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Francesco Cagnetta, Pianeti di carne

Francesco Cagnetta, Pianeti di carne
Nota introduttiva di Pasquale Vitagliano
Transeuropa Edizioni 2020

Le orbite dei Pianeti di carne di Francesco Cagnetta sono un invito al viaggio e al rovesciamento di prospettiva. Chi legge accoglie il duplice invito, formulato sempre con un dire chiaro, preciso, a entrare in orbita, di pianeta in pianeta, a seguire il capo e la coda dell’orbita, il capo che diventa la coda, e, nello stesso tempo, a contemplare interrogandosi su evoluzioni, strappi e dispersioni, sugli innumerevoli «buchi nel cosmo», sulle tante omissioni e su ogni défaillance della memoria. A qualche domanda, si profila, si azzarda, confortati dal testo, una risposta. Vediamo il gatto o la lucertola? Vediamo entrambi, ci sembra, nell’immagine allo specchio, e vediamo Narciso che si infiamma di sé e vira in gorgo.
A un’ulteriore, pressante domanda – di quanti squarci è fatto l’universo? – Francesco Cagnetta sembra rispondere: di «moltitudini solitudini». La percezione distinta di un binomio che trova il suo fondamento nell’accostarsi e cozzare di masse e desolazioni convive con la certezza, richiamata da Borges citato in epigrafe, che «Non esiste classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale. La ragione è molto semplice: noi non sappiamo cosa sia l’universo».
In Pianeti di carne c’è un verbo che, con l’ampiezza, l’urgenza, perfino con la pressione di tutti i suoi significati, caratterizza la “congettura” del poeta: è il verbo “pulsare”. Pulsano i corpi celesti, luci intermittenti, pullulanti e sparpagliate, ancora una volta «moltitudini solitudini», pulsano le ferite aperte sotto croste, strati e scorze.
Sterminato pulsare, che sollecita e moltiplica la domanda conclusiva nel ventunesimo dei cinquantacinque testi che compaiono nella raccolta, il primo componimento della sezione che porta il titolo Plutone: «E quanta pelle, sotto la scorza della pelle/ quanta pelle quanti strati ci vogliono/ per formare un tessuto, un pensiero compiuto». Quanto ci vorrà, quanta polvere, quanto sangue, quante illusorie costruzioni, quanto tempo?
Francesco Cagnetta, come sottolinea Pasquale Vitagliano nella Nota introduttiva e come ho avuto modo di apprezzare negli anni del suo lavoro continuo sul testo poetico, di cui danno evidenza, tra l’altro, gli inediti pubblicati su Poetarum Silva, le poesie apparse, insieme a quelle di Giovanni Asmundo e di Vito Santoliquido, in Trittico d’esordio (Cofine 2017), per arrivare fin qui, fino a Pianeti di carne, invita a non cedere alla fretta, a sottrarsi alla furia classificatoria, ad attendere, «perché tra mille anni/ i nostri fiori vinceranno», come leggiamo nel testo a pagina 28.
Il «momento propizio/ balzerà come un pesce/ sarà lui che ti viene/ a cercare» (p. 40). Sarà un’epifania che, finalmente, non genererà illusioni e deliri di onnipotenza, bensì, con quieta forza, coltiverà «il terreno degli occhi», lo sguardo sulle foglie, sul mare, sulle porte chiuse, sul cielo, sui muri e sulle soglie delle caverne, sulla «linea cartesiana/ del sogno».

© Anna Maria Curci

 

Marte

2.
Costruiamo grattacieli
per tenerci disabitati
agglomerati urbani, piani
per attenuare moltitudini solitudini
che giocano con lo stesso mattone.
Abbiamo muri frontali
porte maestrali a prova di contatto
anditi e facciate da dividere.
Prima di entrare nella grotta
ci puliamo le scarpe.

 

Urano

11.
Adoravo i serpenti
finché un giorno
me li sono trovati nel letto
struggenti
sui viali della pelle
con gli occhi puntati
troppo grandi per il mio coraggio.
Poi un giorno l’ho incontrato
era lì, nello stesso punto esatto
disteso nel suo opaco legname
che non ha smesso di fissare.
Allora ho preso il gatto,
gliel’ho buttato sopra, fulgido,
a cancellare ogni traccia.
ora metto sempre un gatto
sul comodino
che brama e mi tiene il polso
e mi riporta sulla linea cartesiana
del sogno.

 

Venere

19.
Lasciami il terreno degli occhi
lascia che io vi pianti solchi
scorze secche d’albero
magari spunterà una città,
una cuccagna
o un albergo dove passare la notte
o una sedia in un caffè depresso
lì nella periferia del sogno
o non sorgerà nulla
e me ne tornerò a casa
ad inventare
il profumo buono del pane
che potevamo assaggiare.

 

Plutone

21.
Quanta terra c’è sotto
questo sottile strato di terra
per terra, sotto i miei piedi
quante foglie sotto le soglie.
E quanto azzurro, quanto sale
dentro l’acqua del mare
sotto goccia che goccia, quanto mare.
E quanto, tanto cielo
oltre il confine del cielo
quanto spazio aperto che diventa cielo.
E quanto rosso nel rosso del sangue
quante celle che si tingono
per aggiungere colore al dolore.
E quanta pelle, sotto la scorza della pelle
quanta pelle, quanti strati ci vogliono
per formare un tessuto, un pensiero compiuto.

 

Saturno

32.
Tendi i pensieri al mare
affidali alle onde
non buttare giù l’amo
per coglierne presto il frutto
aspetta i giri della fronte
i porti e le valli da scalare
che prenda un po’ di coraggio
che salpi l’ancoraggio
fallo suonare
al momento propizio
balzerà come un pesce
sarà lui che ti viene
a cercare.

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