
© Nachlass Eric Celan
La parola che non tace.
Omaggio a Paul Celan a cinquant’anni dalla morte
di Niccolò Amelii
La poesia di Paul Celan, sebbene votata a una viscerale quanto oracolare figuralità metaforica e connotativa, conserva e custodisce entro le trame del proprio tessuto lirico, e non potrebbe essere altrimenti, le persistenti tracce di una vicenda autobiografica crudele e disumana, il marchio di morte e dolore che la Storia vi ha impresso a fuoco in sommità. Eppure, nonostante l’emersione fluviale della realtà sopra il livello prettamente poetico, i referenti evocati, suggeriti, chiamati in causa, non divengono mai solo rispecchiamento lucido, puntuale ed esplicito di una soggettività univoca e confessionale, perché si arricchiscono di una pregnanza di senso talmente estesa e profonda da lambire l’universalità della condizione umana.
Celan si trova a scrivere i suoi componimenti lirici sotto il giogo pesante di un passato drammatico e insopportabile, vittima di un esilio forzato che lo porta lontano dalla sua terra natia, terra di morte e distruzione. Ma ciò da cui Celan non si allontanerà mai, almeno nel poetare, è la sua lingua madre, il tedesco, considerato dal poeta l’estremo legame non recidibile con la sua famiglia, la sua eredità, la sua giovinezza, l’unico appiglio a cui aggrapparsi una volta persa ogni possibilità di avere ancora un luogo da chiamare “casa”. Accettando come logica conseguenza della propria scelta linguistica l’isolamento intellettuale, che lo caratterizza soprattutto nei primi anni parigini, Celan decide di non affidarsi a nessun altro idioma, nonostante tale opzione sembri la più conveniente, perché fortemente contrario al bilinguismo poetico e assolutamente convinto che abdicare alla lingua della madre vorrebbe dire estirpare dal terreno anche l’ultima radice di un passato che, sebbene oscuro e avvolto unicamente da dolore e sofferenza, non merita di sprofondare nell’oblio più profondo. Ecco perché, se si vuole intavolare un discorso sul rapporto tra impianto e strutturazione lirica e biografia in Paul Celan, non si può non partire proprio dalla lingua e dalla decisione di continuare a utilizzare il tedesco, grande e insuperabile paradosso che investe con notevoli conseguenze l’intera opera poetica del suddetto. Perché il tedesco, lo impone l’unidirezionalità implacabile della Storia, non può più essere una lingua neutra, specialmente per chi è uscito fatto a pezzi, devastato, dagli orrori imposti dalla follia germanica; è stata la lingua dei trucidatori, degli ideologi intrisi d’odio, degli assassini di milioni di persone, in definitiva una lingua irrevocabilmente compromessa e macchiata di sangue.
Nondimeno, è proprio a partire dall’assunzione lirica del tedesco che si inaugura una delle direttive fondanti del dire poetico di Celan, che decide di agire sulla lingua tedesca con l’intenzione di riscattarla dall’abominio della Shoah. Ovviamente il tentativo progressivo di «riconquistare un tedesco ebreo legittimo quanto il tedesco non ebreo»,[1] di denazificare l’idioma a lui caro, non può che svilupparsi attraverso una ricerca poetica, insieme lessicale e tematica, che si rivela fin da subito lacerante e distruttiva, che richiede un lungo e frenetico lavoro di demolizione e ricostruzione straziante, all’insegna di una sorta di contro-lingua capace sillaba dopo sillaba e parola dopo parola di reinnestarsi sul nervo principale del tedesco canonico per strapparlo alla sua ignominia.
In Papavero e Memoria (Mohn und Gedächtnis), la prima raccolta pubblicata e riconosciuta tale da Celan, il linguaggio è ancora in grado di fare da mediatore tra il soggetto e la percezione che esso ha della realtà e del mondo circostante: è ancora capace di far da tramite e da raccordo. Tuttavia, già dalla raccolta successiva, Di soglia in soglia (Von Schwelle zu Schwelle), il panorama cambia; la lingua sembra infatti problematizzarsi, interrogando non più il mondo, ma sé stessa, inceppandosi continuamente, isolandosi.
«La lingua di fronte alla realtà si dimostra impacciata […] la sua struttura è diversa da quella del mondo e non vuol essere confusa in nessun modo con esso. Là, dove la lingua e la realtà si scontrano, si sviluppano solo negazioni»[2] scrive Moshe Kahn a tal proposito. Questa lingua che Celan cerca di redimere in ogni sua poesia è però contemporaneamente sempre sospinta verso un graduale e incontrovertibile processo di dissolvimento, così come d’altra parte il poema, che può sopravvivere solamente affermandosi ai margini di sé stesso.
Paul Celan, come uomo prima che come poeta, è costantemente assillato da un profondo sentimento di colpevolezza, quel senso di colpa che attanaglia i sopravvissuti, i salvati, rei di essere ancora vivi senza nessun apparente motivo o merito. Accade allora che, per tentare di giustificare il proprio fortuito e del tutto casuale diritto alla vita, a così tanti altri ingiustamente negato, la figuratività narrante al centro dell’universo lirico celaniano assuma su di sé il compito di farsi portavoce dei tanti, troppi morti insepolti, doppiamente vittime, non solo dell’Olocausto, ma anche del silenzio, dall’anonimità e della scomparsa di Dio.
Ciò che più sconvolge l’immaginario poetico di Celan, turbandone la trama e l’ordito, scuotendone la forma e l’andamento, non è la morte, o almeno la morte quale entità in sé e per sé, ma è soprattutto la modalità attraverso cui questa morte imposta forzosamente e non testimoniabile si è abbattuta su milioni di ebrei innocenti, nonché sui suoi genitori. È all’interno di questa dimensione di perdita irrecuperabile e non raccontabile che si svolge e si afferma l’assurda trama del dramma nel dramma. La voce dell’io lirico perciò non può che diventare voce e parola altrui, farsi eco di morte, farsi tramite immaginifico – ed è qui che esplode la potenza poetica di Celan, capace di afferrare «l’indicibile per i suoi margini»[3] – della parola, della preghiera, del supplizio spezzato di coloro a cui ogni spasmo di vita è stato strappato via.
Ecco perché, pur essendo profondamente intimista e soggettivista, la poesia celaniana si arricchisce di una spinta collettivista, che ne ingrossa la vena a la portata, caricandola di un pathos figurativo ineguagliato. Nonostante il desiderio intrinseco di sopravvivere al tempo e al proprio presente – sottinteso d’ogni forma d’arte che si possa definire tale – la poesia di Celan non diventa mai astorica né atemporale, perché ben conscia e consapevole delle proprie «date» – caratteristica d’altronde comune a gran parte della produzione poetica del secondo Novecento –, ossia «del modo con cui a ognuno di noi si è rivelato lo scandalo insostenibile della storia».[4] È proprio in virtù della scoperta di questa nuova condizione, di questo rinnovato e inscindibile legame con il proprio tempo, che Celan è in grado di rimettere radicalmente in discussione lo statuto poetico fino ad allora canonizzato; sotto il giogo pressante della Storia, infatti, la poesia è costretta a ripensare il proprio cammino, rinunciando a credere nell’illusione che l’Arte sia ancora qualcosa di dato e di certo, di incontrovertibile e assertivo, per inseguire invece l’antiparola, il «Viva il Re!» della Lucile büchneriana, che riscattando l’assurdo e dandogli voce, inaugura una via nuova a ancora non battuta. Caricandosi di una spinta creaturale e naturale (“volto di Medusa”), accettando l’eventualità di andare incontro al proprio decesso, assumendo su di sé il rischio di un pauroso ammutolire, la poesia può ancora rappresentare una “svolta del respiro”, l’ultima possibilità che «all’atto dell’inspirazione, ossia dell’assunzione dell’aria che ci tocca respirare, segua una espirazione che, giovandosi del mezzo artistico, restituisca come poesia la realtà che ci circonda».[5]
Più di tutte le altre raccolte, Papavero e Memoria (Mohn und Gedächtnis) – dove “papavero” è da intendersi nel suo significato metaforicamente traslato – si snoda sul filo sottile di quella dicotomia che viene sin da subito configurata dai termini antitetici e tuttavia complementari che titolano l’opera. Com’è infatti possibile conciliare le due cose entro un quadro concorde, pacificato ed omogeneo? Celan non riuscirà a vincere questa sfida a livello esistenziale, ma sul piano poetico è invece abilissimo nell’attuare una sintesi formale e tematica che, almeno in quest’esordio, si equilibra con una certa regolarità tra la memoria e il ricordo dolente del recentissimo passato e l’aspirazione legittima ad aprire un nuovo e differente capitolo della propria vita, senza che gli antichi strascichi di morte e sofferenza lo sovrastino completamente, alternando con tono ancora densamente lirico ed elegiaco tematizzazioni amorose, spinte speranzose e addolorate reminiscenze funebri, senza però mai scadere nella vana e scorretta estetizzazione della parola.
D’altronde, come scrive Moshe Kahn, «Celan non è del parere che la sciagura si trasfiguri necessariamente nominandola. […] In tal modo non risparmia alcun che di ciò che è terrificante dell’esperienza passata facendola diventare per il lettore un fatto vivo, immediato e presente».[6] Anche l’oscurità in cui si annida la sua poetica – frutto di un’ardua selezione lessicale, della deregolamentazione della sintassi e della tendenza persistente all’ellissi, di un’estrosa figuratività metaforica – non è mai raggiunta per puro calcolo o strategia, essa non rappresenta altro che il tentativo di sconfessare la chiarezza, quella falsa chiarezza in cui troppo a lungo il dire poetico si è illuso di brillare. Ma il sostrato ancor più profondo, il nucleo centrale e magmatico su cui si snoda l’intera ricerca esistenziale, poetica e intellettuale di Celan ruota inevitabilmente e drammaticamente intorno al celeberrimo monito adorniano, che come una scure si è abbattuto ferocemente sull’essenza ontologica del poetare stesso e del bello estetico.
Celan condivide l’idea che una poesia puramente artistica (“essere marionettesco”) e avulsa dalle circostanze sia ormai impossibile da perseguire e del tutto irrilevante, priva di ogni senso e ragion d’essere, tuttavia non può rassegnarsi quietamente all’argomentazione eccessivamente assiomatiche del filosofo francofortese. Perché, sebbene la stilizzazione lirica rischi effettivamente di trasformare un lutto e un dolore indicibili e incommensurabili in pura fruizione, magari anche esteticamente appagante, è pur vero che «l’arte – nell’eccezione più ampia del termine – è e resta il mezzo di gran lunga più efficace per conferire perennità alla memoria di un fatto, e i fatti quanto più sono terribili tanto più chiedono a gran voce di non essere sepolti nella dimenticanza».[7] Tanto che lo stesso Adorno sarà costretto qualche anno più tardi – probabilmente proprio a causa del confronto serrato con la poetica celaniana, capace di schiudergli una fessura sino a quel momento impensata – a ritrattare la famosa affermazione, scrivendo:
L’arte, che non è più possibile se non riflessa, deve da sé rinunciare alla serenità. Ve la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti. Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena.[8]
La poesia si configura dunque per Celan come ultima possibilità di intraprendere un dialogo con l’altro, con il tutt’altro, come l’ultima, unica e disperata speranza di mettersi in cammino, un cammino sprovvisto di mete precise e definite, alla ricerca di un tu, vicino o lontano, ma pur sempre concepibile, capace forse di raccogliere un giorno il messaggio nascosto nella bottiglia e di instaurare un colloquio che, seppure intermittente e complesso, sia ancora e sempre fatto di parole e non di silenzio.
Legato a doppia mandata ad una dimensione esistenziale che è allo stesso tempo poetica e a una ricerca poetica che è contemporaneamente anche e soprattutto inevitabile espressione esistenziale ed esperienziale, Paul Celan è tra i pochi poeti del Novecento in cui il legame conflittuale e insolvibile tra universo discorsivo e testimonianza storico-biografica ha travalicato con estrema urgenza i confini dei singoli componimenti lirici, delle singole raccolte pubblicate, sino a confluire prepotentemente nelle riflessioni intime e soggettive, nelle scelte di vita, influenzandole e modificandone la fisionomia.
L’intera Weltanschauung celaniana orbita attorno all’incontro-scontro tra desiderio pressante di affermazione del proprio io lirico, del proprio dire poetico, e la necessità di contribuire alla formazione di un più ampio e vasto dialogo – basato su delle coordinate universali comuni all’intera condizione umana –, immaginabile e costituibile unicamente attraverso la poesia e il suo linguaggio. La riproposizione ossessiva della frattura insanabile tra discorso e autobiografia, che emerge dai suoi testi, è sorretta, fino al punto di non ritorno, solamente dall’idea di una possibile sintesi attuabile grazie al potere indiscutibile della parola poetica.
Ecco perché il bisogno di recuperare un luogo di appartenenza, delineabile solo astrattamente, viene a configurarsi all’interno di una incessante dinamica di indagine lirica, volta a riaffermare ininterrottamente, superati i dubbi e mediate le riflessioni di carattere tecnico-formale, direzioni e sensi di marcia verso cui sia possibile rivolgere lo sguardo in mancanza di ogni altra certezza o convinzione.
Cessata la spinta propulsiva di questa tensione sempre alimentata dalla dualità poesia-vita, l’esperienza esistenziale viene a perdere di significato, si annichilisce. La realtà, soggiogata da una Storia tragica e non più interiorizzabile, i cui orrori, seppure diventati memoria passata, appaiono non riscattabili, prevale definitivamente sulla sua percezione e rielaborazione poetica, a un tempo intima e collettiva.
Questo testo è un estratto leggermente modificato di un saggio apparso nell’agosto 2019 sul fascicolo 4 (28) di “Diacritica” (“Sul limine della vita. Rosselli e Celan tra poesia e autobiografia”).
[1] J. E. Jackson, Dolore, lutto e memoria, in L. Regazzoni (a cura di), Per un’estetica della memoria, in Discipline filosofiche, XIII, 2, Quodlibet, Macerata, 2003, p. 92.
[2] M. Kahn, Introduzione, in P. Celan, Poesie, Mondadori, Milano, 1986, p. 19.
[3] K. Schwedhelm, recensione a Mohn und Gedächtnis, in «Wort und Warheir», VIII, 7, 1953, citato da G. Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, in P. Celan, Poesie, Mondadori, Milano, 1998, p. XXXVII.
[4] G. Bevilacqua, Introduzione, in P. Celan, La verità della poesia: il meridiano e altre prose, Einaudi, Torino, 2008.
[5] Id., Eros-Nostos-Thanatos, in P. Celan, Poesie, Mondadori, Milano, 1998, p. XCVI.
[6] M. Kahn, op. cit., p. 13.
[7] G. Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, cit., p. XXXVI.
[8] T.W. Adorno, Note per la letteratura, Einaudi, Torino, 2012, p. 232.
Niccolò Amelii (08/11/95) ha conseguito il titolo di laurea triennale in “Studi letterari e filosofici” all’Università degli Studi di Siena nel 2017 e il titolo di laurea magistrale in “Editoria e scrittura” all’Università La Sapienza di Roma nel gennaio 2020. Collabora con Flanerí per la sezione di critica letteraria e ha pubblicato articoli saggistici e racconti su Diacritica, Nazione Indiana, Frammenti Rivista, Poetarum Silva, Altri Animali, Clean, Rivista Blam, Pastrengo. Una sua breve prosa non fiction è apparsa nella raccolta collettiva “I giorni alla finestra” edita da il Saggiatore. Il suo primo romanzo – “Trittico” -, terminato nell’estate del 2019, ha partecipato alla XXXIII edizione del Premio Calvino. Ha fondato e gestisce il sito di cultura e critica Quaderni contemporanei.
Una replica a “Niccolò Amelii, La parola che non tace. Omaggio a Paul Celan”
Incredibile codesta originale ‘ars poetica’. di Celan. Una concentrazione incredibile ben resa dalla traduzione italiana. Compresa – pur essa- nel limine e nel limite di ogni traduzione. Dovrebbe perdere, o meglio perdersi, negli anfratti delle linguistiche anse, ma tutto ciò non accade.. Sempre e comunque merito dell’Autore. In certi casi, dunque soprattutto in codesto, meglio trincerarsi nel più completo silenzio possibile, dando semplicemente atto del valore estremo del Nostro ed oltre non oserei andare.
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