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Daniela Raimondi, La casa sull’argine (rec. di L. Paraboschi)

Daniela Raimondi, La casa sull’argine
Casa Editrice Nord 2020

Da sempre la mia passione per la critica letteraria è stata orientata verso la poesia perché la sintesi necessaria a questa forma espressiva mi obbliga a  entrare nella psicologia dei poeti – e con i lavori di Raimondi ho tentato di farlo in altre occasioni – e quando termino la mia ricerca provo soddisfazione se ho centrato l’obiettivo prefissato.
Ciò non significa che sia indifferente alla prosa; trovo questo ramo della letteratura affascinante come lettore perché mi lascio guidare dalle pagine e se, giunto alla fine dell’ultima, chiudo il libro e dico “bello, brutto, mediocre, inutile“ a seconda del risultato del mio giudizio, difficilmente vi ritorno sopra, ci ripenso, mi sento indotto a scrivere qualcosa attorno a esso. Invece con questo romanzo di Daniela – sarà dipeso in gran parte dalla relativa conoscenza tra di noi, sarà per la sua scalata improvvisa nella lista degli autori più venduti settimanalmente – dopo l’acquisto sono partito con cautela (so quanto è importante l’appoggio mediatico nell’entrare in classifica e cerco di non lasciarmi troppo influenzare) e pagina dopo pagina sono letteralmente volato alla fine.
È  un romanzo lungo, copre circa 200 anni di storia di una famiglia della bassa padana, quasi 7/8 generazioni ed è talmente ricco di personaggi che ti costringe (se non lo avesse fatto l’autrice stessa in calce al suo lavoro) a stilare su un foglio un elenco con i vari nomi per ricostruire una specie di albero genealogico e non perdere il filo della narrazione. A me succede di frequente con i romanzi, specialmente con quelli russi, i cui personaggi spesso hanno nomi talmente lunghi e intricati che si fa fatica a ricollegarli alle azioni che compiono.
In La casa sull’argine ciò che conta è lo sviluppo della Storia con la maiuscola, com’è la Storia a guidare Guerra e Pace – (fatte le doverose proporzioni) – ed è la Storia a guidare il Ken Follett dei romanzi più recenti; è ancora la Storia ad avere ispirato il romanzo La storia a Elsa Morante.
E la storia è fatta dai personaggi – i Casadio – guidati dalla fantasia dell’autrice i quali costruiscono l’intreccio, una famiglia sorta dall’amore improvviso tra Giacomo Casadio (un sognatore) e Viollka Toska (una misteriosa zingara con molta intraprendenza, avvenenza e mistero) che li fece sposare verso la metà del Settecento.
L’idea che mi è parsa geniale è stata quella di fare seguire a questo primo matrimonio una serie di altre unioni e discendenze nelle quali una parte è composta da persone con certe caratteristiche fisiche (occhi azzurri e capelli chiari) e da una fondamentale base di razionalità, mentre un’altra parte (capelli e occhi scuri) è contraddistinta da emotività e fantasia creativa.
La galleria dei personaggi descritti è ricca come la tavolozza di un pittore impressionista e si dipana dal 1754 fino al 1990: circa 200 anni attraverso i quali 35 personaggi, ognuno dei quali possiede caratteristiche identitarie sempre ben incise dalla scrittrice, e lascia la propria impronta nella storia che via via si costruisce, impronta che cresce sotto i nostri occhi e che lascerà tracce, come si vedrà nella lettura, sulle generazioni successive.
È un lungo percorso quello che leggiamo, e dentro di esso vi si riscontra tutta la storia civile e politica del nostro Paese, e i personaggi che incontriamo si imprimono nella mente del lettore come il bulino che incide il metallo per ricavarne un’acquaforte.
Abbiamo Neva, condannata a dieci gravidanze da un marito inconcludente del quale si era follemente innamorata nei primi tempi, ma che costringe – di fronte alla possibilità di una undicesima nascita – a dormire in un altro letto di un’altra stanza, segnando in tal modo la fine dei sogni e anche della sua vita di donna. Abbiamo Adele che va in sposa a un ricco coltivatore brasiliano di caffè, conosciuto per procura, affronta tutte le difficoltà di un viaggio per nave nell’Ottocento, fatica ad ambientarsi, sopravvive alla scomparsa del marito per poi tornare alla casa natale, quasi quarant’anni dopo averla lasciata. Vi sono le vicissitudini della seconda guerra mondale, le prepotenze del regime fascista, la guerra di liberazione, c’è la figura di Guido che sognava di studiare canto e si vede costretto a unirsi alla resistenza, non senza però lasciare alle spalle quella passionalità e generosità che lo contraddistinguono che lo hanno portato caricarsi sulle spalle un soldato tedesco da lui ferito incidentalmente per cercare di riportarlo al campo, e scoprire che, là giunti, il soldato era deceduto.
E infine dalla fusione tra i sensitivi con occhi scuri e capelli corvini e i sognatori dagli occhi azzurri e la pelle chiara, tramite il matrimonio tra Zena e Rodolfo nasce nel 1947 una bimba cui sarà dato il nome di Donata la quale fino dai primi anni manifesta una predilezione per i giochi dei maschi anziché quelli delle femmine.
Donata rappresenta l’evoluzione finale della famiglia; studia perché, essendosi i suoi trasferiti al nord verso il confine con la Svizzera, il lavoro aveva permesso al reddito di casa di risentire dei benefici del boom degli anni Cinquanta. Intraprende gli studi universitari, viene in contatto con i fenomeni del ‘68, si avvicina prima alla politica del P.C.I, ma la abbandona accusando i dirigenti di aver tradito la classe operaia, è attratta dai movimenti extraparlamentari, ma finirà con il suicidio in conseguenza di scelte sentimentali sbagliate che l’avevano indotta a un matrimonio cosiddetto “proletario“ a dispetto della sua precedente storia con un giovane professore universitario che viene assassinato dai brigatisti.
Mi rendo perfettamente conto che sia impossibile e anche inutile, perché si finirebbe col sottrarre al lettore il piacere della scoperta, tentare un riassunto più ampio di tutte le storie contenute in questo libro, però non posso fare a meno di rilevare e apprezzare quanto lavoro di ricerca minuziosa, puntigliosa, accurata e precisa abbia compiuto la Raimondi per mettere assieme tutti gli appunti necessari per la stesura di questo romanzo storico. Ogni opera letteraria che tratti un periodo storico preciso necessita di una  grande acribia dell’ autore, affinché le parole e i fatti non possano essere smentiti, e voglio riprendere qui sotto la breve parte di una intervista che l’autrice mi concesse in occasione della presentazione del suo nono libro di poesie, ove precisava:

Credo nella forza evocativa delle parole. Intendo dire che credo nella forza intrinseca dei sostantivi. Lo prova il fatto che se usiamo la parola esatta, non serve aggiungere nessun aggettivo, nessuna ulteriore delucidazione. Se il nome scelto è quello giusto, scatta in automatico una correlazione: se dico pane, o latte, si aprono immediatamente delle immagini, delle corrispondenze. “I poeti danno nome alle cose”.

E dare il nome alle cose, specie a quelle lontane nel tempo, come le tantissime di questo libro, deve averla costretta a ricerche, dialoghi, conversazioni con persone anziane, documentazione storica accurata, sopralluoghi indispensabili per la descrizione dei paesaggi, degli anfratti, delle abitudini del tempo (una per tutte: quella di girare le lenzuola dall’altra parte prima di procedere al bucato, è qualcosa che fino agli anni Quaranta avveniva in quasi ogni famiglia per il risparmio energetico si direbbe ora ma sarebbe più esatto dire con linguaggio più realistico, per risparmio di fatica e di cenere per il bucato). Un altro esempio fra i tanti: l’avere inserito i testi di tante canzoni di ogni epoca, con le parole originali delle quali anche chi le ricorda per averle canticchiate non ne è più in possesso completo.
Raimondi ha scritto la storia di una famiglia e non mi sento di accostarla a Macondo e al mondo di García Márquez perché troppo lontano dalla nostra civiltà, ma non posso ignorare il lavoro altrettanto arduo compiuto dal poeta Attilio Bertolucci nel suo libro La camera da letto, dove rievoca tutte le vicissitudini della sua famiglia, come non posso ignorare la precisione, il puntiglio storico per il dettaglio presente nel film Novecento di Bernardo Bertolucci, al quale molte parti del libro di Raimondi si possono avvicinare come contenuti, ma voglio anche pensare al romanzo Una storia d’amore e di tenebra dello scrittore israeliano Amos Oz, recentemente scomparso, nel quale egli ripercorre con puntigliosità e precisione tutti i passaggi, le caratteristiche somatiche e psicologiche dei suoi familiari fuggiti per salvarsi dai pogrom polacchi e lituani, fino all’approdo in Israele e alla  fondazione del nuovo stato.
Daniela Raimondi si manifesta qui come autrice di romanzi di tutto rispetto. Spero che ne sentiremo ancora parlare non troppo in là nel tempo.

© Luigi Paraboschi

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