Come vivono i morti senza amore?
Sulle poesie erotiche di Ritsos e Kavafis
di Sara Vergari
Ci sono collane editoriali che andrebbero comprate e lette per intero un numero dopo l’altro senza troppo domandarsi e con la sola certezza che, giunti al termine, avranno cambiato, sconvolto, emozionato ogni fibra del nostro corpo. Una di queste è Lekythos di Crocetti editore. Nicola Crocetti, fondatore della casa editrice nata nel 1981, è uno degli ultimi grandi intellettuali editori sulla scia di Luciano Foà, Roberto Bazlen e ancora Italo Calvino e Roberto Calasso. La cura estrema e personale di ogni volume rende i libri di Crocetti oggetti preziosi nella forma e nel contenuto. Alla carta pregiata e la raffinata veste grafica, sempre bianca con titolo rosso, si accompagna una scelta di autori che compone un canone isolato in Italia. Il nome della collana, Lekythos, si accorda con le origini e la formazione di Nicola Crocetti, nato in Grecia e studioso di cultura classica. Quasi tutti i nomi delle sue collane in effetti rimandano a una particolare tipologia di vaso greco; nel caso specifico si tratta di un vaso dalla forma allungata usato per oli e unguenti. Il logo stesso della casa editrice è la kylix, una coppa da banchetto.
Lekythos, che conta al momento circa cinquanta numeri, raccoglie una scelta raffinatissima di poesia contemporanea. Una particolare attenzione va ancora alla poesia greca, a cui vengono affidati i primi due volumi della collana con Erotica di Ghiannis Ritsos e Poesie erotiche di Kostantinos Kavafis. I due testi sembrano perfettamente dialogare tra loro, suggerendoci l’avvio di una collana in cui nessun libro sarà un’isola.
Leggendo queste due raccolte che Nicola Crocetti ha scelto e tradotto dal greco (il testo in lingua originale è comunque presente nei volumi) è evidentemente il tema dell’eros a dominare. L’eros in tutte le più sottili sfumature che assume nel significato greco, nella passione bramosa del tatto di un corpo vivo, nello struggimento per il dolore mortale che questo comporta, nella dolcezza del ricordo sfumato e quasi perduto.
La sezione Corpo nudo in Erotica di Ritsos (la raccolta contiene anche Piccola suite in rosso maggiore e Parola carnale) è insuperabile, indigeribile, è una serie purtroppo finita di colpi di lirismo brevi e intensissimi. I versi, spesso ridotti a singole parole, sono crudi, fatti di lessico semplice e quotidiano, che nella sfera sensoriale dell’erotismo assumono una forza carnale e disperata. C’è un corpo lontano dall’io del poeta che un tempo si è lasciato sfiorare con tenerezza e possedere con bramosia e c’è un’assenza insopportabile senza la quale l’arte non sarebbe nata e la vita sarebbe continuata. I versi di Ritsos sono pieni del corpo amato, solido, tangibile ma non delineato da tratti caratterizzanti. È sicuramente di donna ma non femminino, fatto di piedi, ginocchia, unghie, capelli. Sembra un corpo fatto a pezzi dal dolore del poeta, i cui brandelli sono per lui ossessivamente presenti. Al contrario non si costituisce mai l’immagine di una figura intera perché, per quanto sentita come reale e carnale, non si concretizza nell’oggi del poeta.
L’unghia del tuo dito mignolo
più infinita del mare.
Per dove mi veleggi?*
Frugo gli angoli della notte –
il tuo gomito, il tuo ginocchio,
il tuo mento.
Rotolano pietre.
Senz’alcun rumore.
Dove sei?*
Separatamente
le dita dei tuoi piedi,
delle tue mani,
i tuoi capelli, le tue unghie,
le tue ginocchia, le tue ascelle,
la morte.
La vita di un cuore innamorato esiste solo in accordo con i battiti di quello dell’altro; «Senti come mi batte forte il tuo cuore», scrive la Szymborska. L’attesa vana è l’unico ritmo rimasto una volta che l’amore sia perso o lontano. In Ritsos questa è fatta di gesti banali, di azioni involontarie e di routine, che non lasciano alcuno spazio all’illusione. La vita continua lo stesso ma senza l’amore diviene un susseguirsi di eventi destituiti di ogni significato. In Ritsos si legge tutta la violenza dell’insopportabile senza descrizioni di stati d’animo, ma con il solo alternarsi di pose statiche. Verbi e azioni occupano i versi ma l’agire è depotenziato e vanificato dal desiderio di quel corpo che rende impossibile ogni altra spinta vitale.
Le sigarette, il letto,
lo spazio pieno del tuo corpo –
la statua del mio sangue.*
Accendo fiammiferi,
mi taglio le unghie,
buco le lenzuola.
Manchi*
Dalla finestra vedo
uomini, case, giardini,
l’arcobaleno,
un trattore arancione,
un gatto,
un secondo arcobaleno.
E tu?
L’elemento delle mani ritorna in maniera ossessiva. Le mani sono il tatto con cui sentiva il corpo caldo dell’altro e sono anche la memoria con cui ora ricorda ciò che non ha più. Le mani sono la zona più erogena del corpo in questi componimenti e trasudano di una bramosia inappagata.
Qualsiasi cosa tocchi,
la carta, il tavolo, il bicchiere,
è te che tocco.
Le mie mani attaccate ai tuoi seni.
Non le controllo le mani.*
Le mie mani ti ricordano
più profondamente della memoria.*
In tanta stanchezza
l’insaziabilità delle nostre mani
Kavafis è certamente il poeta greco contemporaneo più riconosciuto in Europa ed è allo stesso tempo apprezzato nel suo paese per la sua veste di moderno Plutarco, pronto a far rivivere la grandezza della sua patria Grecia, restando però sempre nell’ombra. Come ha scritto il suo traduttore francese Grandomnt, Kavafis ha composto un’«Iliade dei dimenticati», in cui protagonisti diventano le figure marginali della società. In questa raccolta di Crocetti appare un altro Kavafis, quello dell’erotismo e della sensualità del corpo, che non è però scisso dal poeta storico.
In Poesie erotiche domina un eros inappagato e spesso neppure vissuto, dove il corpo dell’altro passa per caso per strada e si dilegua un attimo dopo lasciando quello sconvolgimento dei sensi che genererà la poesia. Più che il tatto qui è la vista ad accendere l’erotismo nell’improvviso accadere di un incontro fortuito e fulminante. Nei vari componimenti si vede nascere il desiderio sulle scale di casa (è noto che al pian¬terreno dove abitava Kavafis si trovava un bordello), in un bar, a teatro e questo continua a inseguire il poeta come un’eco ossessiva. I versi di Kavafis sono meno violenti di quelli di Ritsos nel tono e nel lessico ma ritroviamo la medesima necessità di un corpo caldo e ormai perduto. Si tratta di un corpo anche qui fatto di capelli, labbra, occhi, che mai assume una forma completa e delineata. È vero però che proprio in questi componimenti si trovano i riferimenti, se non più espliciti meno velati, ad un amore omoerotico. Nella bellezza del corpo si concretizza l’eros e la vita ordinaria assume un senso profondo. Di fronte all’impossibilità di tenere stretta tale perfezione, che in Kavafis si richiama anche alla kalokagathia classica, e alla carnalità che si fa sempre più labile la poesia diviene un estremo grido. I versi di Kavafis tentano allora di farsi statue eterne in mezzo alle ombre e ai fantasmi della vita.
II dicembre del 1903
E se non posso dire del mio amore –
se non parlo dei tuoi capelli, delle labbra, degli occhi,
serbo però nell’anima il tuo viso,
il suono della voce nel cervello,
i giorni di settembre che mi sorgono in sogno:
e dan forma e colore a parole e frasi
qualunque tema io tratti, qualunque idea io dica.*
Sulle scaleScendevo quella maledetta scala;
tu entravi dalla parta; per un attimo
vidi il tuo viso e tu mi vedesti.
Poi, per non esser rivisto, mi nascosi, e tu
passasti in fretta nascondendo il viso,
e t’infilasti in quella casa infame
dove non avresti trovato il piacere, come io del resto.Pure, l’amore che volevi l’avevo io da darti;
l’amore che volevo – lo dissero i tuoi occhi
sciupati e diffidenti – l’avevi tu da darmi.
Si sentirono, si cercarono i nostri corpi;
pelle e sangue compresero.Ma ci nascondemmo, tutti e due sconvolti.
*
Mezz’oraNon ti ebbi, né mai ti avrò, suppongo.
Qualche frase, un accostamento
come avant’ieri al bar, null’altro.
È un peccato, non dico. Ma noi dediti all’Arte
con la tensione della mente – e, ovvio,
solo per breve tempo – creiamo una voluttà
che sembra quasi materiale.
Così avant’ieri al bar – grazie anche all’alcol
e al suo aiuto pietoso e grande –
ebbi mezz’ora di perfetto amore.
Credo che anche tu te ne sia accorto
e sia rimasto un po’ più a lungo apposta.
Ne avevo gran bisogno. Ché malgrado
tutta la fantasia e la magia dell’alcol
m’occorreva guardare le tue labbra
m’occorreva avere accanto il tuo corpo.
In entrambi i poeti la grande domanda che genera la necessità dell’arte si condensa nei versi di Ritsos «Come vivono i morti/ senza amore?». E in effetti l’affanno poetico nel trovare parole che siano all’altezza del sentimento, lo smarrimento di questi versi e la solitudine profonda ci dimostra come nelle due raccolte l’amore sia davvero il sangue che rende vivi i nostri corpi.
© Sara Vergari
Una replica a “Sulle poesie erotiche di Ritsos e Kavafis (a cura di Sara Vergari)”
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Voglio con me, il mio corpo, all’aldilà
col sangue che gli scorre e lo riscalda,
coi brividi e le spine che mi dà,
la libido lussuriosa e ribalda.
Io m’accontento, per necessità,
d’ un corpo mio fedele e virtuale,
capace di ingannarmi all’ aldilà,
con una vita vera e sensuale.
Ti confesso, mio Padre creatore,
che senza corpo non ci so restare
nel tuo tempo eterno, atemporale,
alito senza mente e senza cuore.
10/5/13
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