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Lorenzo Mandalis, Verso dove

Lorenzo Mandalis, “Verso dove”, LietoColle 2020

Ci si muove, ci si sposta, si va verso qualcosa, verso un luogo, un’idea, un approdo; la mobilità di una generazione alla ricerca di una stabilità, di un equilibrio, o di punti di riferimento che non scivolino, o che svaniscano tra le nebbie; ecco, questo raccontano le poesie di Lorenzo Mandalis finalmente raccolte in Verso dove, silloge pubblicata da LietoColle sul finire dello scorso mese di settembre.
Le stagioni della vita si susseguono, come le stagioni nel ciclo della natura, e L’autunno di Lucca è un autunno – tanto reale quanto simbolico – che, posto alle porte di questo libro, inscena tra le sue prime poesie (suddivise nel libro in sei sezioni che sono a tutti gli effetti sei tappe  di un viaggio esistenziale: Un matin nous partons, Poesie londinesi, Rientro a Livorno, Poesie dublinesi, Poesie veneziane, La siepe) proprio i colori e gli odori di un’estate ormai finita, con i suoi riti che conoscono tutta la mitologia del passaggio di un uomo che, abbandonate l’infanzia prima e la giovinezza poi, entra ora nell’età adulta con tutto il carico di incertezze e domande che un giovane uomo porta con sé e che con esso interroga la precarietà dei suoi tempi. Ma, attenzione, è subito il poeta a spezzare ogni lettura eccessivamente simbolica della sua poesia:

C’era una corrispondenza scontata
tra noi e quelle migrazioni alla fine
del giorno. E la circumnavigazione
muraria troppo lirica da dire
non era neppure una metafora
o il correlativo oggettivo
di una circolarità della vita […]. (L’autunno di Lucca, p. 13)

Sulla presenza e sulla lezione di Caproni nella poesia di Mandalis già mi espressi quando ebbi occasione di confrontarmi con il suo dettato e il portato dei suoi temi; e sono totalmente concorde con ciò che scrive Roberto Gerace nella postfazione a Verso dove: «il più forte influsso, e forse meno evidente, Caproni sembra esercitarlo in una certa curva meditativa delle frasi, nel loro frequente spezzarsi e sussumersi, specie nelle sezioni centrali; nel riepilogare e ribadire le impressioni elementari, le più ordinarie esitazioni» (Verso quale dove, verso quale casa, p. 65). Ed eccole qui, queste “impressioni elementari” che si fanno “ordinarie esitazioni” e nelle quali trova alloggio una certa, precisa, puntuale solitudine (espressione di quelle «malinconie» che non hanno «santità o preveggenze» ma sono «solo un sentore […] leggero dolore/ per qualcosa che non sa durare/ più di un’ora», L’autunno di Lucca, cit.):

La terra umida e secca. Non è casa.
I filari d’aceri. I salici. I pochi
cipressi. I ruderi. I canali verdi.
Il cielo che si cala su un orizzonte
di trattori, fienili, e ombre curve.

Gli occhi di lucciola, le zolle
ferite dall’unghia. I canti sperduti
dalle bocche di grano, al rincasare
delle fatiche. La cantilena del grillo
che addormenta come un acufene
pulsante ogni sera – ogni notte –
e apre a nuovi campi, a nuove vite,
ai sogni delle spighe.

Non sono, tutte queste cose,
la mia casa. E anche queste parole
pesanti […]
                   non credo
mi appartengano. […]
               ma ho capito
che sei più solo nelle somiglianze.

[…] credi di rincasare nel tuo
solito azzurro di nuotanti e granchi
e sei invece lontano,
dispenso nel tempo scandito dalle cicale
e dalle zappe. (Appartenenza, p. 45)

Il tempo delle certezze ha lasciato spazio – come già detto – a infiniti interrogativi che smontano anche i simboli del proprio modo di rappresentarsi, del proprio bestiario individuale; come i granchi che costituiscono il senhal sia dell’infanzia sia dell’adolescenza, e che a queste due stagioni della vita rinviano immediatamente quando fanno capolino nei versi, pronti – nella solidità mutevole, ché si sa che l’animale abbandona il carapace quando fa la muta, fase che lo rende molle e vulnerabile fino alla nuova solidificazione – a contrapporsi alle nebbie delle nuove mete; granchi sempre presenti in questo andare e venire da luoghi che ogni volta ridefiniscono l’io, consegnandogli un nuovo guscio:

Ci guardano i granchi partire
dalle insenature buie di scoglio.
Tutti i cani seduti sulla riva –
il nostro odore lontano.

[…]

C’è molta nebbia là dove si va,
molta penombra soprattutto.
I bagagli sono pieni di lanterne. (Un matin nous partons, pp. 17,18)

*

Ho riconosciuto l’estate.
Le sue pendenze azzurre, lo scoglio
arido e ardente, il broncio del granchio;
ho riconosciuto anche il venditore
di gelati accavallarsi nel nitore
del giorno.
Tutto è stato di nuovo familiare.
Forse ce pays nous ennuie?
La patrie infame, è così infame? (“Ho riconosciuto l’estate…”, p. 31)

Ma a dare conforto, sostegno a quest’io a tratti disorientato, quando non disilluso, si pone come solido contrafforte un tu che racchiude in sé la più alta vocazione allocutoria della tradizione italiana; un tu – e qui non mi trovo d’accordo con quanto sostiene Gerace – che possiede nell’atto della nominazione ciò che Clizia in Montale possedeva attraverso un segno di luce, ossia l’elemento salvifico della poesia di Mandalis. Mai nominata direttamente, mai rappresentata nella sua corporeità, la “visiting angel” di Verso dove si manifesta attraverso la voce che sostituisce quella dell’io che si limita (si fa per dire) a esprimere il desiderio di poche certezze: «Vorrei cavalcare le tue parole / […] senza finzioni d’incanto;/ seguirle nel loro esalarsi/ fino alle città lontane che pronunci» (“Vorrei cavalcare le tue parole…”, p. 16); «Ripenso a alcune allegorie improprie/ di naufraghi barche porti sepolti/ rematori velisti certi Ulisse/ salmastri e c’è un che di scaduto/ qualcosa che deve prendere un largo/ inatteso […]// Poi tu pronunci le tue immagini di terra:/ […] e io quasi credo che presto anch’io ti raggiungerò,/ da questo immenso veliero di nubi/ nel lampo vuoto del giorno/ oltre le bufere i maestrali i libecci…» (Verso dove, p. 29).
Come osserva Gerace nella postfazione «la parola della donna è più che altro un portolano, una forza della terra e della concretezza, che va presa alla lettera»; la donna è figura necessaria nella poesia di Mandalis, e per questo può essere anche non esibita e ancor meno idealizzata: è reale, perché reale è l’amore. Ed in ragione di questa forza, che il pudore dei versi appena sfiora, Verso dove esibisce tutta la sua coerenza di diario di un uomo che lascia, per citare un’ultima volta Gerace, le tracce «delle traiettorie della nostra fantasia, se non di tutti i nostri viaggi», di ciò che «è in fondo il GPS di noi stessi, un residuo appercettivo, un dirsi.»

 


Alcune poesie di Lorenzo Mandalis sono state pubblicate su «Poetarum Silva» in due occasioni: nell’ottobre 2017 e nell’agosto 2018

Una replica a “Lorenzo Mandalis, Verso dove”

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