Oscar Wilde à rebours: dalla decadenza della tappezzeria all’importanza di non essere giallo
«Per scrivere ho bisogno di raso giallo»
Oscar Wilde
«Mi sta uccidendo […] Uno di noi due deve andarsene…»[1]
Sono le ultime parole che fu in grado di dire Oscar Wilde,[2] mentre fissava l’orribile tappezzeria della camera d’albergo in cui stava morendo. Erano giorni, del resto, come confidava all’amica Claire de Pratz, che fra lui e quella carta da parati non correva buon sangue: «La mia tappezzeria e io stiamo combattendo un duello mortale. Uno dei due dovrà sparire.»[3]
Amante del bello e abile conversatore prima ancora che romanziere, drammaturgo, poeta: questo era Oscar Wilde. Adorava i colori e quella carta da parati, oltre che dozzinale, era forse sbiadita, opaca, neutra, insignificante. Chi lo sa. L’Hôtel d’Alsace, dove Wilde morì sotto mentite spoglie e al di sopra delle sue possibilità,[4] era allora una pensione di pessimo ordine. Adesso è stata ristrutturata e ai lati due targhe accolgono il visitatore, una delle quali dice che Wilde è morto qui, l’altra che qui ha soggiornato Borges, a più riprese, durante gli anni cinquanta del ‘900, forse proprio per sentirsi ispirato a scrivere commosse pagine in omaggio a Wilde – o magari segretamente sperando che i suoi giorni finissero lì, come era successo al grande dublinese.[5] Che dire, forse ora il paradiso degli amanti della letteratura è qui, ma allora l’Hôtel d’Alsace era un albergo di modeste pretese, e di modeste pretese doveva senz’altro essere la squallida carta da parati della squallida stanza in cui è morto un uomo che era ormai diventato il fantasma di se stesso. Sbronzo, finito, depresso, psicologicamente e fisicamente al capolinea, egli era piuttosto Melmoth l’errante che Wilde il vincente. Già il registrarsi in albergo con un nome falso – Sebastian Melmoth, in onore al prozio materno Ch. R. Maturin, autore di Melmoth l’errante – la dice lunga su quanto la scia delle conseguenze negative del ben noto processo lo stesse ancora perseguitando. Basti pensare che a causa di questa doppia identità ci furono problemi anche nell’identificazione del cadavere, che rischiò di finire alla morgue. Per non sbagliare, il padrone della pensione fece scrivere sulla corona funebre che accompagnava il feretro: «A mon locataire.»[6]
Quando Wilde aveva circa vent’anni, l’amico Macmillan così scrisse di lui ai genitori: «Patito dell’estetica, appassionato dei colori sfumati, dei toni smorzati, delle carte da parati di Morris».[7] Quelle stesse tappezzerie Morris che ripudiò nella sistemazione (durata mesi) della futura casa coniugale, come ci informa Ellmann: «Era intenzione di entrambi che la nuova casa di Tate Street dovesse rappresentare un modello in fatto di architettura d’interni. Erano spariti la carta da parati Morris e altri residui dell’arredamento pre-raffaellita. Iniziava l’era nuova dello smalto bianco extralucido, con le sue varianti in oro, azzurro e verde.»[8] Nel 1885 Wilde scriveva in una lettera indirizzata a W.A.S. Benson, architetto e decoratore di metalli: «Ho visto molte più stanze sciupate dalle carte da parati che da qualunque altra cosa: quando c’è un disegno che copre tutto, la stanza è irrequieta e l’occhio disturbato. […] I brutti soffitti delle case moderne sono spesso dovuti all’uso eccessivo delle carte da parati […] Chiunque possegga un autentico senso artistico deve vedere il valore e il riposo del colore puro, e anche guardando la cosa dal punto di vista pratico, le carte da parati raccolgono sporco e polvere in grande quantità e non si possono pulire. Sono economiche e spesso graziose e affascinanti, ma non sono la parola definitiva dell’Arte nella decorazione, in nessun senso.»[9]
All’apice della sua gloria lo scrittore irlandese pontificava, nel corso di un tour di conferenze negli U.S.A: «Mai mi sarei immaginato, fin quando non mi recai in una delle vostre città più modeste, che si potessero produrre tanti cattivi lavori. Scoprii, dovunque andavo, della carta da parati pessima e dai disegni orrendi, e tappeti sgargianti, e quell’antico recidivo: il sofà di crine di cavallo il cui impassibile e indifferente aspetto è sempre così deprimente.»[10]
Come si vede, la carta da parati, nell’immaginario di Wilde, era qualcosa che lo colpiva e lo affascinava al punto che in una sua opera la fa addirittura parlare, trasformandola in una sorta di personaggio accanto ad altri personaggi. Ne Il Fantasma di Canterville, infatti, la scena più importante, quella in cui la giovane Virginia parla con lo spettro e accetta di liberarlo dalla maledizione che lo affligge avviene nella stanza della tappezzeria, un salone con la «tappezzeria d’un verde sbiadito».[11] La carta da parati arriva persino ad animarsi: i piccoli cacciatori che ci sono ricamati sopra fanno di tutto per dissuadere la ragazza dal seguire lo spettro muovendo disperatamente le piccole mani e parlandole.[12]
Certamente le pareti della cella C.3.3. del carcere di Reading non potevano vantare lussuose e sgargianti tappezzerie. Eppure, nel grigio della galera – quello delle uniformi dei detenuti, quello delle pietre che era costretto a raccogliere, mettendole in un sacco, per poi rovesciarle a terra e raccoglierle di nuovo – Wilde trovò i suoi colori: l’amicizia e la stima degli altri detenuti, dei secondini, del direttore del carcere. Passati i primi tempi, gli vennero concessi libri da leggere, carta da scrivere. Così scrisse e descrisse i colori del delitto passionale di Charles Thomas Wooldridge, giustiziato alle otto di mattina del 7 luglio 1896:
Non portava più la giubba rossa
Perché rossi sono il sangue e il vino,
E sangue e vino aveva sulle mani
Quando lo trovarono col corpo
Della donna che amava,
Uccisa nel suo letto.
Camminava tra gli altri carcerati
Con la misera divisa grigia
E in testa il berretto a visiera;
Sembrava leggero il passo, allegro,
Ma non avevo mai visto nessuno
Scrutare così ansioso il nuovo giorno.
Non avevo mai visto nessuno
Con tanta ansia negli occhi
Fissare un pezzetto di azzurro
– In prigione si chiama cielo –
E nubi leggere vaganti
Sospinte da vele d’argento.[13]
Rosso, grigio e azzurro accolgono il lettore alle porte di questa ballata. Si prosegue con i due colori estremi, il bianco del prete e il nero del direttore, divise di chi ha il compito di rappresentare la società davanti al popolo sgomento dei detenuti convenuti all’esecuzione. Questi due personaggi autorevoli, insieme a un terzo, ugualmente «giustiziere” (il magistrato), hanno «Le facce gialle del Giudizio».[14] Al giallo viene quindi attribuito il senso di apocalittico colore della morte, concetto ribadito e rinforzato nella descrizione della fossa che accoglierà le spoglie del condannato: «A fauci spalancate il buco giallo// era in attesa di una cosa viva».[15]
Per uno strano scherzo del destino, assolutamente non presago delle tragiche vicende giudiziarie che lo porteranno a sua volta in carcere, in un suo scritto del 1889 Wilde accenna alle condizioni dei detenuti nella colonia penale di Botany Bay, in Australia. È in quell’anno, trovandosi appunto in visita in quel continente, che lo scrittore pubblica sul «Centennial Magazine» la poesia Symphony in Yellow, di cui dice: «Insomma a Botany Bay sono desiderosi della mia bellezza. Ho fatto qualche indagine su questa Botany Bay. È una dimora di antropofagi, una dimora di anime perse, dove vengono deportati i criminali per far loro indossare un’orribile livrea gialla. Li chiamano addirittura “canarini”. Perciò ho scritto per loro una Sinfonia in giallo – vi sentiranno qualcosa di familiare. Faccio rimare “elms” [olmi] con “Thames” [Tamigi]. È una colpa veniale in confronto alle loro. Una sinfonia con simpatia – che meraviglia! Penso che dovrei aggiungere una stanza:
And far in the Antipodes
When swelling suns have sunk to rest
A convict to his yellow breast
Shall hug my yellow melodies
[E nei remoti Antipodi/ quando soli tronfi saranno sprofondati nel riposo/ un detenuto si stringerà al giallo petto/ le mie gialle melodie.]»[16]
In realtà la stanza non fu mai aggiunta – e del resto probabilmente lo scrittore non era intenzionato a farlo, ma con quest’uscita paradossale intendeva portare all’attenzione del mondo – a modo suo, s’intende – le tristi condizioni di vita dei detenuti. Non si vede, infatti, come tale eventuale aggiunta si sarebbe potuta accordare con questa poesia:
SINFONIA IN GIALLO
Un omnibus attraversa il ponte
Strisciando come una farfalla gialla,
E qua e là un passante
Appare come un moscerino inquieto.
Grosse chiatte piene di giallo fieno
Sono spinte contro il buio molo,
E come una sciarpa di gialla seta
La spessa nebbia pende lungo la banchina.
Le gialle foglie cominciano a svanire
E palpitano dagli olmi del Temple,
E ai miei piedi il pallido, verde Tamigi
Giace come verga di giada sgualcita.
An omnibus across the bridge
Crawls like a yellow butterfly
And, here and there, a passer.by
Shows like a little restless midge.
Big barges full of yellow hay
Are moved against the shadowy wharf,
And, like a yellow silken scarf,
The thick fog hangs along the quay.
The yellow leaves begin to fade
And flutter from the Temple elms,
and at my feet the pale green Thames
Lies like a rod of rippled jade.[17]
Come si vede, in questa lirica il colore giallo sembra essere più rassicurante, meno presago di morte della Ballad of Reading Gaol, ma trasmette ugualmente messaggi inquietanti. Il ritratto di una Londra quotidiana, immersa nella sua nebbia e nella universale fatica di vivere, anche se non evoca direttamente la morte ha comunque qualcosa di ossessivo e sinistro. L’omnibus “striscia”, il passante è “un moscerino inquieto”, le “grosse chiatte” si muovono con tetra goffaggine verso il “buio molo”, l’inseparabile compagna dell’incipiente autunno londinese – “la spessa nebbia” – “pende lungo la banchina”.
Il poeta ribadisce l’approssimarsi della morta stagione, con le «gialle foglie» che «cominciano a svanire». Il Tamigi, quasi arrendendosi allo spleen, «giace come verga di giada sgualcita.» Non è una semplice descrizione di una giornata qualsiasi, ma l’evocazione di una pesante, allucinata mestizia. È una poesia, osserva Borges, in cui abbondano gli artifici, «ma la loro natura accessoria è evidente».[18] Lo scrittore argentino la prende ad esempio del miglior Wilde, quello la cui sintassi semplicissima consente ai lettori stranieri di leggere le sue opere così agevolmente,[19] in quanto la sua scrittura «è tanto armoniosa che può sembrare inevitabile e persino banale».[20]
Nella nebbiosa e aristocratica Londra è ambientato anche quello che da molti è ritenuto il capolavoro dello scrittore irlandese: Il ritratto di Dorian Gray. La storia è nota: il giovane Dorian esprime davanti a Basil Hallward, il pittore che ha appena terminato il suo ritratto e al suo enigmatico amico Lord Henry Wotton il desiderio che l’opera dipinta invecchi al suo posto. Egli sta, inconsapevolmente, firmando una sorta di pericoloso – benché inconsapevole – patto col diavolo. Il diavolo non si fa notare, ma nel lettore, col proseguire del romanzo, nasce spontaneo il sospetto che il Maligno sia in realtà Wotton o che quantomeno il mefistofelico Lord sia in realtà un suo emissario.[21]
Wotton è deciso a corrompere la purezza di Dorian, soprattutto quella mentale. C’è una scena rilevante, nella quale Lord Henry si sfila i guanti gialli, poco prima di dare a Dorian la notizia del suicidio di Sybil e consegnargli il libro proibito che lo ossessionerà negli anni a venire.[22] Potrebbe essere normale che un nobile vesta i guanti gialli, quegli stessi guanti gialli che da un lato all’altro del Canale della Manica contraddistinguevano la mise del gentiluomo della Belle Epoque. Vale la pena però ricordare che in Francia, in questo periodo, i libri di carattere licenzioso avevano una copertina gialla, per avvertire l’acquirente che l’opera in questione presentava dei contenuti moralmente pericolosi. Ed è proprio un «libro color ocra»[23] o meglio uno «yellow book»[24] che insegnerà al giovane Dorian tutte le sue pericolose seduzioni, ossessionandolo: «Per diversi anni Dorian Gray non poté liberarsi dall’influenza di quel libro. Forse sarebbe più giusto dire che non tentò neppure di liberarsene. Si procurò a Parigi non meno di cinque copie di lusso della prima edizione e le fece rilegare in diversi colori, perché si accordassero con il suo umore variabile ed i capricci mutevoli di un carattere sul quale, in certi momenti, sembrava aver perduto ogni controllo.»[25]
In questa traduzione dei Meridiani Mondadori, basata sulla prima edizione del romanzo e non – come si fa di solito – sull’ultima pubblicata dall’autore, le copie del libro proibito sono cinque, di cinque colori diversi. Nell’edizione inglese a cura del figlio di Wilde (Vyvian Holland), in cui il curatore si basa su redazioni successive, i libri – e di conseguenza i colori – diventano nove.[26] Questa ipertrofia, questa proliferazione fantasmagorica del colore da un’edizione all’altra ci suggerisce il desiderio dell’autore di rendere sempre più barocco il romanzo, amplificando i colori e gli stati d’animo del protagonista.[27]
Ma c’è un’altra opera, oltre al romanzo, in cui Wilde attribuisce al giallo una nota satanica e perversa: l’atto unico Salomé, pubblicato in francese nel 1893. La storia della figlia di Erodiade, che chiede la testa del Battista, è un noto episodio biblico che si presta a sviluppi morbosi, decadenti, insoliti. Di suo Wilde aggiunge la follia amorosa della ragazza che, rifiutata dal profeta, arriva a chiederne la morte pur di poterne baciare le labbra. Durante tutto il dramma la componente colore è fondamentale. Oltre che nella prima descrizione dei personaggi (tranne che in quella del Battista) la si trova persino in alcune indicazioni di scena.[28] Per avere una descrizione del profeta, dobbiamo attendere qualche pagina e i discorsi deliranti e peccaminosi della bella Salomé, che indugia sul nero dei capelli, il candore delle carni e il rosso della bocca di colui che la sta così fermamente rifiutando.[29]
Egli è puro e all’inizio viene presentato con una sobria semplicità che ben si adatta al personaggio e ne esalta la grandezza morale. Le rutilanti pennellate di colore risparmiano l’uomo dello spirito, ma non i suoi persecutori, pesantemente guidati dalle pulsioni della carne. Così sappiamo sin dall’inizio che la lussuriosa Erodiade, madre di Salomé, ha una mitra nera e i capelli cosparsi di cipria azzurra[30] e che Erode è vestito di porpora e scarlatto.[31] La descrizione della giovane Salomé oscilla fra il bianco e l’argento, fra il giallo e l’oro[32] e ugualmente anche la luna che la rappresenta è descritta con gli stessi colori.[33] È senz’altro la giovane figlia di Erodiade, con la sua lascivia, con il suo inquieto oscillare tra libidine e morte, il personaggio più satanico del dramma, ed è proprio lei a vestirsi di giallo e di oro, i colori che per lo scrittore, come stiamo vedendo, rappresentano il male e il demoniaco.
Nel congedarci da Wilde, soprattutto alla luce del fatto che era un vero e proprio maestro nell’arte della conversazione,[34] ci piace ricordarlo felice e incantatore, riportando una battuta dei tempi d’oro, quando a una cena di gala ebbe a dire, in francese: «Pour écrire il me faut du satin jaune».[35] Il giallo di una bella tappezzeria, of course.
© Paola Deplano
[1] H. Pearson, The Life of Oscar Wilde, Penguin, London 1988, p. 370.
[2] Su Oscar Wilde e le sue opere, oltre al libro citato alla nota 1, cfr.: R, Ellmann, Oscar Wilde. Una biografia, Rizzoli, Milano 1991; V. Holland, Oscar Wilde, Thames and Hudson, London 1988; F. Harris, Oscar Wilde, Dorset Press, New York 1989; Ph. Jullian, Oscar Wilde, Einaudi, Torino 1972; F. Mei, Oscar Wilde, Rusconi, Milano 1987; M. D’Amico (a cura di), Vita di Oscar Wilde attraverso le lettere, Einaudi, Torino 1977; A. Gide, Oscar Wilde. In memoriam, Rosellina Archinto, Milano 1990; K. Worth, Oscar Wilde, Mac Millan, London 1983; R. Ellmann (ed), Oscar Wilde. A Collection of Critical Essays, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1969; R. Ellmann, Corydon and Ménalque, in Golden Codgers, Biographical Speculation, Oxford University Press, London 1973; R. Ellmann, Quattro dublinesi, Leonardo, Milano 1989; R. Ellmann, A long the riverrun. Selected Essays, Penguin, London 1989; K. Brandys, Hotel d’Alsace e altri due indirizzi, Edizioni e/o, Roma, 1992; J. L. Borges, Su Oscar Wilde, in Altre inquisizioni, Adelphi, Milano 2000; P. Ba’, Dorian Gray, un mito vittoriano, Quattroventi, Urbino 1982; E. Bendz, A propos de la Salomé d’Oscar Wilde, in “Englischen Studien”, Band 51. (1917-18); M. D’Amico, Oscar Wilde, il critico e le sue maschere, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1973; A. Ojala, Aestheticism and Oscar Wilde, Helsinki 1954; B. Fehr, Studien zu Oscar Wilde’s Gedichten, Mayer und Müller, Berlin 1918; E. Menascé, Un don Giovanni fin de siècle: Dorian Gray, ovvero il dandy criminale, in Il labirinto delle ombre. L’immagine di Don Giovanni nella letteratura britannica, pp. 105-119; M. D’Amico, Introduzione, in Oscar Wilde, Opere, Mondadori, Milano 1988; M. D’Amico, Introduzione, in O. Wilde, Poesia, Newton Compton, Roma 1975, pp.7-29;F. Buffoni, Carmide a Reading, in O. Wilde, Ballata del carcere e altre poesie, Mondadori, Milano 1991, pp.5-31; A. R. Falzon, Introduzione, in L’arredamento della casa e altre conferenze, Mondadori, Milano 1992, pp. 5-29; A.R. Falzon, Oscar Wilde, signore del linguaggio, in O. Wilde, Aforismi (Scelti e tradotti da A.R. Falzon), Mondadori, Milano 1990, pp. 7-43; C. Fusero, Introduzione, in O. Wilde, Tutta la poesia, Dall’Oglio, Milano 1962, pp. 7-70.
[3] R. Ellmann, Oscar Wilde. Una biografia, cit., p. 666.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. K. Brandys, Hotel d’Alsace e altri due indirizzi, cit., p. 5.
[6] R. Ellmann, Oscar Wilde. Una biografia, cit., p. 670.
[7] Ivi, p. 93.
[8] Ivi, p. 304.
[9] M. D’Amico (a cura di), Vita di Oscar Wilde attraverso le lettere. cit., pp. 77-78.
[10] O. Wilde, L’arredamento della casa e altre conferenze, cit., pp. 82-83.
[11] O. Wilde, The Canterville Ghost, in The Complete Works of Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde (a cura di V. Holland), Collins, London and Glasgow 1990, p. 208.
[12] Cfr. Ibidem.
[13] O. Wilde, Ballata del carcere e altre poesie, cit., p. 37.
[14] Ivi, p. 41.
[15] Ivi, p. 55.
[16] R. Ellmann, Oscar Wilde. Una biografia, cit., p. 249 n. (da rilevare che, a causa di una svista nella traduzione, in questa nota Sinfonia in giallo diventa Sinfonia in rosa).
[17] O. Wilde, Sinfonia in giallo, in Poesia, cit., p. 97.
[18] J.L. Borges, Su Oscar Wilde, cit., p. 90.
[19] Cfr. ivi, pp. 89-90.
[20] Ivi, p. 91.
[21] Cfr. E. Menascé, Il labirinto delle ombre. L’immagine di Don Giovanni nella letteratura britannica, cit., pp. 113 e sgg.
[22] Cfr., O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, in Opere, cit., p. 79.
[23] Ivi, p. 110.
[24] O. Wilde, The Picture of Dorian Gray, cit., p. 101.
[25] O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cit., p. 112.
[26] Cfr. O. Wilde, The Picture of Dorian Gray, cit., p. 102.
[27] Si è a lungo dibattuto su quale potesse essere il titolo di questo libro “innominato”, non certo aiutati dallo stesso autore, che in merito dava risposte alquanto contraddittorie. In una lettera del 15 aprile 1892 a E.W. Pratt egli diceva: «Il libro in Dorian Gray è uno dei molti libri che non ho scritto, ma fu suggerito in parte da A Rebours di Huysmans, che potrà procurarsi da qualunque libraio francese. Si tratta di una variazione fantastica dell’iperrealistico studio di Huysmans circa il temperamento artistico nella nostra inartistica età» (cfr. M. D’Amico, Vita di Oscar Wilde attraverso le lettere, cit., p. 149). In un’altra lettera, del 12 febbraio 1894, questa volta indirizzata a Ralph Payne, si legge: «Il libro che avvelenò, o rese perfetto, Dorian Gray, non esiste: è soltanto una mia fantasia» (Ivi, p. 169).
[28] Cfr. O. Wilde, Salomé, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1950, p. 13.
[29] Cfr., ivi, pp. 29-33.
[30] Cfr., ivi, p. 15.
[31] Cfr., ivi, p. 54.
[32] Cfr., ivi, p. 13.
[33] Cfr., ivi, p. 27.
[34] Per tutte basti la testimonianza André Gide, la prima volta che lo incontrò di persona: «Wilde non conversava, affabulava. […] Narrava sottovoce, lentamente; la voce stessa era stupenda. Parlava un francese mirabile, e tuttavia fingeva di cercare un po’ le parole intorno alle quali voleva creare attese. Non aveva quasi accento, o perlomeno solo quel poco che gli piaceva conservare, quel poco che dà alle parole un aspetto talvolta nuovo e strano» (cfr. A. Gide, Oscar Wilde. In memoriam. cit., p. 12).
[35] Frase riportata in R. Ellmann, Oscar Wilde. Una biografia, cit., p. 257.