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Riletti per voi #20: Giovanna Rosadini, “Unità di risveglio” (nota di Andrea Castrovinci Zenna)

Riletti per voi #20:
Giovanna Rosadini, Unità di risveglio
Einaudi Editore 2010

Nota di Andrea Castrovinci Zenna

 

Se non si ritiene decoroso, o quanto meno consono al momento storico complesso e arduo che stiamo vivendo, scrivere, è pur sempre possibile leggere e rileggere. E non solo i classici canonizzati, ma anche quelli che lo diverranno a breve.
Un libro inizialmente ha bisogno di lettori e/o di una critica che lo sostenga; questa la sorte di tutte le opere: nascere, essere sostenute; ma poi il tempo uccide i lettori, e magari dopo qualche generazione non se ne parla più. Anche questo è un destino, improvvido. Ma quando di un’opera, di un autore si parla, ecco che vive nuovamente.
Il classico può definirsi tale quando vive da sé, viene letto e attualizzato e interpretato e reinterpretato e sempre riesce a dire il suo tempo e il nostro, il passato e il presente e, possibilmente, il futuro. L’universalità del messaggio è il potere del classico. E se tale è, prescinde dal contingente, dalle disgrazie recenti o trascorse, non si affida al tema, ma alla sua forma per svalicare i valichi del tempo. In fondo Ulisse, (che cosa vecchia!) nel suo nostos verso casa, che compie di innovativo? Torna a casa dopo la guerra, attraverso una serie di peripezie. Sai che storia.  E Renzo e Lucia? Due giovani villani desiderosi di sposarsi e mettere su famiglia, ma che a causa di un prete vile e soprattutto di un libertino arrogante, non riescono; gliene accadono di tutti i colori, arriva persino la peste, e poi si sposano. Fine. Capolavoro della letteratura italiana. Eh no signori, (mi rivolgo ai non addetti ai lavori: i letterati leggeranno questo modesto opuscoletto come retorico e velato da una scialba, noiosa ironia: ma abbiate pazienza, di solito devo rivolgermi agli alunni, è una deformazione professionale) non è la trama a rendere un’opera un classico, ma il sovrasenso che da essa ne scaturisce. E credo, dopo questa premessa, di potermi finalmente rivolgere al testo di cui volevo scrivere fin da principio, una raccolta poetica del 2010 che a distanza di dieci anni continua a parlarci, perché, come un viaggio verso un ritorno a casa (e non per nulla l’ultima sezione della raccolta si intitola Itaca), ci parla del vuoto e della dimensione ritrovata che non è mai la stessa che avevamo lasciato alla partenza.
Intanto la trama: una donna si opera e va in coma, poi si sveglia e torna a casa. Fine. Ma la donna in questione è Giovanna Rosadini, e il suo volume poetico Unità di risveglio (2010).
Eppure, nella sua lineare angustia sfoggia uno scavo profondissimo nei confronti della nostra natura, risultando tutt’altro che una lettura non avvincente, pur parlandoci di un evento banale (e quando dico banale intendo comune, ossia che può capitare; sul quale, oltre al naturale non-vissuto e aurorale-vissuto del risveglio, che ci sarebbe da dire? Capita. Tutto a questo mondo capita, no? Un coma, la morte di un genitore, la fine di un amore: nulla è alieno). Ma nella semplicità della trama risiede la grandezza di un’opera classica: anzi, più semplice la trama, più lineare e intelligibile il linguaggio, più l’opera ne risulta valorizzata, perché trascende la dimensione denotativa, (pur mantenendo la comprensibilità) per connotarne altre cui ciascuno di noi nella sua piccola miseria può affacciarsi, scoprendo aspetti inusitati, concordanze, dialogando con essa.
La poesia che scaturisce da Unità di risveglio si incarna universalmente in qualsiasi assenza, in qualsiasi lutto. Perché le assenze sono lutti, da (spesso vanamente) elaborare: benché di entità e conseguenze enormemente differenti, tutte le esperienze legate al vuoto, alla perdita, al riuscire con sforzi e ricadute a riacchiappare una dimensione che sembrava nullificata e privata di ogni significato, hanno un fondo di sottese analogie, restano drammatiche e difficilmente [se non (in)]comprensibili. Ecco allora che ogni abisso a spiombare la consueta normalità si affaccia e ingorga ciascuno di noi: chi per un amore disgraziato, chi per un lutto, chi per una assurda degenza post-operatoria che ha comportato un doversi riconfrontare con la vita e con se stessi. Questo ci lascia Rosadini: una poesia coraggiosa, che indaga senza pietismi un fondo buio.
Il volume, (in tre sezioni: Sintomi, Terra di nessuno e Itaca) dalla impronta narrativo-diaristica usa una lingua netta, che registra sensazioni e tenta di renderle comprensibili, entro una distensione placida del verso, con cadenze spesso regolari, prediligendo dimensioni ampie. Rosadini così mostra di volerci rendere partecipi di quel suo nulla, che si espande fino a comprenderne altri di origine diversa, in maniera tutt’altro che allucinata, anzi al contrario in modo pulito, scabro, limpidamente terribile.
In copertina troviamo subito sonorità che ci parlano da lontano: la cadenza ritmata va dalla presa d’atto, icastica, dell’evento, al successivo sbiadirsi e in esso confondersi. La retorica, lontanissima dall’essere abbellimento, è funzionale a esprimere non solo quella non-vita del coma, vissuta in prima persona dall’autrice, ma qualsiasi universale perdita e conseguente vuoto.

L’ultimo ricordo è la tua voce
prima che tutto si confonda
e poi sbiadisca, in controluce;
dopo c’è stato un volo nella notte,
lo scivolare netto dove l’ombra inghiotte
l’aria, e l’onda è un vortice che spiomba…
Mentre ogni cosa rimbomba per voi
che rimanete, a custodire il corpo inerme
chiuso nel silenzio e nell’assenza,
ormai slacciato da ogni appartenenza…

La voce, che presenta l’ultima sillaba simile a controluce (rima mancata per una sola vocale), in una sinestesia appena accennata a distanza di un verso, la tessitura fonica piena di vocali rimbombanti, l’apertura a versi sempre più ampi, che accompagnano l’arrivo dell’endecasillabo, il suo allungamento di qualche sillaba, le rime interne e le assonanze che tessono un fonosimbolismo di opacizzata percezione: queste alcune delle caratteristiche che si ritrovano nella raccolta poetica, ben svelate dal testo in copertina appartenente alla seconda sezione, Terra di nessuno. È da leggere ad alta voce, perché è qui il suono che ci culla in questo male.

La prima sezione, Sintomi, sceglie la brevità come carattere peculiare della premonizione[1]. Essa è interamente costituita da coppie di distici, protagonista un corpo che in se stesso sente germinare un vago male.

Il mio sesso è una pietra scura
affondata nella terra del corpo

pesa negli occhi come un magnete –
le orecchie ne misurano il silenzio.

Infinita periferia della mente,
ora che l’arco riflesso si è spezzato

e non tiene la sua presa al centro,
sul lago d’ombra dove pesca l’ombelico.

 *

Sgranata nella dissolvenza, opaca
nel lucido del mondo – impalpabilmente

 calata nella sostanza solida che preme
e riduce, prende spazio nello scavo di me.

La seconda sezione è fortemente ancorata alla corporalità, straziata e vissuta anche per mezzo degli esterni, dei parenti che si trovano vicini. È altresì la sezione più intensamente drammatica della raccolta, ove affiora l’ineffabilità del dire la condizione sospesa che è stata per l’autrice il coma. È infatti, la Terra di nessuno, il proprio corpo, la cosa tenacemente più attaccata a noi, che non è più, tuttavia, in nostro possesso; la mente è sbiadita, galleggia, sembra a tratti inabissarsi e quasi abbandonarsi. La poesia proemiale, riportata interamente, mostra come le parole vengano sillabate: emerge una dicotomia entro l’intimità assoluta che dovrebbe essere l’io col proprio corpo, quest’ultimo sembra non appartenere più; la forma si adatta al nuovo involucro, il verso si frantuma, si carica di brevità: caso rarissimo nella raccolta intera.

Il mio corpo è diventato
un altro.
Non sa più
chi era.
Si perde tutte
le risposte,
mi lascia
senza scampo.

Uno scafandro ottuso
sul fondo del mare.

E vi sono numerose altre possibilità espressive atte a esprimere il sonno del coma, l’inappartenenza; tra queste presentissima è la metafora marina o generalmente equorea: «Sono… langue senza parole/ significante senza significato» (p. 34, Il mio corpo è un luogo pubblico); «la mente è un impasto/ in cui galleggia la coscienza» (p. 36, La mia mente è un impasto); «Sono io quest’immagine riflessa,/ questo fantasma evanescente e ossuto/ che non si regge in piedi senza aiuto» (p. 37, Sono io quest’immagine riflessa); «Affondo insieme al sasso/ nel liquido rovescio del giorno –/ luci sottomarine vorticano intorno –/ non riesco, non posso trattenerlo,/ mi sfugge come un animale,/ la preda indispensabile/ a calmare il mio timore» (p. 40, Affondo insieme al sasso); «Ciò che arriva non ha nome/ è un ronzio di confusione/ disabitata, un naufragio opaco» (p.43 Ciò che arriva non ha nome). 

Terra di nessuno è la sezione in cui lo scavo nei meandri dell’assenza, che si espande a tutti i vissuti quotidiani, si manifesta meglio, è, all’interno di una raccolta poetica in se stessa già universale, la sezione più universale: è il sonno e il risveglio, la realtà ancora ospedaliera prima del ritorno a casa.
Troppe sarebbero le citazioni traverso cui l’autrice dice l’inesprimibile, che ciascuno potrebbe leggere, semplicemente, aprendo il libro, e riviverle come elemento personale slegato dalla storia vissuta biograficamente da chi ha scritto il volume: eccola la classicità, la parola che non si ferma al nome di chi la pronuncia ma si valida in se stessa, venuta fuori dal grembo materno e cresciuta, che cammina da sola.
In Terra di nessuno si trovano anche monologhi e dialoghi dell’io lirico con chi è rimasto a vegliare, e parlare ancora, nonostante l’immobilità e il dubbio percettivo: ne scaturiscono l’immaginazione dell’inimmaginabile angoscia provata dai superstiti e insieme la gratitudine, nonché la capacità di adattamento alla situazione nuova (il post-coma, la riabilitazione), la strenua voglia di ricominciare, pur sapendo che «una morte mancata non è una rinascita,/ ma un’opportunità dimezzata» (p. 64 Questo sarebbe stato) vissuta entro l’antitesi tra mente vigile e slegatura della medesima nei confronti del corpo: «So che mi aspetta uno scarto finale/ un residuo una coda quello che mai/ si potrà sanare, ma lotto combatto/ mi faccio violenza» (p. 65 Come una macchina arrugginita); «Anche se, sappiamo ormai, più nulla/ d’ora in poi potrà tornar normale…» (p.67 Questa è la battaglia).
La vitalistica forza di non arrendersi al male subito emerge da un testo dal titolo emblematico, Manifesto:

Trasformare la mancanza
in un punto di forza,
accettare il difetto e l’insufficienza,
elaborare il lutto
per la fine dell’onnipotenza…
[…]
Ricominciare
da quello che è rimasto,
o si può recuperare.

La sezione Itaca indaga il ritorno a casa, il lento percorso verso una nuova normalità: normalità che non può che presentarsi in un corsivo che evidenzi tutta l’alienazione dalla norma (corsivo è infatti l’aggettivo citato sopra e appartenente a Questa è la battaglia in Terra di nessuno), concetto ormai definitivamente sfumato. Ogni gesto quotidiano sembra provenire da un lontano e lontanante, i ricordi propri quasi non appartenere più: io si domanda se davvero è di sé che sta parlando;[2] ma infine la cura familiare e la ardimentosa volontà di introspezione consolano e danno forza alla relitta, che grata chiude il volume con un progressivo risorgere delle rime e di una musicalità controllata, semplice e mai banale, autorevole, placida, spessissimo in -are: da Congedo in contumacia

[…]
Ricordo i gesti e ricordo le parole,
il tempo lieve del nostro camminare
al sole, ed il tuo ascolto attento
che sapeva restituire il buonumore…
quel sentimento scolorito altrove
rinvigoriva al tocco semplice
del tuo calore, bastava scivolare
un po’ di lato, cambiare musica,
allentare la presa, del cioccolato…
Smettere per un istante di volersi male…

L’autrice, che non può semplicisticamente concludere con il lieto fine, (proprio come il buon Manzoni nonostante il matrimonio infine riuscito di Lucia) nell’ultima poesia che chiude il volume, intitolata Home again, dopo l’ampia e lieta descrizione paesaggistica viva di cromatismi, pone una domanda che non ha più a che fare con l’esperienza vissuta: segno che il passaggio dall’esperienza personale, attraverso la poesia, è riuscito, ed è divenuto patrimonio comune: «sapremo mai/ la sostanza perduta, ritroveremo/ il luogo, il corpo che abbiamo abitato?».
Il percorso poetico di Giovanna Rosadini è proseguito con Il numero completo dei giorni (2014), Fioriture capovolte (2018) e Frammenti di felicità terrena (2019). La sua voce, solenne e coraggiosa, ci accompagna anche in questi giorni complessi, con un inedito uscito per «Lettura»:

Cosa possono le parole in questo tempo
che si allarga lento, di giorni passati
a macerare pensieri per i distanti,
per i propri cari. A cosa vale la mano
che non ti può toccare, lo sguardo,

se non ti può più avere e vaga sperso
oltre ai vetri chiusi che dicono primavera.
Ecco, il rombo della Storia ci ha raggiunto,
ci credevamo immuni, non era il punto.

Ora, ogni cosa appare nel suo vero nome,
ciascuno è nudo e vulnerabile al contagio,
ciascuno è solo di fronte al proprio lume

che allontana lo scuro di ogni naufragio,
inerme e speranzoso – fino al mattino,
quando sarà di nuovo mondo, vicino.

 

© Andrea Castrovinci Zenna

 


[1] premonizione appare proprio in parentesi sotto il titolo della prima sezione: la scelta di scrivere premonizione entro una parentesi è felicissimamente espressiva, come se essa sia una sorta di chiaroveggenza della parentesi che attende, della sospensione futura.
[2] E sia chiaro: la fa utilizzando spesso la prima persona singolare: mi ritrovo, mi è mancata, sono andata avanti, parla di ritmo del mio cuore, il mio bagno, le creme che ho lasciato, pensavo di trovarti accanto. Sia pure scritto a pié di pagina, ma sia: il limite da parte dell’egotismo narcisistico della poesia contemporanea non è IO, ma al più una mancata possibilità che questo IO diventi un NOI, ossia un sentire che, a distanza di eventi contingenti, possa restituire un vissuto senza spazio e senza tempo. Leopardi che parla d’amore, di morte o di giovinezza sprecata, che starà mai dicendo di nuovo? E lo fa dicendo IO. E perché mistificare ancora che l’IO novecentesco e post non possa ancorarsi alla persona che lo esprime biograficamente? Lo si lasci pure dire “IO”, tanto lo sappiamo che ogni pretesa prima persona singolare, o possessività aggettivale, non riguarda mai l’autore ma l’io lirico, che ogni IO in letteratura non è mai se non una percentuale di finzione, che, alla fine, non ha neppure alcuna importanza: purché ci sia Poesia, che sappia parlare; può essere IO o una forma impersonale, purché comunichi, esprima ancora una volta, in maniera manierata dalla singola eccezionalità individuale, un solito vecchio tema sul quale ancora e sempre ci sarà da dire qualcosa: l’amore, la morte, la sorte, il dolore. Un classico non teme un pronome personale.

Una replica a “Riletti per voi #20: Giovanna Rosadini, “Unità di risveglio” (nota di Andrea Castrovinci Zenna)”


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