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A partire da “Fly mode” di Bernardo Pacini: il drone e altre strategie di elusione dell’Io

Bernardo PaciniFly mode
Amos Edizioni, 2020
A partire da Fly mode di Bernardo Pacini: il drone e altre strategie di elusione dell’Io

La grande idea su cui si fonda il nuovo libro di Bernardo Pacini (Amos 2020) è quella di adottare, immaginare l’inedito punto di vista di un drone, che gli permette una spettacolare esplorazione del mondo e realizza narrativamente le virtualità mentali infinite, il pensiero analogico del suo autore/pilota («vedere in HD le stanze vaticane/ l’Alhambra, la casa etrusca del lucumone/ il mistero delle grandi rocce del Grand Teton?», p. 25). Al tempo stesso assistiamo a una certa sfasatura cognitiva, al nesso asimmetrico sguardo/sapere: così l’eccesso di immagini si trasforma in un’incapacità di vedere («quanto più registra tanto meno guarda», p. 25), in umanissimo senso di limitatezza («Si può essere felici/ senza esserci mai stati?», p. 67), di piccolezza rispetto alle tragedie della Storia, come la distruzione di Aleppo, le cui macerie furono davvero filmate da un drone nel 2016, il fuori e «Il dentro delle case che crolla» (p. 17, e qui il riferimento testuale è a un’importante sezione del primo libro di Pacini, Cos’è il rosso, Edizioni della Meridiana 2013). Dopo l’avvio fiducioso, vertiginoso («io vedo tutto», p. 15), lo sguardo sopraelevato del drone presenta in fondo le stesse debolezze del nostro, continua esigenza di rielaborazione («E se di notte devo ricostruirti, prezioso mio panorama/ se devo ricomporti byte per byte nella memoria/ della mia videocamera», p. 24), sentimento trepido dell’escluso e identificazione («al punto che dal vetro smerigliato/ ora posso finalmente/ inquadrarne i lineamenti», p. 51, spiando dentro la canonica un sagrestano che a sua volta lotta con la penombra), insofferenza ai ritmi fissi, alle immagini già date («Vorrei una sera dopo il volo/ tu mi lasciassi acceso per errore/ una falla in quel sistema perfetto/ di logiche e abitudini […] Qui c’è un gatto?», p. 65). La modalità prevalente di questa poesia diventa allora obliqua, visionaria, onirica, come già in apertura dell’opera, con la folgorante immagine di una mandria di cavalli che sconvolge un cimitero: «una serqua di frisoni s’impenna tra le lapidi./ Lussano crisantemi, snidano pomone/ i seni grandiosi drizzati coi mignoli». Non può sfuggire la ricercatezza lessicale di termini colti o comunque lontanissimi dall’uso corrente che punteggiano l’intero libro, ed è come se lo stile andasse di pari passo con la visione del drone in avvicinamento, come se la scoperta progressiva del mondo si accompagnasse alla riscoperta faticosa della lingua.

Ne consegue un dialogo fitto, continuo con la grande tradizione, inserti danteschi, riferimenti montaliani espliciti (Alto levato drone, titolo della prima sezione) e probabili: nella serie di testi La circostanza, che «evoca la figura di Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza al servizio militare della storia italiana» (nota p. 88), l’immagine degli scacchi associata ai soldati sembra infatti poter rimandare al Montale di Nuove stanze. E poi ancora Buzzati, Goethe, Malaparte, mentre nel bellissimo testo sottomarino Underwater drone compaiono in corsivo due citazioni, dal Cimetière di Valéry e dal Prufrock di Eliot. Proprio il famoso incipit della Love song potrebbe aver motivato il finale di un altro testo, dove il ronzio del drone «recide di netto/ la salma inodore del cielo», p. 33. Questo per dire come un libro dal protagonista tecnologico e iper-contemporaneo finisca per diventare un significativo omaggio alla cultura letteraria e umanistica, e in definitiva alla sua resistenza e al suo perdurare. Ma l’aspetto strategicamente più importante è la funzione stilistica del drone, che permette di mediare, di schermare rispetto all’emotività e al patetismo, al coinvolgimento diretto del dronista. Lo fa nei confronti del luogo di appartenenza («ma come si chiama il vento di Firenze, quanti/ sono gli strati di vernice di quel murales», p. 22), della donna amata («Sei sempre dentro di me, letteralmente:/ salvata in DCIM, in ordine per data», p. 54), perfino rispetto a un lutto privatissimo, la morte in grembo di un fratello nascituro (si veda in particolare l’immagine struggente, ancora schermata dalla distanza e dall’aggettivo prezioso, del «fiocco azzurro scolorito/ garrotato alla maniglia», p. 32). Nel finale in prosa, dedicato alla cura di un nonno, la parola passa quindi al poeta/dronista, e questo passaggio deve suonare tra le altre cose come una dichiarazione di poetica, la ricerca di uno sguardo capace di vedere al di là del proprio dolore: «Avrei voluto già averti, drone, per vedere ciò che non mi era dato» (pp. 80-81).

A partire dal libro di Pacini si potrebbe affrontare un discorso più generale, relativo a un pregiudizio diffuso che vede oggi nella poesia il puro strumento dell’effusione, del confessionalismo. Una sorta di archetipo ingenuo che ha resistito anche al passaggio delle avanguardie, un luogo comune che è stato riproposto, forse provocatoriamente, da un bravo studioso e autore come Matteo Meschiari, in un recente post su Facebook: «La poesia lirica, cioè il 99% della poesia che si pubblica oggi, è tendenzialmente un rannicchiarsi nella propria animalità emozionale […] Oggi il monocolore lirico-emozionale-introspettivo ha cannibalizzato l’idea stessa di poesia» (06/10/2020). Abbiamo già visto come il drone sia uno stratagemma che permette a Pacini di avere una visione lucida e planetaria, di sorvolare perfino i propri vissuti privati senza rischiare mai una caduta «nella propria animalità emozionale». Lo stesso Meschiari, che insegna antropologia e geografia all’università, anche quando scrive in versi è abituato a confrontarsi con dimensioni spaziali e temporali che sovrastano l’Io. Basterebbe poi consultare il prezioso saggio di Vincenzo Frungillo Il luogo delle forze (Carteggi Letterari 2017) per accorgersi che buona parte della poesia più significativa di oggi ha una vocazione epica, di ampio respiro, riformula il mondo per indagarlo e conoscerlo, e la modalità lirica, soggettiva ed emozionale ne è soltanto un aspetto fra gli altri. In questo senso vorrei indicare almeno tre libri di tre autori che per ragioni di tempistica non potevano comparire nell’indagine di Frungillo, e che hanno interpretato nel modo più pieno il ritorno al poema: Apocalisse pop! di Lorenzo Allegrini (Edizioni IlViandante2018), Il Conoscente di Umberto Fiori (Marcos y Marcos 2019), Suite Etnapolis di Antonio Lanza (Interlinea 2019). Il primo ha riattualizzato il viaggio infernale dantesco, riprendendone massicciamente le soluzioni formali (39 canti di terzine incatenate di endecasillabi) e destando forse per questo un’immeritata perplessità nel mondo poetico circostante, a giudicare dalle pochissime reazioni, compensata però da un grande successo di pubblico (lo stesso autore ha peraltro già pronto un nuovo poema sulle origini mitiche del Capo di Buona Speranza, che è anche un’allegoria del colonialismo in Africa). Fiori utilizza addirittura il proprio nome per designare l’io lirico, ma il suo libro è molto più di una confessione privata, in ogni caso inevitabilmente falsata, vale come attraversamento di un’epoca, bilancio generazionale, poema di formazione della maturità condotto con straordinaria sobrietà di stile, anche nel confronto con il misterioso Conoscente, Super-Io impazzito e karamazoviano rovello metafisico. Suite Etnapolis si svolge nel microcosmo di un centro commerciale, i cui protagonisti sono gli stessi dipendenti (e due di loro adombrano la vita personale dell’autore), un’opera corale di evidente fascino e attualità: grande assente dentro Etnapolis è la Morte, che ne accerchia però figuralmente i bordi con le carcasse di cani che si vanno decomponendo sull’asfalto («una macchia con rametti/ di carne in disfacimento il lavorio/ della morte in offerta ai passanti», p. 53). Se invece prendiamo l’ultimo libro di Luciano Mazziotta, Posti a sedere (Valigie Rosse 2019), le mummie della Cripta dei Cappuccini a Palermo si configurano come lo sviluppo fuor di metafora del “diventare cosa” che assillava il libro precedente, Previsioni e lapsus (Zona 2014). E a proposito di Previsioni e lapsus Biagio Cepollaro ha scritto nella sua proposta di lettura: «Questo desiderio di diventare cosa è tipico di chi cosa non lo è per nulla. Un eccesso di soggettività muove questo desiderio di oggettività». Direi che questo principio di proporzionalità inversa possa valere per molti altri autori. Vale per Bernardo De Luca, che sposta l’accento emotivo sulla seconda persona per affrontare il percorso attraverso un paesaggio contemporaneo deturpato, avvelenato dall’uomo (Misura, LietoColle 2018). Vale per Gabriele Galloni, che definiva il punto di vista della sua poesia simile a quello di una “videocamera di servizio”, con una lucidità impressionante per la sua giovanissima età (ma tutto è stato in lui bruciante e anzitempo).

Un’altra strategia ad argine della soggettività è il personaggio ereditato, interposto, risemantizzato. Tommaso Di Dio riformula i diari di Cristoforo Colombo (Verso le stelle glaciali, Interlinea 2020), Andrea De Alberti la figura del Chisciotte (La cospirazione dei tarli, Interlinea 2019). Trucillo ha fatto i conti con Darwin (Quodlibet 2009), coniugando lirismo e tensione di pensiero («posso avvertire dolcemente/ la spinta della specie,/ fragrante rosmarino/ che va/ nella corrente/ senza ricordo», p. 41), e più autori insieme, tra cui Andrea Inglese, Laura Pugno, Vincenzo Frungillo, Giovanna Marmo, hanno ripreso Lucrezio e la perlustrazione del mondo materiale (La fisica delle cose, Giulio Perrone 2011); il Lucrezio moderno, Francis Ponge, ha avuto poi evidenti effetti sulle sperimentazioni della prosa in prosa, sul perseguimento di un ipotetico grado zero. È frequente anche la riformulazione dei miti antichi, come il Tiresia di Giuliano Mesa o di recente l’Alcesti di Fabio Orecchini (un’operazione che mi risulta aver compiuto a sua volta la nuova vincitrice del Nobel Louise Glück con il mito di Persefone). Un altro espediente che ha dato ottimi frutti è quello dell’ecfrasi come schermo, sfondo su cui proiettare contenuti dolorosi, sintomatici, riuscendo così a trattarli, a simbolizzarli: lo ha fatto Inglese con un quadro di Piero di Cosimo nel suo Commiato da Andromeda (Valigie Rosse 2011), elaborazione della fine di una lunga relazione, e Mazziotta con il Trionfo della Morte, il celebre affresco palermitano di anonimo che nella sua poesia si aggancia a un senso di immobilità esistenziale. Possiamo invece definire Lavoro da fare di Biagio Cepollaro (Dot.com Press 2017) come il romanzo poetico di una crisi, condotto però con incantevole sprezzatura, con il tono di una conversazione a tavola (per usare all’incirca le parole dell’autore a una presentazione di pochi anni fa); mi si passi il paragone con il Guido Anselmi di , anche lì un uomo in crisi, un film da fare, «un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro», e in Cepollaro troviamo l’«azione dura/ e semplice/ di non dare requie/ al cadavere/ che addosso ci portiamo» (pp. 31-32), ed è appunto la lingua, il ritmo che non dà requie, che continua a battere dove davvero qualcosa duole, fa problema, porta angoscia; il finale del libro («noi andiamo a ringraziare/ per essere stati invitati/ al banchetto/ ora siamo sulla Porta/ del ritorno e della restituzione», p. 76) ha un’apertura politica, un’enfasi collettiva che può ricordare un importante interlocutore di Cepollaro, il poeta Luigi Di Ruscio. Ci sono poi autori che nel solco delle avanguardie alzano di molto il livello della sfida al lettore, frantumano la sintassi, opacizzano le associazioni (penso fra gli altri a Lorenzo Mari e Gianluca Garrapa, dove sono peraltro evidenti e intelligenti le suggestioni psicanalitiche); riprendendo ciò che Guido Mazzoni diceva a proposito di Mallarmé, proprio in una poesia dove scompare l’io tradizionalmente inteso siamo in realtà immersi nel conflitto profondo di una soggettività («un’idea di mondo totalmente introflessa e un egocentrismo così forte da eliminare l’ultimo residuo di oggettivazione narrativa […] Alla scomparsa elocutoria del poeta nell’ordine dei contenuti corrisponde il trionfo elocutorio del poeta nell’ordine della forma», Mazzoni, Sulla poesia moderna, Il Mulino 2005, pp. 195; 198). Eppure in questa sorta di egocentrismo formale vige una potente istanza etica, un decoro essenziale, il rifiuto di esporsi direttamente al lettore e al mondo. Questa rassegna a volo di drone, che potrebbe durare ancora a lungo, includere molti altri autori, molte altre opere, non ha come intenzione quella di demonizzare l’Io, compagno inevitabile e nei momenti migliori perfino gradevole, e che in letteratura può perfettamente produrre identificazione, e quindi universalità (penso ad esempio all’Io trasandato, depresso e caustico di Simone Burratti, Progetto per S., NEM 2017). Ma lo stereotipo sollevato polemicamente da Meschiari, che davvero corrisponde alla gran parte del sentire comune, di una poesia monocolore e rannicchiata nell’emotività dei poeti è in realtà smentito dalla pratica, da tante scritture che cercano invece la costruzione complessa, la traiettoria obliqua, l’indagine sul mondo oggettivo. Forse non è un caso che in un’epoca di sovraesposizione social la poesia vada invece in una direzione opposta (la stessa del volo del drone paciniano), indicandoci perfino una via di uscita dalle trappole del narcisismo più soffocante.

@andreaaccardi

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