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William Cliff, Materia chiusa (di Fabrizio Miliucci)

William Cliff, Materia chiusa
Traduzione e cura di Fabrizio Bajec
elliot 2020

Me voilà déjeté, misérable séquelle,
méprisé, conspué, honni de tout le monde,
regardant cette pluie du ciel continuelle
où pataugent les girls avec leur rire immonde.

Eccomi dunque reietto, miserabile postumo,
disprezzato, schernito e ovunque vilipeso,
mentre guardo venire giù la pioggia infinita
arrancano le miss e le loro oscene risa.

Con queste parole si presenta William Cliff, al sommo della sua lunga e prolifica carriera di poeta. Un misantropo schernito dal tempo e dagli uomini, oppresso da un cielo in disfacimento, mentre tutt’intorno dilaga la volgarità.
Questa immagine è rafforzata e arricchita da molti dei passaggi che compongono Materia chiusa, antologia di testi pubblicati nell’ultimo lustro, tradotta e curata da Fabrizio Bajec per i tipi di elliot. Cliff si dipinge come un personaggio disgustato dal suo tempo e torna volentieri al passato, ricordando la guerra e la miseria morale e materiale della ricostruzione. La stazione di partenza del suo lungo viaggio è il cento d’Europa – tra Fiandre e Vallonia – dove il poeta esperisce fin dall’infanzia il sentimento di una lingua impropria e provinciale. Il francese, che nel XX secolo sarà la lingua imposta e coloniale per eccellenza, è vissuta da Cliff al polo opposto della sua valenza geopolitica, come l’idioma dell’altro, del diverso.
Così, di pagina in pagina, senza rendersi del tutto conto di quello che accade, ci si trova invischiati in una poesia dai forti accenti narrativi ed autobiografici, anche se sarebbe sbagliato definire “diaristico” o “di memoria” il dettato di Cliff. Egli è un lirico – con accenti epigrammatici più che satirici – benché nell’unica maniera che gli sembra ancora possibile, ovvero sovrastando una realtà degradata con la propria risentita presenza. Materia chiusa è un romanzo degli anni che non concede niente alla prosa, in virtù dell’antica fedeltà che l’autore ha riservato alla poesia come forma tradizionale, aspetto giustamente messo in rilievo da Bajec nella sua Prefazione.
Al tono acido e disilluso del vecchio Cliff, sembra però corrispondere uno sguardo che ha preservato il suo originario candore, quando il poeta lamenta a voce spiegata i mali del mondo. Lontano dall’essere un freddo cantore del distacco, Cliff è inorridito o deliziato da una realtà sempre più lontana e indecifrabile. Il ritorno ai ricordi di una vita, affidato a una sorta di continua ekphrasis, si fa così inevitabile: la propria vicenda è mormorata quasi per stabilire un contatto con i giorni presenti, che immaginiamo solitari, trascorsi dal poeta come se fosse un sopravvissuto di lusso.
È a questo punto che la poesia di Cliff diventa quasi confidenziale, lasciando entrare nel ricordo il maestro Gabriel Ferrater, estrema propaggine della genìa baudelairiana che, a un passo dal suicidio, non smette di domandarsi «Quand partons-nous pour le Bonheur?»:

«Quand partons-nous pour le Bonheur?» disait-il en
répétant la phrase de Charles Baudelaire,
mais on voyait sous son sourire en même temps
la pitoyable issue qu’il allait devoir faire.

«Quando salpiamo per la gioia immensa?» diceva
ripetendo la frase di Charles Baudelaire,
ma al contempo dietro il sorriso si vedeva
la fine pietosa che avrebbe poi fatto.

E di nuovo, alla tragica storia di Ferrater sembra corrispondere una sequenza del presente, in cui il poeta continua a narrare, attraverso la sua collana di pseudo-sonetti, una disavventura occorsa durante un viaggio a Londra, che gli vale un ricovero in ospedale. E da lì, sempre attraverso la mediazione di uno scrittore (Senancour), la memoria vola agli anni di studio e formazione trascorsi a Barcellona, e infine ritorna a un presente squallido e incomprensibile, mitigato solo da una fede cieca e quai infantile.
Il gioco a cui ci invita Cliff ha qualcosa di materico, carnale. I suoi ricordi sono spesso incentrati sul cibo, sul piacere di vagabondare in città straniere e, in una parola, sul piacere di essere vivi. Nelle ampie schiarite del suo carattere bisbetico e ombroso, Cliff prova a farci capire che vale la pena vivere per cercare quello che ci piace e ci fa essere felici (lo stesso Ferrater diceva che il destino dell’uomo è essere felice) mentre è del tutto inutile ricercare quanto ci rende malinconici o di cattivo umore.
Un messaggio elementare, che ben pochi poeti avrebbero oggi il coraggio di abbracciare così esplicitamente. Nonostante la sua dura scorza, il vecchio poeta non esita ad indicarci la naturalezza dei bambini, «les plus grands malfaisants […] que pourtant l’on sème/ comme pour nous sauver d’un destin menaçant» («i più grandi malfattori […] che seminiamo/ per salvarci da un destino minaccioso»). 

© Fabrizio Miliucci

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