
Giovanni Asmundo, Francesco Cagnetta, Vito Santoliquido, Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci, Edizioni Cofine, Roma 2017
Canti di sponde, crateri e avamposti
Sulla poesia di Giovanni Asmundo, Francesco Cagnetta e Vito Santoliquido
Vengono da coste e da balze lontane gli Esordi dei tre poeti qui pubblicati, Giovanni Asmundo, Francesco Cagnetta, Vito Santoliquido. Tutti e tre giovani, tutti e tre presenti con i loro inediti tra le opere di poesia pubblicate in rete e non ancora in un’autonoma raccolta cartacea, tutti e tre di origine meridionale – siciliano Asmundo, pugliese Cagnetta, lucano Santoliquido – intonano con timbri diversi i loro ‘canti di sponde, crateri e avamposti’. La tensione tra amore vissuto quotidianamente per la poesia tutta, e in diverse fogge di classicità, e lo sguardo sulla realtà, altrettanto vissuto, sofferto e sognante, trasfigurato e pungente, si manifesta talvolta come il dispiegarsi non urlato di un contrasto, talaltra come lo sporgersi, con la chiara nozione del rischio mortale, su un orrido, talaltra, infine, come vera e propria zuffa.
Nella poesia di Giovanni Asmundo l’indicazione del volume del canto sembra sempre oscillare tra il piano e il pianissimo, indizio, questo, non certo di fragilità del dettato poetico, quanto piuttosto della volontà di colui che si definisce «figlio di scirocco» di opporre resistenza, per inaudito contrasto, al vociare del contingente. Il debito di riconoscenza alla tradizione della poesia italiana, gli echi foscoliani («Se e quando rivedrò la secca sponda») così come la presenza viva della mitologia classica, in questi testi un basso continuo che, più che manifestarsi per nomi ed esplicitazioni, è terreno fecondo sul quale la voce poetica muove i suoi passi, tutto ciò si fonde con una vista sul presente resa aguzza proprio dalla memoria serbata. Ne è una prova, in particolare, la poesia dedicata a Palermo: «Città di spigoli e smussi/ di cocente illusione/ di bocca secca./ Come l’ignoto che ha scritto quell’addio./ Ogni giorno a Palermo è un giungere/ e un levare. / Una speranza di scoperte e un lascito.». Mobile, dinamica, creatrice, la resistenza, non già all’erosione provocata dal mare, thàlassa, «voce gettata», ma a quella di detti vuoti e atti distruttivi, trasforma aggettivi e nomi in verbi che indicano un procedere, un evolversi: «azzurrare», «rumorerà».
Non smette di ammutinarsi, pur consapevole che la catena posata «cadrà esattamente/ sui tuoi piedi.» la lingua della poesia di Francesco Cagnetta. È un dettato che alterna il dire di sé, al presente indicativo («Conosco i moti della pelle», «Sudo le macerie/ di questa terra nera/ e non mi taccio»), all’esortazione a un tu («Posa la catena», «Smetti di correre», «smetti di allungarti») o a un voi, espressa prevalentemente all’imperativo («Lasciate in pace i morti/ lasciateli nel loro pensiero»). È un dettato sicuro – ricorro volutamente all’anafora, figura retorica ricorrente nella poesia di Cagnetta – che attinge a due fonti primarie: i viaggi quotidiani nelle letture amate, Vittorio Bodini innanzitutto, e l’altrettanto quotidiano duetto con un tempo storico vissuto per lo più come antagonista. Di qui l’alternanza, nei testi, di autoritratti che alla narrazione di allenamenti a un’opposizione, che si riconosce come strenua e vana, affiancano la constatazione, ridotta all’essenziale, di un’identità “disossata”, e di precetti non privi di ironia, tutti – autoritratti e precetti – lanciati da avamposti scomodi «Mantengo la posizione/ in un minuscolo avamposto/ di lode»), spogli, spolpati («Glabro, senza un filo di protesta/ è questo promontorio grigio»), dinanzi a nemici che si sono resi invisibili: «Toglietemi la vostra assenza/ quell’irripetibile presenza del nulla».
In Mélo, uno dei testi qui proposti da Vito Santoliquido si legge questo passaggio: «aver riguardo per quell’apocrifo/ dolore». In questo passaggio risiede la chiave di accesso al suo universo poetico, da qui scaturisce, allo stesso tempo, la sorgente che ne illumina l’impervia bellezza. Sì, impervia, come i tornanti interminabili che occorre affrontare nel percorrere le strade della sua regione d’origine, la Basilicata. Come accade lì, anche qui ci si imbatte di rado in rettilinei e può capitare che il coraggioso inerpicarsi sia all’improvviso schiaffeggiato da uno scarno cartello che, registrando una frana che si manifesta come ineluttabile, precluda la possibilità di raggiungere la meta, almeno per la strada che ci eravamo ‘pianamente’ e prosaicamente prefigurati. Anche qui, tuttavia, la sosta inattesa, spesso sul ciglio dell’orrido («Un estremo passo giù dalla scogliera») e il conseguente cambio obbligato di percorso possono riservare, e riservano, aperture altrimenti inaccessibili, visuali su colori nitidi, come forse conoscevamo soltanto dall’immaginario, dal sogno, da un’intuizione mescolata di slancio in avanti e nostalgia di un’era perduta. Sehnsucht, dunque, e il richiamo al fulcro del romanticismo tedesco e, in particolare, a Novalis che ne è suo sommo interprete, non è casuale da parte mia: nei testi qui proposti anche la prosa, come in Fossili, si illumina, trascolora e trasfigura per passare alla vita autentica, che si manifesta con la chiarezza e il nitore che le ‘usate cose’ hanno da tempo perduto. «Aver riguardo» vuol dire non solo porgere l’orecchio alla musica, semplice e ardua, palese e misteriosa, delle cose e dei luoghi («Queste stelle che brucano il viola»; «lingue di lupo, rose-spine del / rovo»), ma anche ripercorrere, con la sollecitudine che sgorga da una familiarità scelta consapevolmente, forme, generi e voci di una tradizione letteraria che parte da lontano e arriva fino ai tempi nostri, come evidenziano alcuni titoli – Madrigale privato, Mélo – e i tributi ad autori, manifesti nei testi in epigrafe, come per Cortázar e per Montale, ovvero intessuti nei versi, come avviene per l’XI dei Cantos di Ezra Pound nella poesia dwell, in un gioco di rimandi a figure, armonie e citazioni rivisitate e rinnovate. Chi legge e ascolta, sa che l’esplorazione del nascosto, la ricerca nell’apocrifo daranno frutti.
© Anna Maria Curci
***
(E al riaffacciarci sul mare
dopo distanza che non si conta
ci sentimmo vicini assai
a quei fratelli, alla voce gettata:
thàlassa…)
A metà. Un sentire rappreso.
L’Eletta, all’ora dei vespri, Alloro
alla Kalsa. Un confratello acceso
da stop d’automobile. Una bimba
curva e nascosta ride in cella
dietro a un cassonetto. Questa città
mi romperà la testa.
Un cortile di ciottoli ripreso
lama di luna, salso buio
una finestra d’osterio, un legno pinto.
Trattenere i fiumi
con le dita.
Città di spigoli e smussi
di cocente illusione
di bocca secca.
Come l’ignoto che ha scritto quell’addio.
Ogni giorno a Palermo è un giungere
e un levare.
Una speranza di scoperte e un lascito.
Giovanni Asmundo
*
Su di un grembo di carta
ho caricato il mio fucile
eretto barriere di gomma
per tenervi lontani:
mantengo la posizione
in un minuscolo avamposto
di lode.
Perché nel movimento a ritroso
sotto il tracciato della pelle
ho rose pronte per la schiusa
nascoste nella consapevolezza
del mio silenzio.
Francesco Cagnetta
*
[dwell]
(«come… un sogno», magnolia)
come cervi negli abissi allora stiamo, come in un crepuscolo, tra le alghe il muschio
così, sommersi – o dentro a un guscio-galassia (però piccino) gherigli opachi
(pulsano i globuli, ci contagiano
certe malattie
innominabili, chiocciole d’oro crepando
le nostre iridi di lupi) – e qui le vedi le
vertebre aguzze le vene oltre la
carne (che se tu guardi
è trasparente liquida quasi) – oppure è un’aurora
(un po’ liberty così, ecco, barbaglio sangue-
rame «frastaglio di palma»
che si brucia), ma siamo come
stelle se tu ti stringi e ti
stropicci (adagio) e brilli e splendi vicino a me, senza sosta vedi
così, qui ora – nell’occhio nel pozzo selvaggio e nero
tutto – demone nero-latte – («In the gloom the gold…»), e tu così scintilli
tutto e ti incendi ecco divora mio
(«…gathers the light about it»), mercurio cuore argento, mio stupendo mio feticcio onirico e glitterato
come tu dormi adesso, come davvero
riposiamo – nel buio
questo, che è come un lago di falene di cenere
un bosco, come un altare o come…
Vito Santoliquido
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Giovanni Luca Asmundo è nato a Palermo nel 1987; architetto, vive e lavora a Venezia nel campo dell’architettura e della ricerca presso l’Università IUAV. Negli anni partecipa e ottiene i primi posti in diversi concorsi nazionali di poesia, narrativa e prosa lirica. Sue poesie appaiono su riviste online e cartacee tra le quali “Poetarum Silva”, “Poliscritture”, “La Masnada”. È presente in tre antologie in ebook a cura del blog “La presenza di Èrato” e in quella cartacea Poesia e luce: Venezia, a cura di Marco Nereo Rotelli (2015). È tra i fondatori del progetto di poesia e fotografia “Peripli. Topografia di uno smarrimento” ed è stato co-curatore di “Congiunzioni Festival di poesia e videoarte 2015”.
Francesco Cagnetta è nato a Bisceglie (BT) nel 1982 ed è residente in Terlizzi (BA). Esercita la professione di avvocato. Pur essendo un autore pressoché esordiente, alcuni suoi scritti sono comparsi in alcune antologie non cartacee. Diverse le recensioni su blog letterari a cura di Pasquale Vitagliano, Nicola Vacca e Anna Maria Curci. Ha partecipato a reading letterari tra cui il Festival “La Luna e i Calanchi” a cura di Franco Arminio. Tra i poeti che preferisce ci sono quelli che hanno affrontato le questioni del meridionalismo.
Vito Santoliquido è originario di Forenza (PZ), dove tuttora vive la sua famiglia; è nato nel 1989. Si è laureato in Filologia moderna presso l’Università Ca’ Foscari Venezia: area d’elezione le letterature medievali romanze. Attualmente è dottorando in Italianistica e Romanistica presso le università di Venezia e Zurigo. Suoi inediti sono apparsi in “Poetarum Silva” (letture di Fabio Michieli e Anna Maria Curci), La Sepoltura della Letteratura (nota di Mattia Lo Presti) e Farapoesia/Kerberos (presentazione di Luca Cenacchi). Cura un blog personale, guidato dall’idea di associare liriche e immagini: lesommeilinterrompu.wordpress.com.
3 risposte a “Asmundo, Cagnetta, Santoliquido: Trittico d’esordio”
[…] QUI l’articolo a cura di Anna Maria Curci su Poetarum Silva. […]
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Ringrazio di cuore Anna Maria Curci per la bellissima lettura, e naturalmente la redazione di Poetarum Silva, per la commovente fedeltà. Grazie.
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