IL DEMONE DELL’ANALOGIA
«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano.»
Mario Praz
GUERRA
PERDONO?
Stralunò il giorno.
Allora, scrollandomi in piedi, mi volsi al giacile, ov’ero ammainato a dormire. Fungaia d’un morto saponava la terra, a divano. Forse tre settimane. Schizzava il corpo, a soffietto, dai brandelli vestiti; ma ingrommata la testa, dal riccio dei peli spaccava alla bocca, donde lustravano denti scalfiti in castagna rigonfia di lingua. E palude d’occhi verminava bianchiccia, per ghirigori lunari.
Feci come per tergerlo al cuore – ma viscido anche il mio cuore.
Perdono?
Feci come a fasciarlo di sguardi – ma senza benda i miei sguardi.
Perdono?
Mamma – era un cosino che faceva pipì, una stella, da bimbo.
Perdono?
Era per sé irreproducibilmente creato; viveva: e forse gliela volevi tu, sorte, una donna. Perdono?
Indicibile uno, strappato al segreto suo vivo, per sempre finito; se per la gente a venire, in grandezza caduto – l’immemore tempo è nessuno, e non cade. Perdono?
«Staccatelo e seppellitelo qui. Via svelti!»
da Le poesie di Clemente Rebora
Di quelli che caddero alle Termopili
famosa è la ventura, bella la sorte
e la tomba un’ara. Ad essi memoria
e non lamenti; ed elogio il compianto.
Non il muschio né il tempo che devasta
ogni cosa, potrà su questa morte.
Con gli eroi, sotto la stessa pietra,
abita ora la gloria della Grecia.
Simonide di Ceo (trad. di S. Quasimodo)
SENTINELLA
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo e era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva di ogni movimento un’agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia di anni questo angolo di guerra non era cambiato.
Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate al lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo.
Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della Galassia…Crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza neanche tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi ed ogni avamposto era vitale.
Stava all’era, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco.
Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame.
da Avamposto sul pianeta X di Fredric Brown