi, dove nulla era in vendita se non il padrone in camiciotto nero anche quello, dentro un buco, tra carte bollate dalla Repubblica di Salò e un forte odore di tabacco nero, tabacco da fiuto, impregnava il buco, i vari buchi dati per tabaccherie o altre botteghe nelle stesse condizioni, si allineavano lungo la via porticata.
Ma il padrone stava fuori ad attendere, a sbirciare il corteo funebre in arrivo al Ponte degli Angeli, dalle zone di abitazione del maggiore Polga, uno della Brigata Nera, con figli e figlie della Brigata Nera, tutta una non piccola famiglia vestita anche quella di quel panno nero fine, pareva, di tutte le cose. Anche la neve era attesa, ma faceva troppo freddo, doveva salire qualche grado perché quei fiocchetti minimi e vaganti qua e là si infittissero, diventassero neve.
Finché spuntò il primo drappello con gagliardetto, nero anche quello di neri militi armati, e poi una rappresentanza di soldati tedeschi con un ufficiale livido in volto e lucidissimi stivali, e poi la bara, coperta di nero con un nero berretto e visiera sopra. Era portata da neri, a spalla. Dietro la bara dei familiari, tra cui, distaccato di qualche metro dagli altri, il figlio più piccolo, un bambino di dodici anni, armato fino ai denti di pugnale e pistola e mitra, vestito, quello, di panno verde scuro, con il basco nero di traverso e gli occhi di pianto invece rossi ma il volto pallido, duro e appuntito.
Era, per modo di dire, un nostro compagno di scuola, uno che non si vedeva mai ma avrebbe dovuto frequentare con noi, quel greco, quel latino con il professor Refosco, in quei giorni però in galera. Dentro la bara stava, massacrato, il corpo di un uomo forte, prepotentissimo, dai folti capelli bianchi e la mandibola quadrata, reso immobile in una imboscata sui monti vicini, a Crespadoro, luogo di farfalle d’estate. Ma c’era stata e sarebbe poi tornata l’estate in quel luogo odoroso di salvia, con rialzi tra roccia e muschio e un mezzo bosco misto di castagni e abeti dove tonfava il suono di una cascata tra mucche esterrefatte e campane di caprette veloci dal seno rigonfio? C’era da dubitarne.
Ai lati della strada camminavano altri neri che controllavano se la gente si levava il cappello, se salutava il morto che, da morto, tra sfracellume di ossa ancora prepotente voleva il cordoglio, l’omaggio finale. Nulla più che chinare il capo e guardare per terra, da parte di chi sbirciava, dei negozianti, dalle botteghe vuote in grembiulotto nero, a quel freddo. Giunse alla nostra altezza e il ragazzo, solo, in mezzo alla strada, con gli occhi rossi, gettò un’occhiata e intercettò le nostre due figure, con il cappello in testa. Senza una parola lo tenemmo in testa, per distrazione, per terrore, senza alcuna lontanissima idea di provocare, di «dare una dimostrazione» di un antifascismo che in quel momento e dati i nostri mezzi proprio non era il caso. Era un morto, dopotutto, non diverso dagli altri dell’altra parte.
Ma così fu presa dal ragazzetto appuntito, da quella scheggia d’uomo sotto gli occhietti a globo degli arruffati piccioni sulle cornici. Si staccò dalla sua posizione di lenta marcia, una vera marcia funebre (ma allora cosa c’era di non funebre?) e venne verso di noi. Lentamente, con le mani guantate di nero, di guanti neri fatti in casa e già un po’ rotti, nella casa di uno che usciva di notte a infuocare l’aria gelida di Crespadoro di spari, bombe a mano e altri morti, lentamente caricò il mitra con uno scatto e giunto davanti a noi puntò l’arma tremando e disse con voce dolcissima: «Levatevi il cappello» e, dopo una pausa, «per piacere». Eravamo in due con capellone. Obbedimmo a quel povero arciere, ma non fu per paura, o spregio come lui certamente pensava, bensì per il giusto rispetto verso i carnami, la macelleria generale: e il suo «grazie» fu di troppo.

© Goffredo Parise, Il ragazzo era in nero, in Lontano, Milano, Adelphi, 2009² (Napoli, Avagliano editore, 2002). Questa prosa è apparsa il 27.10.82 nell’omonima rubrica tenuta dall’autore sul © «Corriere della Sera».

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