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Il frammento e l’intero: i “Dialoghi con Amin” di Giovanni Ibello (a cura di di Giuseppe Martella)

 

Giovanni Ibello, Dialoghi con Amin 
Introduzione di Milo De Angelis 
Crocetti, 2022

La lettura di questi Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello risulta accattivante e impegnativa
nel contempo, perché in questo testo ogni verso ha un valore di posizione e una energia cinetica reciprocamente incommensurabili, come rispondesse al principio di indeterminazione di Heisenberg per le particelle elementari della materia, corollario principale della teoria dei quanti. Il valore di posizione dei versi riguarda ovviamente qualsiasi testo poetico, ma qui in particolare esso è stato radicalmente modificato dal lavoro di revisione compiuto dall’autore sulla plaquette eponima pubblicata due anni fa [1] e che ora va a costituire grosso modo le prime due sezioni di questo poema. A tal proposito si può osservare per esempio che Il luogo del frammento, titolo della prima sezione di allora, viene ora sostituito da Yucatan, che era semplicemente un termine usato nella seconda parte della plaquette. La cancellazione del “luogo del frammento”, ben al di là del cambio di dicitura, risulta una mossa decisiva per l’architettura del presente testo, comportando dei vantaggi ma anche delle perdite, poiché «il dettaglio nel disegno è movimento» (T.S. Eliot). Qui in effetti il frammento di allora perde la sua energia potenziale (dynamis) che si trasforma in energia dispiegata (energeia) nell’opera compiuta (ergon), secondo le ben note distinzioni della metafisica aristotelica. Questo passaggio di ordine formale, dalla potenza all’atto, fa tutt’uno con quello di ordine tematico dalla cospirazione insurrezionale della plaquette al disfacimento programmatico dell’eredità estetica e religiosa ricevuta, cioè a dire anche dei simboli, delle figure e dei valori propri delle religioni e delle civiltà del Libro, ciò che Joyce e Eliot fecero a loro tempo, rispettivamente nell’Ulisse e nella Terra desolata, ma che ora appare nel contempo condensato e posto fuori corso qui dalla messa in scena di una condizione postuma che tutti ‘epocalmente’ ci segna e ci riguarda. 
Ecco dunque la portata del coinvolgimento e dell’impegno che spettano al lettore attento di questo testo: il resto può venire dall’abbandono al mistero della vicenda e dallo stupore di fronte a metafore sorprendenti e versi memorabili che ne alimentano la suspense, specie nelle prime due parti[2]. 
Questa tensione nel lettore fra abbandono e controllo corrisponde peraltro a quella esercitata dal poeta nell’assegnazione delle parti e nella modulazione delle voci. Quest’ultimo rilievo ci induce a una successiva apertura ermeneutica: cioè alla identificazione del “discanto” come parola chiave e veicolo del disamore cosmico che costituisce il tema pervasivo delle due ultime sezioni.[3] Il discanto è la forma inaugurale della polifonia medievale, consistendo nell’introduzione di una linea melodica che procede in senso contrario e a un’altezza maggiore rispetto a quella del tenor del cantus firmus gregoriano: esso costituisce dunque una controcorrente armonica che complica lo sviluppo tematico del pezzo in questione. Per ciò che ci riguarda, questo termine mette a fuoco l’intervento dell’autore sulla modulazione delle voci dei suoi personaggi: Amin, “il veritiero”, il martire eletto, Xanita, la vergine straniera che conosce “il teorema dei roghi”, e Giovanni, il profeta di una Apocalisse nel contempo incombente e preclusa. Già all’inizio della seconda parte del poema e poi definitivamente nelle ultime due, infatti, Giovanni prende la parola in prima persona e la sua voce assorbe e sovrasta quella degli altri due, in un controcanto paradossale che coniuga la deriva entropica del cosmo con l’intenzione costruttiva dell’opera, come a creare un’isola di ordine nel mare di entropia che lo circonda, questo mare nostrum, o mediterraneo dell’anima, dove l’autore attinge i suoi archetipi dagli echi delle voci dei poeti amati, che a loro volta ne resuscitano il retaggio mitico: Thammuz, Adonis, Amin, il martire eletto “che non conosce l’amore” ma incarna i riti di morte e rinascita stagionale; Xanita, una sorta di Persefone che ne costituisce il complemento femminile nell’androginia iscritta nel codice genetico del testo. Questo mare mostrum ora inquinato dai cadaveri degli esuli dispersi fra le due sponde, dalle scorie di petrolio e di plastica, nonché dalle chiacchiere dei media che lo attraversano da parte a parte come la zanna del cinghiale o il corno del “rinoceronte nero” che attendono l’eletto a uno dei tanti crocevia oracolari che qui appaiono nelle mirabili figure del discorso. Moduli d’ordine nella deriva entropica del cosmo che si condensa nell’angoscia esistenziale che riunisce infine le tre voci della vicenda in un corale fantasmatico che cede man mano al disamore di Giovanni, al suo cupio dissolvi irrevocabilmente espresso già all’inizio della II sezione: «Io sono Giovanni/ e non ho mai chiesto di essere amato./ […] Credimi, noi non stiamo per rinascere./ Nessun verso sconta la primavera» (p. 18). E poi ribadito nelle conclusioni della III: «Non so cosa amo,/ ma so cosa feconda il mio verso:/ fare del corpo la misura del tremendo» (p. 29), e della IV: «Avrei perdonato mia madre /  se non fossi nato per amore» (p. 36). 

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Ma come dicevo innanzi, insieme alle modulazioni della voce bisogna considerare le variazioni di prospettiva nel riuso tematico-formale che l’autore fa di alcuni luoghi delle sue due opere precedenti: una prospettiva che era assolutamente verticale in Turbative siderali, obliqua nel frammento dei Dialoghi con Amin (oscillante fra le tre persone di questa trinità del disastro), e che ora si fa vieppiù orizzontale, radente o addirittura ctonia, implodendo infine nel bianco luttuoso delle pupille di Giovanni (p. 32) che vive sul proprio corpo un’Apocalisse senza annunci e senza redenzione, una univoca, incommensurabile elaborazione del lutto per la contemporanea inflazione e scomparsa del Dio della religione del Libro (che ha qui il suo correlato demotico e ubiquo nell’immagine di Maradona) e del soggetto del discorso che cede all’imperativo del silenzio, nel momento in cui la rivelazione preclusa lascia solo un minimo spazio alla cospirazione insurrezionale, che si riduce ora a una labile comunione di respiri e a una urticante carezza sulla pelle dell’altra: «Misuriamo le distanze coi respiri:/ e la mia mano trema/ sopra una coltre di spilli» (p. 33). Tutto ciò mentre anche la distanza dalle cose si riduce al minimo, in vista di quella implosione in cui le turbative siderali faranno tutt’uno con l’orgasmo neuronale, accomunando macro e microcosmo nella regressione psicosomatica già sempre annunciata e desiderata dall’io poetico: «Poi il respiro si risolve/ in un orgasmo neuronale,/ è come un’implosione di pianeti nella mente/ una turbativa siderale/ del corpo che ritorna seme» (p. 35). 
Per giungere all’ultima indicibile fine in cui lo spietato rituale della caccia spodesta (come nell’ultimo Caproni) ogni possibile cerimonia dell’innocenza, annichilendo l’intero spettro del visibile e dell’udibile nel buco nero del silenzio. Avendo pagato lo scotto della messa in intreccio di un magnifico frammento, quest’ultimo testo di Giovanni Ibello si presenta ora come un’opera compiuta, un punto luminoso nell’arco di una carriera sempre tesa sulla soglia del buio e del silenzio, dove il poeta esercita in modo intransigente la rastremazione del verso in vista di una troppo umana composizione di luogo.

A cura di Giuseppe Martella

 


[1] Su questa ho scritto a suo tempo, per cui non mi soffermerò più di tanto sulle prime due parti, rinviando il lettore curioso a quella recensione: Il teorema dei roghi: Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello, premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita”, https://www.atelierpoesia.it/giovanni-ibello-dialoghi-con-amin-premio-fiumicino-2018-nota-di-giuseppe-martella/
[2] Un esempio per tutti: «Ci lega la parola feroce,/ una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica,/ l’esatto perimetro di un grido», p. 10. 
[3] «Così dormi, non vedi e manchi / il teatro spaziale delle ombre./ Il desiderio è l’ultimo discanto», p. 21.

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