Giovanna Cristina Vivinetto, Dove non siamo stati
BUR Rizzoli 2020
C’è una vecchia casa, ai margini del paese, dalle finestre sigillate con i mattoni. Si racconta che dietro quei muri ci siano i resti di tre sorelle pazze che sono state murate vive. Ci sono vecchie case a cui i bambini si avvicinano con paura ma che hanno il fascino del mistero, delle leggende inquietanti, i muri corrosi, il legno marcio delle porte, le finestre dai vetri rotti: case mangiate dai rovi, sbriciolate dal tempo, da dove nella notte filtrano misteriose luci e dove forse i fantasmi attendono la liberazione. Sono vecchie leggende, storie di amori crudeli, di bimbi morti e addii.
È incantato il nuovo libro di Giovanna Cristina Vivinetto, Dove non siamo stati (BUR Rizzoli 2020), tre sezioni e la poesia lunga in appendice che dà il titolo alla raccolta. È il secondo libro della giovanissima autrice siciliana (26 anni) dopo la rivelazione di Dolore minimo (Interlinea 2018). La terza sezione, Ciuriddia, alterna versi in italiano e nel dialetto siracusano ed è quella forse più “magica”: leggende, paesaggi, storie, figure e ricordi si mescolano e danno vita a un corpo poetico dolente, a tratti ai confini delle ghost stories, ma scritto sempre con dolcezza, con pochi tratti di pennello che confermano la maturità stilistica e di visione di Vivinetto.
Sono le voci dei ricordi, le figure amate sfumate nel tempo nella penombra, o è il silenzio assolato dei paesi, in una luce calcinata. È un libro-racconto, ma non di poesia narrativa: la scrittura è tesa e visionaria, da versi apparentemente descrittivi si libera la metafora, l’allucinazione dei personaggi. I pozzi delle case abbandonate custodiscono gli spiriti dei morti ammazzati; nel cimitero degli infanti una tomba sbilenca è inghiottita da una luce bianchissima; sotto ogni albero, nel giardino dell’orfanotrofio, le suore hanno sepolto un bambino. Gli anziani dell’ospizio, «raccolti sulle sedie in veranda uno accanto all’altro» «avevano lo sguardo d’acquario» dalle «pupille simili a precipizi» (p. 102). È «uno spazio che da certi scorci o giardini alla Čechov sa poi trasferirsi al labirinto di un “bosco” rischioso e vivo come nelle fiabe, si addensano “ombre” e “anime orfane”, che tuttavia non rimangono condannate allo stato di ectoplasmi, ma assumono a un certo punto la fisionomia di spiriti bambini», scrive Alberto Bertoni nella nota critica in appendice al libro.
Ciuriddia, terza parte del libro, è un racconto d’infanzia, un viaggio nella memoria siciliana e della Sicilia ha la materia e i colori, oltre alla lingua innestata tra i versi in italiano, tra figure, ruderi, leggende e ricordi: alla sua seconda raccolta Giovanna va oltre l’autobiografia, il racconto della transizione da uomo a donna che con Dolore minimo ha innescato un caso, oltre che letterario, anche mediatico, indicando quali saranno le linee del suo lavoro futuro. Scrive Vivinetto che «i luoghi esistevano perché c’erano le storie» (p. 123): noi siamo le storie.
Ma non si pensi a una letteratura realista: la realtà c’è, c’è l’autobiografia, c’è la memoria del paese, l’infanzia, il paesaggio – meriterebbe un’analisi a parte il disegno dello spazio in queste pagine, le prospettive, le figure accennate a matita e tuffate nella luce dell’acquarello o, al contrario, nel chiaroscuro della tempera – ma la visione è sempre magica: si legga l’enigmatico e magistrale attacco di p. 108:
A Floridia c’erano giornate di grande sonno.
Andavano i bambini a letto e si alzavano
grandi – l’età cresciuta come nei vasi la gramigna -,
gli anziani chiudevano gli occhi e le vie
crepitavano come portoni chiusi.
O la metamorfosi tra corpi/storie e oggetti/paesaggi (p. 117):
Le case abbandonate erano nude schiene
coricate. Nella luce contusa del tramonto,
quando nessuno guardava, i loro profili
si animavano, aprivano gli occhi – la testa
scrollavano come dopo un lungo sonno.
Si racconta fossero gli spiriti guardiani del paese
e che bisbigliassero con una voce che fu quella
appartenuta ai morti. Con i calcinacci
rivolti al vento, le pareti bucate dalla luce
le case del paese sorsero già vecchie,
inabitate da sempre come solitudini scalfite,
pietre chiuse a cui bussare con amore.
Nella prima sezione del libro, La misura dello strappo, la visione magica si lega all’autobiografia in un ponte con Dolore minimo. C’è una presenza, una colpa segreta. Qualcuno chiama dal passato, o sono solo i lamenti della vecchia casa, il legno che si riassesta tra inverno e primavera. Nella casa di un tempo «ora non abita più nessuno/ e se la luce precipita, se il cielo/ prorompe dagli interstizi, lo fa solo/ per le pareti disadorne, per i vani/ svuotati – un’ultima forma di pietà/ dolcissima a ricordare ciò che è stato.// Ma finché questi luoghi esisteranno,/ spazi che si slargano nella mente,/ sapremo, anche se in noi due/ soltanto, che qui qualcuno è stato./ E solo i muri ora ne contengono il mistero» (p. 14). Cos’è a tenerci vivi, si domanda l’autrice: «Cosa la voce in fondo ai cassetti/ che chiama, chiama, come un guaito/ ferito di un cane e non sa dirsi.// Cosa quest’acqua che scende veloce/ e sembra piangere e chiedere perdono/ ma non per noi. Forse per nessun altro» (pp. 40-41). «Succede il limite nei versi di Giovanna», annota Roberta Dapunt nella prefazione.
La seconda sezione, Il paniere sul balcone, dedicato alla nonna, è un canto ferito e il diario su un tema duro, l’Alzheimer. Giovanna racconta il progressivo sfilacciarsi del linguaggio, dell’ordine della conoscenza, in versi di una bellezza struggente, quando il dialetto, «quel verbo terroso e greco dell’infanzia» (p. 72), come anche il semplice gesto di scrivere il proprio nome, si sfibrano nel silenzio, in alcuni tra i versi più belli del libro (pp. 62-63):
Con le dita a uncino impugnavi la biro,
incidevi la carta come a volere
piantare un seme, squarciare il bianco
per trovarci il bene, da qualche parte.
La riga di lettere incastrate iniziava
col tempo a slabbrarsi, il piano orizzontale
si inclinava, sempre più spesso alla linea
retta preferivi l’obliqua – come se le parole
volessero accostarsi un po’ al cielo.
Tema difficile che ha trovato più voci nella poesia italiana degli ultimi anni: basti ricordare La carità di Pasquale Di Palmo (Passigli 2018, qui) e Linoleum di Giulia Rusconi (Amos Edizioni 2017, qui).
Dove non siamo stati è la poesia di dieci ottave che chiude il libro ed è un piccolo struggente capolavoro sull’assenza e la presenza, la lontananza, l’infanzia, l’identità: «Dove non siamo stati», si legge in una delle ultime pagine di Ciuriddia (123) «noi eravamo nelle storie degli altri».
© Roberto Lamantea
Alcuni testi da Dove non siamo stati sono stati pubblicati nel 2019 sul nostro blog e si possono leggere qui.