Marvi del Pozzo
Tradurre i classici oggi
Lo spunto per alcune riflessioni in merito alla traduzione di poeti classici latini (mi sono dedicata, nell’ultimo biennio, alla traduzione dei quattro libri delle Odi di Orazio) è originato dall’articolo di Nicola Gardini Il piacere di tradurre e ai relativi esempi di traduzione riportati nel n. 3 (settembre-ottobre 2020) di «Poesia» (nuova serie).
Il punto di avvio di Gardini è già presente nel titolo dell’articolo, Il piacere di tradurre, dove egli chiarisce che intende “tradurre per sé”, dando quindi spazio alla soggettività, alla sua sensibilità di traduttore, a una forma di creatività, spesso svalutata da quelle scuole che difendono altri criteri, quali l’impersonalità del tradurre in una forma di annullamento nel testo, alla ricerca di una «perfetta aderenza linguistica». La felicità del traduttore “per sé” consiste sostanzialmente, secondo Gardini, nella sintesi tra la resa dell’oggetto poetico (il testo) e la “visione” di esso, percezione soggettiva non solo logica, ma soprattutto intuitiva, emozionale: «La traduzione finale di un testo originale – dice Gardini – crea a questo punto un altro originale […] rispetto a cui il primo originale risulterà cosa estranea, illeggibile, oggetto e basta. Il nuovo originale, la traduzione compiuta, ne ha assorbito tutta la capacità di provocare visioni» (art. cit., p. 7).
Confesso di essere entrata un po’ in crisi: forse bisognerebbe intendersi meglio sul concetto di traduzione. Trovo assolutamente legittimo e operazione di squisito piacere estetico, apprezzabilissimo gioco della mente, scrivere e “tradurre per sé” tuttavia, forse, la penserei come un’attività paragonabile a quei divertissement, quando si scrivono, per puro diletto, poesie “alla maniera di…”. Io stessa mi ci dedicai con molta gioia personale in mie passate prove poetiche.
Nella fattispecie quindi io non parlerei di ‘traduzione’, che risulta falsante per il lettore, quanto piuttosto di ‘riscrittura’. Nella destinazione privata, del resto, sono concesse molte più libertà di quanto siano lecite in una pubblica pubblicazione (mi si perdoni il gioco di parole) di “traduzione”, in cui le responsabilità si moltiplicano rispetto all’autore originario e al lettore contemporaneo.
Gardini ha usato, per i due esempi oraziani, metri canonici italiani, ha dato titoli, inesistenti nel testo originario, ai componimenti, è ricorso talora all’uso della rima classica italiana ABAB. Ma i metri delle Odi (ben di tredici tipi diversi!) hanno una ritmica estremamente caratterizzata che si può ben rendere, con diverso tipo di esposizione in versi liberi attuali. E allora?
Dopo il lavoro sui 103 componimenti delle Odi, avendo rimeditato sui criteri di traduzione su cui ho informato la mia attività, me li sono sintetizzati in questi punti sostanziali e devo confessare in coscienza che ne riconosco, soggettivamente, tuttora la validità.
Fondamentale è per tutti la finalità del tradurre. Lo scopo di Gardini, come afferma, è la gioia, il piacere estetico del ricreare per sé, cosa che egli chiama “traduzione” e che io ho definito piuttosto una “riscrittura” gratificante e felice.
Per me lo scopo della traduzione è la comunicazione: il riportare in vita, circa 2040 anni dopo nel caso di Orazio, il poeta e l’uomo cercando di trovare la forma più chiara e congeniale oggi a un messaggio che allora era immediatamente percepibile ai suoi contemporanei, senza falsarne né la lettera né lo spirito.
Se questo è il mio fine, i mezzi per raggiungerlo mi sembrano:
- il rispetto del testo latino, il più possibile aderente alla lettera, non troppo liberamente reso, onde evitare di incorrere, per esempio, nelle sviste del giovane ventenne Pavese che, nella sua amatoriale traduzione delle Odi, preso da passionale impulso poetico, fa dire ad Orazio ciò che non si sogna di affermare, modificando decisamente il senso del testo insieme alla sintassi;[1]
- l’immediatezza di una comunicazione riferita ai lettori di oggi. Ricerca di lessico comprensibile, non banale, aulico solo quando la scelta tematica, in specifiche odi, invita Orazio a lessico e a metri altisonanti. Sintatticamente cerco di rispettare la struttura del periodo latino, anche perché non si può escludere a priori un uso didattico della traduzione;
- rilevanza del metro usato da Orazio per ogni singolo componimento. Cerco a questo proposito di rispettare cadenze, cesure, ritmi dei vari metri usati, strutturando il verso libero italiano in forme che riproducano, se non gli stessi, almeno analoghi effetti di sonorità. In questo va riconosciuto, ma non a mio merito, un particolare orecchio musicale coltivato fin dall’infanzia da una madre musicista, nonché un aiuto notevole dalla mia attività poetica, particolarmente incline alla musicalità e alle figure fonetiche del verso;
- importanza della resa non solo della lettera della poesia da tradurre, ma dello spirito dell’autore, di quell’Orazio notoriamente filosofo della “normalità”, del non pretendere troppo, del non fare mai il passo più lungo della gamba, affamato non di onori ma di valori, quali l’equilibrio, le gioie del vivere modestamente, l’amicizia, lo stare bene non in ricchezze eccessive ma neppure in scarsità. Ci è facile arrivare, del resto, ad una corretta interpretazione dello spirito di Orazio: se non vogliamo credere ciecamente alle fonti dirette sue (potrebbe infatti avere falsato, almeno in parte, le notizie che dà di sé per una forma di captatio benevolentiae del lettore), abbiamo numerosi riscontri nei racconti dei posteri, che vanno dai suoi contemporanei fino a Brodskij e oltre.
Per esemplificare quali problematiche e quali diversi intendimenti siano sottesi ad un lavoro di traduzione, e portino di conseguenza a dissimili risultati, propongo il testo latino di Orazio, tratto dal numero di «Poesia» citato e le due traduzioni, quella di Gardini e la mia.
In sintesi: tradurre i classici oggi. Libertà di un piacere estetico o responsabilità, seppure appassionante, di un servizio? L’ultima parola è sempre e solo del lettore?
Orazio
I.5
Quis multa gracilis te puer in rosa
perfusus liquidis urget odoribus
. grato, Pyrrha, sub antro?
. cui flavam religas comam,
simplex munditiis? Heu quotiens fidem
mutatosque deos flebit et aspera
. nigris aequora ventis
. emirabitur insolens,
qui nunc te fruitur credulus aurea,
qui semper vacuam, semper amabilem
. sperat, nescius aurae
. fallacis. Miseri, quibus
intemptata nites. Me tabula sacer
votiva paries indicat uvida
. suspendisse potenti
. vestimenta maris deo.
Nicola Gardini
I.5
Troppo infelice
Qual tra le rose snello giovinetto,
Pirra, nel caro anfratto
d’effluvi sparso a te si tiene stretto?
Per chi del crine d’oro hai fatto
con semplicetta grazia nodo? Ah spesso
del pegno dato piangerà l’oblio
e degli dèi e quel nero
di burrasca studierà incerto
mentre si gode il tuo fulgore adesso
e te sempre sua e facile da amare
crede, del menzognero
soffio ignaro. Troppo infelice
colui che te, mai avuta, adora: dice
sulla parete sacra il voto che io
le vesti zuppe ho offerto
all’imponente dio del mare.
Marvi del Pozzo
I.5
Chi è quel ragazzino snello, tutto profumato,
che tra mille rose ti stringe
o Pirra, in ricercato luogo appartato?
Per chi, semplice nella tua eleganza,
vai annodando i fulvi capelli? O quante volte piangerà
la lealtà tradita
i mutamenti degli dei e, inesperto,
vedrà mari tempestosi sotto ventate nere
proprio lui che ora, credulone, ti gode, fulgida,
e sempre libera, per sempre amabile
ti spera, ignaro del vento
che cambia! Infelici tutti quelli
cui sembri splendida, perché non ti hanno provata!
Riguardo a me, la sacra parete del tempio indica con l’ex voto
che al potente dio del mare
ho potuto dedicare le vesti bagnate,
scampato al naufragio.
Orazio
IV.1 (29-40)
… Me nec femina nec puer
iam nec spes animi credula mutui
. nec certare iuvat mero
nec vincire novis tempora floribus.
. Sed cur heu, Ligurine, cur
manat rara meas lacrima per genas?
. Cur facunda parvm decoro
inter verba cadit lingua silentio?
. Nocturnis ego somniis
iam captum teneo, iam volucrem sequor
. te per gramina Martii
campi, te per aquas, dure, volubilis.
Nicola Gardini
IV.1 (29-40)
A Ligurino
…
Né donna o giovinetto
m’importa né illudermi che cuore
parli al mio o vino schietto
a gara bere o unire al capo fiore.
Ma, Ligurino, allora
perché ogni tanto il pianto in viso cola?
Perché si disonora
nel silenzio cadendo la parola?
La notte ti catturo
poi in sogno e stringo e dietro poi mi affanno
tra l’erbe, oh troppo duro,
del campo Marzio, o i flutti che non stanno.
Marvi del Pozzo
IV.1 (29-40)
…
Non sono più per me né donne né ragazzi,
né speranza di scambievole amore,
non è per me gareggiare con le bevute
né cingere le tempie con serti di fiori in boccio.
Ma ahimè perché, Ligurino, una lacrima
isolata mi scende sulle guance?
Perché, la pur faconda mia lingua, tra parole
smozzicate cede ad un poco decoroso silenzio?
Nei sogni notturni già ti tengo stretto
e ti inseguo mentre fuggi via veloce
attraverso le erbe del Campo Marzio,
te, mio crudele, attraverso acque che scorrono via.
[1] Le Odi di Quinto Orazio Flacco tradotte da Cesare Pavese, a cura di Giovanni Barberi Squarotti, Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte: Guido Gozzano – Cesare Pavese, Saggi e testi vol. 21, Casa editrice Leo S. Olschki, Firenze 2013
4 risposte a “Marvi del Pozzo, Tradurre i classici oggi”
attendo con impazienza il nuovo libro di Marvi Del Pozzo
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Traduzione elegante, chiara ed efficace. Leggerò con piacere il libro di Marvi Del Pozzo
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Corretto.
Anche io non sono attratto dalla “versione in prosa” così libera e personale.
Diventa una autocelebrazione del traduttore
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Un articolo din rara chiarezza e davvero bella la traduzione, raffinata ed efficace. Attendo l’uscita del libro…
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