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Sara Vergari, Giuseppe Conte: il Mitomodernismo e il mare

Giuseppe Conte: il Mitomodernismo e il mare
di Sara Vergari

 

Ed è con questa consapevolezza, caro nuovo lettore del Terzo Millennio, giovane o vecchio che tu sia, che ti affido il frutto di quella stagione di rivolta, di urli, di incanti, di scoperte, di viaggi, di meditazioni, quelle mie immagini marine sempre in movimento, tutti quei miei animali, alberi e fiori in cui il cosmo intero si specchiava. Che tu ci possa trovare, in un mondo ancora più difficile, tragico e minacciato di allora, momenti di resistenza alla barbarie e la certezza che per restare profondamente umani non dobbiamo rinnegare la bellezza abbagliante della natura e la presenza insondabile degli dei.

In queste ultime righe della nota di prefazione all’edizione del 2002 di L’Oceano e il ragazzo Giuseppe Conte riassume il senso della sua poesia e il ruolo della poesia tout court, lasciando ai nuovi lettori un compito fondamentale, quello di impugnare i versi come arma di resistenza. L’Oceano e il ragazzo (1983) è per definizione dello stesso autore il libro in cui culmina la sua giovinezza e in cui ha riposto tutte le ribellioni, le speranze e gli eccessi lirici che la poesia può e deve contenere. Non a caso si è parlato di poesia-limite insieme con linguaggio-limite (Giorgio Ficara, introduzione a Poesie, Mondadori, 2015) che in Conte assume una doppia valenza, il primato etico della poesia unito all’impegno civile e poesia del possibile come tensione a uno spazio ancora intoccato. A partire dalla poesia di Conte, uno degli ultimi grandi nomi del Novecento che ancora ci sono contemporanei, si può sviluppare un discorso che tiene insieme la tradizione e le nuove voci di oggi, quello sul compito militante e attuale della poesia unito alla preservazione della bellezza e del valore letterario.

Giuseppe Conte, autore senza dubbio ancora poco conosciuto, torna oggi con una nuova raccolta edita dalla prestigiosa collana Lo specchio Mondadori (Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori, 2019, 120 pp.). Conte è in tutto il suo corso poetico un militante, un intellettuale nel senso più novecentesco del termine, di quelli che hanno lottato per l’affermazione del primato etico della poesia. Si ricorda proprio a questo scopo l’occupazione pacifica di Santa Croce a Firenze insieme ad altri poeti quali Roberto Carifi. Accanto a questo coesiste un altro Conte, poeta intimistico, capace di accogliere nella sua poesia un mondo non solo del reale ma, come già detto, anche del possibile. E il possibile è il mare, presenza costante, interlocutore primo che si fa specchio di un infinito leopardianamente solo immaginato. Così il titolo stesso della nuova raccolta ci  conferma le linee guida della sua poesia e che del mare non si può smettere di parlare. Il mare è poeticamente collocato su più livelli; certamente è quello della sua Liguria, dei paesaggi e delle geografie personali. Il mare è colui che travolge e lascia a riva i residui della vita – gli ossi di seppia di Montale, anche lui ligure – ed è l’interlocutore che accoglie tutti i Tu della poesia. Il mare è in ultimo lo spirito, la divinità, ciò che si fa mito e genera il mito. E infatti Conte è insieme a Tomaso Kemeny l’iniziatore di una delle ultime correnti poetiche novecentesche, il Mitomodernismo, che si rifà ai più disparati racconti mitici (etruschi, atzechi, greci, celtici). La tradizione mitopoietica italiana, da quella del fanciullino di Pascoli a quella titanico-dionisiaca dannunziana fino a quella etnologico-psicanalitica di Pavese, trova nel mito le radici dell’ispirazione e la possibilità di un contatto originario e archetipico con il mondo. In Conte mito e natura si fondono come costanti imprescindibili, come immersione che non è mai fuga dalla realtà ma nuova possibilità per la realtà. Il doppio ruolo della poesia appunto, fornire mezzi alternativi di resistenza nel contatto con mito e natura.

Non finirò di scrivere sul mare.
Perché il mare è le Sirene la cui voce
calamitante d’amore oscura
voglio ascoltare senza paura
io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca
né Penelope né Telemaco che valgano
più del canto e delle traversate.
Perché il mare è le balene, i cui corpi
vasti e grondanti, innocenti,
scaldano i desideri più smisurati
e danzano nel più lento
arduo accoppiamento
che si conosca sul pianeta.
Perché il mare è le onde, istantanee e frananti
che scalpitano e scavano dall’orizzonte
sino alla riva, è la spuma che riga
l’aria di salino
è sentirsi vicino
all’inizio di ogni lacerazione
al primo scoccare del tempo
alla prima decisione di una cellula
– o sogno che sia stato, dirompente e fatale –
di diventare mortale.

(Non finirò di scrivere sul mare)



Aprile che ritorna e che consuma nei
giardini di ginestre e di acanti, nei
voli di passeri invisibili e nei calendari
aprile che sgretola che versa dalle tiepide

foci le nuove nuvole – sulle
sue carte antiche ridisegna
le rotte per le mille chiglie dorate – che
si posa in questa piega della cadente

Europa su scalinate bianche palmizi e acquitrini, che
rovescia i ricordi e i desideri, fu detto, e dà
il mal di capo. Ma ora flotte muovo-
no senza aver mai toccato porti, alzano

vele galeoni volanti, non sanno che
bandiera battono sconosciuti traversano
– non hanno più piedi del vento, degli scirocchi – le
piazze, le automobili in sosta, i palazzi in

fila, le porte dei caffè aperte i pome-
riggi, i volti degli uomini e cupole
grigie i cani abbaiano dai cancelli.

(L’ultimo Aprile bianco)

 

Dimenticare città, nomi, desideri
di uomo: voglio solo fiorire, rivivere, io
non più io, ibisco, acacia,
conca aperta e tremante di un anemone.

Avere piedi e nodi d’erba, io
non più io, mani guantate
di germogli, ciglia nuove blu, di
scorsa il torace, spezzato e vivo.

Ho dimenticato tutto, scrivo
perché dimenticare è un dono: non
desidero più che alberi, alberi, prode
di vento, onde che vanno e tornano, l’eterno

rinascere sterile e muto delle

cose

(Dopo Marzo)

Fedele a nessuna corrente ma lettore di tutte, Conte è un poeta senza aureola vicino forse al primo Montale di “Non chiederci la parola”, al Pianissimo di Sbarbaro, al Gozzano di “Ed io non voglio più essere io” che non ha la pretesa di insegnare ma di interrogarsi continuamente, comunicare con la natura e il mito, penetrarne l’essenza per cerare una via alternativa.  L’uomo di oggi che non ha un’Itaca dove tornare e ridisegna rotte senza sapere che bandiera battere ha disperatamente bisogno della poesia perché il verso sarà sempre l’unica arma capace di tenere in sé bellezza e militanza.

© Sara Vergari


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