Elizabeth Siddal: un gracile corpo tra l’erba e i fiori
di Giorgia Zanierato
Elizabeth Eleanor Siddal, oggi nota per aver prestato la sua bellezza fuori dal comune a molti tra i più famosi pittori preraffaelliti, in particolare a John Everett Millais per la realizzazione dell’Ophelia annegata, fu nella sua breve ma intensissima vita oltre che pittrice anche una poetessa. Lei, nata nei pressi di Londra nel 1829, non ebbe la possibilità di ricevere un’educazione scolastica tradizionale, sia perché l’accesso alle donne non era consentito in tutte le scuole, sia per il fatto che non nacque in una famiglia particolarmente abbiente. Poté apprendere i primi rudimenti di arte e letteratura grazie all’uomo che divenne prima suo amante e poi suo marito: Dante Gabriele Rossetti. I due ebbero una storia d’amore tanto passionale e travolgente da potersi definire malata, difatti minò in modo decisivo la salute sia mentale che fisica già molto cagionevole della giovane donna. Il rapporto che si era instaurato andava al di là del semplice legame affettivo: Elizabeth fu per Gabriele la sua musa principale e lui la ritrasse in ogni sua sfaccettatura; Rossetti fu per lei oltre che un maestro un sentimento così estremo e totalizzante da consumarla fino all’autodistruzione. Infatti i vari tradimenti del marito, le proprie crisi depressive sempre più paralizzanti e l’aver partorito una figlia già defunta, spinsero la Siddal a suicidarsi con un’overdose da laudano alla presta età di trentatré anni. Soltanto dieci anni dopo il marito tenterà la stessa tragica fine della consorte, venendo però salvato appena in tempo da alcuni amici.
Rivolgendo l’attenzione unicamente all’attività poetica della Siddal, questa occupò un periodo brevissimo della sua vita, successivo alla data del suo matrimonio, quando l’allieva in campo artistico aveva ormai superato il mentore. Ogni verso è madido di malinconia, sentimento espresso con parole oltremodo patetiche ma limpidissime, vivide di una tragica consapevolezza. Il tema più ricorrente è quello della morte precoce come raggiungimento di uno stato paradisiaco esente dal dolore, luogo in cui diviene possibile il ricongiungimento delle anime che si sono amate nella vita terrena. La sua opera omnia comprende in totale quattordici liriche più un frammento, versi che rivelano una personalità perennemente inquieta e sofferente oppure, volendo usare le parole di Camillo Sbarbaro, ingabbiata in una perpetua «rassegnazione disperata».1 Lei stessa nella poesia Un anno e un giorno (A year and a day) si immortala in un ritratto che la assimila fin quasi a confonderla con l’Ophelia shakespeariana, ritratto per il quale ha posato, nei versi:
I lie among the tall green grass
that bends above mi head
and covers up mi wasted face
and folds me in its bed
tenderly and lovingly
like grass above the dead.
[Giaccio nell’erba verde alta/ che si piega sul mio capo/
e copre il mio viso devastato/ e mi avvolge nel suo letto/
con tenerezza e amore/ come l’erba sopra i morti.]2
Particolarmente struggenti sono le poesie scritte in seguito alla morte della figlia: Alla fine (At last), composta presumibilmente durante la gestazione, è una sorta di testamento in cui la poetessa si rivolge direttamente alla madre chiedendole di prendersi cura del proprio figlio e di amarlo indipendentemente dalla persona che potrà diventare. Si percepisce la profonda sofferenza di una donna che attende la morte con maggior trepidazione rispetto alla venuta del figlio che porta in grembo: confida nella madre affinché possa lavarle le mani pallide, defunte, e fasciarle i piedi, in quanto lei non riesce ad immaginare riposo e pace se non dentro al proprio sudario. Questa idea va contro al pensiero diffuso dell’arrivo di un figlio come dispensatore d’amore e gioia senza limiti; non c’è alcun sentore di speranza nemmeno di fronte al miracolo della nascita di una nuova vita, del sangue del proprio sangue. Al contrario, chiede infine alla propria genitrice di far sapere al suo sposo che il suo cuore, giunto all’ultimo respiro, era felice.
Andata, prima poesia dedicata alla figlia nata senza vita, spoglia momentaneamente i versi dal pensiero ossessivo del suicidio per lasciare spazio a immagini estremamente romantiche e al tempo stesso drammatiche: la Siddal si ritrae, ad esempio, mentre immagina di toccare l’ombra della figlia che si materializza sull’erba inondata dalla luce del sole. Aver cercato di aprire un varco da cui potesse filtrare della luce nell’oscura foresta della sua solitudine non ha fatto altro che portare ulteriori tremori, lacrime ed un silenzio ancor più profondo lì dove lei stava, ed ora non le resta altro che osservare le ombre ammassarsi attorno al suo cuore.
La poesia successiva dal titolo Signore, posso venire? porta la sua disperazione al punto estremo, costringendola a rivolgersi a Dio in ogni strofa supplicandolo di prenderla con sé oggi stesso. Questa richiesta, «Lord may I come to thee?», ripresa in anafora alla fine di ogni strofa, risulta quasi ridondante per quanto si fa insistente; l’autrice potrebbe qui essere paragonata a una bambina durante un lungo viaggio, impaziente di giungere alla meta, che tormenta i genitori per sapere quanto tempo rimanga alla fine di quel supplizio. Se di certo non teme la morte è però spaventata da ciò che può attenderla al di là della vita: interroga l’Altissimo sulla veridicità della pace eterna, vuole sapere se davvero le anime legate nella terra potranno riunirsi e camminare mano nella mano in paradiso. Il tema del ricongiungimento degli spiriti dopo il trapasso ritorna incessantemente in tutta la sua opera: in Morte prematura, parlando al suo amore, lo ammonisce raccomandandogli di non piangere per «la vita che scorre veloce» poiché li aspetta un’esistenza perenne una volta che i cancelli del cielo si saranno spalancati per loro. Scrive qui:
But true love, seek me in the throng
Of spirits floating past,
and I will take thee by the hands
and know thee mine at last.
[Ma vero amore, cercami nella folla/ di spiriti fluttuanti lì vicino,/
e ti prenderò per le mani/ e alla fine ti riconoscerò mio.]3
Va considerato che i vari motivi religiosi e le reminiscenze di inni e preghiere rivolte a Dio sono da intendere come strumenti poetici conformi ai criteri estetici dei Preraffaelliti, nonché ai canoni della cultura ottocentesca. Inoltre, il movimento veloce e drammatico della narrazione, con bruschi passaggi di stati d’animo ed emozioni, è tipico della forma metrica della ballata alla quale Elizabeth attinge. Dovuta a questo schema tradizionale è anche l’ostentata musicalità, favorita dalla frequente combinazione delle parole in rima e dal registro drammatico dei versi, i quali si evolvono in una dinamicità pulita ed elegante. Nonostante all’interno della sua produzione poetica sia indubbiamente predominante il tono elegiaco, emerge anche una voce ed una personalità sorprendentemente vigorose, vibranti di rabbia e disprezzo, caratterizzate da toni alti, a volte quasi violenti e rancorosi e attraversate da una gelida vena di sarcasmo. Ciò è riscontrabile soprattutto nei versi seguenti, tratti dalla poesia Amore e odio:
Open not thy lips, thou foolish one,
nor turn to me thy face;
the blasts of heaven shall strike thee down
ere I will give thee grace.
[Non schiudere le labbra, sciocco,/ e non volgere a me il tuo volto;/
e non volgere a me il tuo volto;/ prima che io ti conceda la grazia.]4
In questa poesia, nonostante il titolo, pare sia sopravvissuto soltanto un sentimento di puro odio nei confronti di colui che fu per lei «come l’albero avvelenato/ che strappò via la vita».5 Malgrado ciò, il ritratto che si è soliti cogliere di lei è quello di una donna dalla squisita purezza, capace di dar vita a raffigurazioni limpide e a versi dalla struttura elegantissima oltre che malinconica. Si è indotti a pensare alla Siddal nello stesso modo in cui è stata rappresentata da Millais, come una donna delicatissima stesa all’ombra degli alberi, mentre fa giacere il gracile corpo e la mente stanca tra l’erba e i fiori. D’altronde le sue parole inquiete e sofferenti e la sua opera vissuta come un monologo intimo e fervido difficilmente lasciano trasparire l’intenso lavoro di revisione che soggiace alle sue scelte poetiche; in verità la scrupolosa attenzione che compie anche nella suddivisione delle strofe fa capire che queste quindici ‘perle’ non sono state soltanto un tentativo di esorcizzazione della sofferenza o il frutto di un pensiero riservato e introverso, ma il prodotto di uno studio letterario e di una propensione verso l’arte poetica da non sottovalutare. Per questo motivo sarebbe importante non dimenticare l’opera di una donna che l’abbraccio dell’amore non riuscì mai a consolare quanto il calore della nuda terra.
© Giorgia Zanierato
A silent wood
O silent wood, I enter thee
with a heart so full of misery
for all the voices from the trees
and the ferns that cling about my knees.
In thy darkest shadow let me sit
when the grey owls about thee flit;
there wil I ask of thee a boon,
that I may not faint or die or swoon.
Gazing through the gloom like one
whose life and hopes are also done,
frozen like a thing of stone
I sit in thy shadow – but not alone.
Can God bring the day when we two stood
beneath the clinging trees in that dark wood?
.
Una foresta silente
Oh foresta silente, io ti attraverso
con il cuore pieno di sofferenza
per tutte le voci che vengono dagli alberi
e le felci che si aggrappano alle mie ginocchia.
Lasciami sedere nell’ombra più scura
quando i gufi grigi ti passeranno veloci accanto;
lì ti chiederò un favore,
che io non possa languire o morire o svenire.
Lo sguardo fisso nel buio come uno
la cui vita e speranze sono svanite,
fredda come pietra
siedo nell’ombra – ma non sono sola.
Potrà Dio ridarci il giorno in cui stavamo
Sotto gli alberi dai rami intrecciati in quella foresta scura?
.
Dead love
Oh never weep for love that’s dead
Since love is seldom true
But changes his fashion from blue to red,
from brightest red to blue,
and love was born to an early death
and is so seldom true.
Then harbour no smile on your bonny face
to win the deepest sigh.
The fairest words on truest lips
pass on and surely die,
and you will stand alone, my dear,
when wintry winds draw nigh.
Sweet, never weep for what cannot be,
for this God has not given.
If the merest dream of love were true
then, sweet, we should be in heaven,
and this is only earth, my dear,
where true love is not given.
.
L’amore finito
Non piangere mai per un amore finito
poiché l’amore raramente è vero
ma cambia il suo aspetto dal blu al rosso,
dal rosso più brillante al blu,
e l’amore è destinato ad una morte precoce
ed è così raramente vero.
Non mostrare il sorriso sul tuo grazioso viso
per vincere l’estremo sospiro.
Le più belle parole sulle più sincere labbra
scorrono e presto muoiono,
e tu resterai solo, mio caro,
quando i venti invernali si avvicineranno.
Tesoro, non piangere per ciò che non può essere,
per quello che Dio non ti ha dato.
Se il più puro sogno d’amore fosse vero
allora, amore, dovremmo essere in paradiso,
invece è solo la terra, mio caro,
dove il vero amore non ci è concesso.
1 Camillo Sbarbaro, Pianissimo, La Voce Edizioni, Firenze, 1914.
2 Elizabeth Siddal, Un anno e un giorno, da Poesie. La musa ispiratrice dei Preraffaelliti, trad. it. a cura di Conny Stockhausen, Damocle, Chioggia, 2013, p. 31, vv. 7-12.
3 Morte prematura, in ivi, p. 37, vv. 9-12.
4 Amore e odio, in ivi, p. 53, vv. 1-4.
5 Ibidem, vv. 15-16.