Maria Lenti, Elena, Ecuba e le altre. Prefazione di Alessandra Pigliaru, Arcipelago itaca 2019
Fammi essere Antigone, ti prego,
se ancora a questo gioco vuoi giocare.
Io raccolgo le spoglie abbandonate.
A te lascio i trofei da conciatore.
(Anna Maria Curci, 20 dicembre 2015)
Attraverso l’epica e il mito per una coscienza piena della storia, per una scelta alternativa alla sequela di violenze e sopraffazioni che pare ineluttabile e che come tale, nel corso dei tempi, è stata imposta. La riscrittura del mito come denuncia della menzogna e come costruzione di una convivenza pacifica ha avuto un’interprete che ha fatto scuola fin dagli anni Settanta del secolo scorso, Christa Wolf. A Cassandra e a Medea, alle voci loro conferite da Christa Wolf ha prestato attento ascolto Maria Lenti negli anni e, recentemente, con la sua raccolta Elena, Ecuba e le altre.
Ma dietro Christa Wolf ci sono altre autrici, altri autori, appassionatamente letti e ‘curati’: senza ombra di dubbio Karoline von Günderrode – penso al componimento Arianna a Nasso – la cui riscoperta ha preso l’avvio proprio da Christa Wolf, che ne curò l’antologia delle opere, Einstens lebt ich süßes Leben (tradotta in italiano con il titolo L’ombra di un sogno), e la pose al centro del racconto Nessun luogo. Da nessuna parte, insieme all’altro protagonista Heinrich von Kleist.
Lo stesso Kleist di Pentesilea, così come Goethe di Ifigenia in Tauride sono autori, come ha ben messo in evidenza Ruth Klüger in Frauen lesen anders (“Le donne leggono diversamente”), che hanno saputo dare espressione alla parte del pensiero umano che coltiva la pazienza e, soprattutto, il noi. Questo passaggio dall’io al noi, così limpidamente auspicato da Maxie Wander nelle pagine del suo diario, viene sottolineato, proprio a proposito della ‘scelta di metodo’ di Christa Wolf, dalla studiosa italiana Rita Calabrese, in un passaggio del suo libro Sconfinare. Percorsi femminili nella letteratura tedesca (Luciana Tufani Editrice, 2013): «L’IO va assumendo connotazioni femminili, mentre il NOI comincerà ad abbracciare le donne dell’una e dell’altra parte, nella comune oppressione patriarcale e nella stessa costruzione d’identità.»
La riscrittura di Christa Wolf colpisce per l’originalità degli accenti, per l’incisività del dettato, per l’acume nella lettura del presente: «A Corinto non ho mai sentito nessuno parlarne, ma un’osservazione accidentale di Acamante una notte mi ha fatto capire improvvisamente quel che Medea fa per lui, senza minimamente saperlo: gli dà la possibilità di dimostrarsi che può essere giusto, privo di pregiudizi e persino amichevole con una barbara. Assurdamente questo modo di essere è venuto di moda a corte, ma non tra il popolo basso, che estrinseca il suo odio per i barbari senza rimorsi e senza riserve» (Christa Wolf, Medea. Voci, trad. di Anita Raja, edizioni e/o, Roma 1996, 83-84).
Tutto questo si può dire a ragion veduta della scrittura di Maria Lenti in questa raccolta, ricchissima di echi e soluzioni e capovolgimenti. Sì, perché se la pazienza porta il discernimento, qui ci troviamo dinanzi a un repertorio molto ampio e poeticamente efficace di puntuali rettifiche rispetto a tradizioni e dicerie. Non è un caso se, nella bella prefazione, Alessandra Pigliaru riprende il filo di quel “discorrere del noi” che Rita Calabrese aveva individuato per Christa Wolf: «Si ritorna allo sguardo, alla fatica – impareggiabile di guadagni – nel sentirsi prossime. Le une alle altre. Dando avvio, che è sempre un proseguire, al percorso che si produce cominciando con una paroletta che è “io” e che ha tuttavia il senso di un agire. […] Queste sono Elena, Ecuba e le altre: fili perduti e ostinati di una storia a venire.». Un altro sguardo, allora, dal margine alla pienezza, è quello che nutre la poesia di Maria Lenti.
In componimenti per lo più brevi, se non, addirittura, brevissimi, limitati a tre versi o, come avviene per il testo che chiude la raccolta, Ebe agli dei, a un solo distico, o perfino a un solo verso (Teti a Efesto) tutto un ‘patrimonio’ (è proprio il caso di dirlo) raccolto da fonti diverse (Omero, Euripide, Virgilio, Ovidio, Igino, Dante, Boccaccio, per citare alcuni degli autori collegati alle fonti), viene accolto, elaborato e riscritto, rettificato, mentre gli scopi che hanno per secoli animato la versione tradizionale del mito vengono fatti oggetto di riflessioni illuminanti. Rettifiche, rivelazioni e rovesciamenti delle menzogne attestate nelle versioni correnti dei miti, dettate dalla «legge degli stolti», avvengono per lo più come “controrepliche” di donne a uomini: «Miri in tralice Ino? Prenditela./ Non addossarmi il peso/ di un disprezzo/ che non mi tocca né provo./ L’amore può sparire e in te è sparito./ Sii sincero e non di spalle,/ senza mentire» (Nefele ad Atamante); «La donna bottino di guerra:/ legge degli stolti in guerra/ dalla tenda di Agamennone invasore./ Molti uomini non sanno, costui con loro,/ la differenza/ tra il cedere per non morire/ e morire cedendo/ solo l’involucro non la sostanza» (Criseide a Crise).
Nella rielaborazione del mito che ci viene da Elena, Ecuba e le altre, troviamo, accanto a queste “controrepliche”, messaggi ai posteri. Tra questi, mi appare centrale quello di colei che la tradizione ha fatto passare per una zia crudele e che invece, nella poesia Dirce ai contemporanei, ci parla così: «…dunque, avrei tenuto Antiope/ schiava di Lico a Tebe./ Motivo?/ Qualcuna era da slegare/ un’altra da sfracellare/ Anfione e Zeto da incoronare eroi./ Libri e miti danno valore all’uomo:/ già molte sorelle l’hanno scritto.//Salva, levo di dosso la tradizione.»
© Anna Maria Curci
Ifigenia ad Agamennone
Ferma il braccio già curvato.
Quale dio ti ha imposto
il sacrificio?
Intuisci i miei pensieri,
scava nel mio desiderio
spoglio da ogni devozione.
Osserva: mi sto muovendo
a rincorrere mare aperto e nuvole.
Teti a Efesto
Sono qui a disdirti le armi del figlio Achille.
Manto si dichiara
Io, Manto,
ho rispettato Tiresia, mio padre,
mia madre, bianco bagliore, non l’ho conosciuta.
Ho seguito Apollo di mio genio
ho fondato Claro
sposato Rachio
generato Mopso.
Mia la vita mia.
Pentesilea ai posteri
Tra me e Achille
non è stato amore della morte.
Io non l’ho azzannato
lui non mi ha stuprata.
è andata così tra noi:
punte adamantine, mai spine,
incessante piacere a sfinimento
—————grande passione.
Lieve la fine