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PoEstate Silva: Victor A. Campagna, Poesie inedite

 

Terzo

Quando eravamo ancora nella mantellina
di pianeti progressivi, ecco, eravamo là.

A un certo punto, abbiamo evaporato il pianeta,
e ci siamo dovuti infliggere la nostalgia di partire,
avevamo raggiunto una ventata tecnologica incredibile
e abbiamo colonizzato un pianeta. Qua v’erano
ominidi che specchiati mugugnavano e intessevano
con le lance il loro cibo.

Noi li abbiamo guardati da esseri viventi e loro
ci scambiarono per dei. Eravamo invece dei cretini,
delle bestie idiote, abbiamo distrutto le nostre case,
ucciso tutto quello che avevamo e ora,
guardate che ne è rimasto: metano, gas,
carbonio assoluto, vita zero, residui di acque, crateri.

Non è rimasto più nulla. Nemmeno gli dei.
E io, Pan, sono qui a raccontarvelo.

Ho deciso di farmi tra gli uomini per questo.
Rimanere nella foresta, denudarmi, ero il più
particolare tra gli illuminati. Non a caso diwos
significa luce. Venivamo da luci accecanti,
spondiliti del cielo.

A me faceva senso volare.

 

 

Ci sono aree di destino
come disegnate su porticcioli, moli,
intessuti di catrame e disperazione.

Io mi sono spesso ritrovato a passeggiarvi accanto
e vi ho trovato ogni giorno casi disparati,
avvolti talvolta in mantelline, felpe, maglioni,
maglie scolorite, digesti allargati, disturbi
apocalittici intorniati di qualcosa, di qualche
disinibita attenzione al dettaglio, alla macula
specchiata di una vuota rotatoria,
dove poche macchine, sole, si allargavano
in un abbaglio di natura, coi navigatori accesi
l’urlo di una tecnologia Bluetooth.

Da quest’assenza di contatto,
che si passa in aria, come pandemia,
mi sono ritrovato immischiato.

 

 

Il problema mio è che questo deserto già lo sento,
già lo percepisco, lo vedo, lo intravedo, meglio.

Io che cammino e vago per la casa,
in cerca di una scusa per sentirmi allegro,
osservo i libri e sprigiono in una stanza
nascosta un desiderio intimo di pianto.

Se va male, troppo male, tendo a masturbarmi,
guardo un porno di scarsa qualità, cerco di capire
la felicità altrui nell’atto fisico e di riprodurla in me,
ma l’effetto è contrario. Già vado da una dottoressa,

mi piace come parla, quel che dice, non sa precisamente
chi sono, non glie lo dissi ancora, ma parlare con lei mi rilassa.
Eppure quando apro la porta di casa,
sarà per le differenze, sarà per i rumori,

forse per le imprecisioni dei miei passi,
o per l’ipotesi di deserto che mi accompagna,
che rimango così, in mezzo alla stanza e rido,
rido di mezzo a una sorta di isterica danza,

che mi si arranca sulle ginocchia, sulle anche,
si arrampica alla mia fronte e mi scuote
in una palestra di sensi negati, di volti distrutti,
di deserti impressi dentro me.

 

 

Ho trent’anni e sono qua,
in una casetta moltiplicata
in tornelli d’ingresso necessari
ad ogni aspetto: sedie, da comprare,
libreria, c’era già, affitto, da pagare,
inizio mese, e le spese come tornanti
si speculano vicendevoli e ritornano
indietro, dandoci una sensazione di limite,
di consumo. Non basta il balcone.

Ora sono qua, mezzo infinito.
E a volte, quando rincaso, mi prende
una franca solitudine. Ma questo sono io.

«Davvero?»

 

 

Primo tentativo

Un tentativo enorme che si digrigna
nel cielo e sfama i contadini, i poveri,
le puttane, i senza casa, le masse intere
che si assiepano a cercare un ordine
dentro le navate.

Questo ordine è una sorta di costume
che porterà alla disabilità intellettiva,
dicevano alcuni, ora che Dio è definitivamente
smagrito e non ci sono alternative
e si è urlato.

Vedo in quest’atmosfera stagliarsi una soluzione,
che è mista di casa e chiesa come il funzionario
ecclesiastico che mi va raccontando di come
la chiesa è nata, sai, un tempo non c’erano
chiese, lo sai vero?

E io che devo rispondergli, io so di una città
intera che ha dato i natali a Tu’, so
il potere dei fiumi, l’oasi sportello delle Poste,
so il tremore dei drogati che si fanno
nel parchetto di Rogoredo.

Anche il parroco conosce tutto ciò,
allora mi introduce, mi fa entrare in un cubicolo,
dove c’era una statuetta al centro, illuminata,
era un satiro che sporgeva lo sguardo
al cielo, lignea.

Gli chiedo con stupore che cose fosse.
Lui mi espose con dovizia di dettagli
la nascita del dio, il suo nome,
le sue fattezze, il suo odore, le sue
armonie disperate.

Quindi anche lei sa dell’Ozneistan,
delle lotte intestine, della divisione in tre
parti… e lui annuiva e mi diceva che
l’uno e trino deriva da lì, il vero credo
è una sorta di bugia.

Allora, uscito dal cubicolo gli chiesi
le ragioni di un caos così ordinato;
lui senza un fiato di più mi tirò uno schiaffo
e se ne andò con uno sbaffo della tunica
sbattendo la porta.

 

Victor Attilio Campagna (1989) è laureando in Medicina e Chirurgia nell’Università degli Studi di Milano. Vince il primo premio al concorso regionale “Marina Incerti”, dov’erano presenti in giuria i poeti Luigi Cannillo e Milo de Angelis; nel 2015 rientra nella terna dei finalisti nella sezione Opere Inedite del premio “Cetonaverde” con la raccolta Nel suo nome. Con quest’ultima opera esordisce nel 2019 con la casa editrice Ensemble. Collabora come redattore nella rivista «La Tigre di Carta», dove gestisce e cura la sezione Poesia, nonché la rubrica “Lo Spiantato”.

 


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