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Ilaria Palomba, Città metafisiche (rec. di Giorgio Ghiotti)

Ilaria Palomba, Città metafisiche
Ensemble 2020
Recensione di Giorgio Ghiotti

Dopo aver letto Città metafisiche (Ensemble, 2020), la nuova raccolta poetica di Ilaria Palomba – autrice che s’inscrive nella gloriosa tradizione di quelle rare e preziose narratrici-poete oggi quasi del tutto estinte –, penso che Gabriele Galloni, nella bellissima prefazione al libro, abbia colto il punto di quest’opera: davvero sarebbe inutile cercare influenze esterne per questa poeta, indicare ascendenze certe, azzardare nomi di maestre o maestri. L’unico maestro di Ilaria Palomba (che, pure, è tutt’altro che una “sradicata”, essendo ella una straordinaria lettrice di poesia, di prosa, soprattutto di filosofia) è il tempo incarnato, cioè il ricordo, la memoria – che è anche memoria del futuro in ogni vero poeta – così come si offrono all’occhio per mezzo di oggetti, spazi, immagini vivide e incendiarie: la brace nel giardino, fotografie strappate, la città dormiente come una morta, la sabbia d’inverno sporca di bottiglie… Immagini che, mentre bruciano, contagiano con la loro luce e il loro dolore chi scrive e chi legge, forse la medesima persona, quasi infantilmente stupita di quello che riesce alle parole.
Cosa riesce alle parole di questa poeta, dunque? Tento una risposta: più spogliare che vestire, più sottrarre che aggiungere, per lasciare vivo il centro del tronco coi suoi cerchi millenari, la testimonianza d’anni e stagioni che si sono abbattute feroci o dolcissime sulle nostre schiene, consegnandoci nel tempo giovane di una vita (appena più che trent’anni, l’età di Palomba) una saggezza, una familiarità sorprendente col mistero dei giorni. Persino riesce al verso di questa poeta l’antichissimo rito dell’alchimista: trasformare colori e sentimenti, cambiare di segno le ombre per attraversarle «con la capacità della luce»; lasciare indietro persone e città, nella terra della dimenticanza («Ho voluto dimenticare il tuo nome,/ lo ricordo benissimo ma non voglio/ pronunciarlo»), o farle tornare in vita, rievocarle, a patto che siano volti e strade e piazze di gioia, di vera grazia: una colazione a Napoli, o lo scenario così familiare dei ponti di Roma sul Tevere; Trinità dei Monti, piazza di Spagna, persino Parigi – «Torneranno vivi anche/ i luoghi se saremo capaci di spogliarli/ del dolore di questi cento giorni». Come dire: è da qui che principia il futuro, dalla terra smossa, scura, desertica (e Deserto è anche il titolo del precedente lavoro in versi di Palomba) pronta a essere rifondata, ricoltivata, una terra dove una figlia è figlia di tutti, e i confini si slabbrano per divenire incerti, vastissimi, fedeli solo all’immagine che di loro alimentiamo nell’occhio, nel desiderio che lo abita.
Allora possiamo affermare con la certezza delle cose semplici che «morire è attraversare/ un corridoio bianco e svegliarsi», e che per riscoprirsi immortali basta solo dichiararsi tali. È la magia dell’infanzia che si proclama regina, che rifiuta di «pensare alle macerie», che non legge più i giornali, non ascolta più la radio, e innalza attorno a sé un regno in cui il dolore, l’assenza, l’atto mancato si alternano sulla scena come fotogrammi. Ma è tutt’altro che un’illusione, questa, perché una volta che la poesia ha scritto le sue parole sul foglio, quelle valgono come un patto di sangue, come mano che «pulisce il sepolcro». 
Così si dipana il film delle Città metafisiche di Palomba, in un percorso surreale e verissimo, a un tempo trascendente e immanente, in cui il valore altamente simbolico (proprio nel senso di doppio, di multiplo significato) della poesia si permette di chiamare le cose con il loro nome primario, immediato, più duraturo, un effetto all’apparenza persino naif talvolta, solo perché sa che il mare non è solo mare, e le città non sono solo città, ma «un insieme di ricordi/ rimasti lì per tutti questi anni.» Del resto, le città di Ilaria Palomba «non sono che rimandi», madeleine, proiezioni; è una eternità di spiagge e caviglie nel mare, di volti che scompaiono nell’acqua, di uomini che arrivano e che partono (l’amato, il padre, l’amico, la figlia), di fiori e piante che ci osservano con pietà e con odio. C’è, in queste poche pagine, l’autobiografia delle città e delle sue creature, vite condensate in una sola storia, storia condensata in poche semplici parole, capaci di combinazioni infinite.
Con Città metafisiche Ilaria Palomba ci consegna il frutto più intenso e maturo della sua seminagione poetica. Se nel suo esordio, Mancanze, «esplorava la perdita e in Deserto raccontava le sue conseguenze» (Gabriele Galloni), in questo nuovo lavoro Palomba è riuscita a dare voce all’Abisso, a testimoniare la materia informe e magmatica del nostro presente, ma dipinto coi colori di un bel tramonto romano, o con quelli allucinati e sovraccarichi delle indimenticabili vedute di Roma di Scipione.

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