Ventidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con Il Diavolo, carta della crisi.
(ma sempre sarà tua.)
In un tempo non troppo lontano di un luogo lontanissimo della foresta tropicale, viveva una pantera più nera della notte. Era lei che la foresta chiamava quando le nuvole andavano in secca e le rocce crepavano attorno al fiume, perché la sua mente era lucida come il suo corto mantello, e allora posava la larga zampa sulla riva e giudicava chi e per quanto tempo aveva diritto ad abbeverarsi. Era sempre lei che stabiliva a chi apparteneva una preda lasciata indietro dai cacciatori troppo sazi, o chi dovesse crescere cuccioli rimasti orfani dopo un combattimento. Tutti si fidavano del suo giudizio, perché era ferma e gentile.
Una notte, la pantera decise di lasciare i sentieri battuti della sua foresta per andare alla città bianca degli uomini, che da secoli era in rovina e che solo un tempo era stata bianca, perché adesso riposava sotto il verde compatto della vegetazione.
Nella foresta tropicale la luna sa essere di latte, ma quella notte c’era luna nuova e la pantera non vide, seguendo le mura diroccate della città, il baratro che si apriva sotto il tappeto di liane e che la fagocitò alla minima pressione delle zampe. Non ebbe scampo, la pantera, e volò per metri prima di cadere in piedi nel fondo asciutto di un pozzo.
Scrollata la polvere, abituati gli occhi a un nero fondo che a stento le faceva intravedere le giunzioni tra le pietre della parete circolare, per prima cosa la pantera chiese aiuto lanciando un vasto ruggito di richiamo.
«Voi dite di me che sono ferma e gentile», disse. «Allora aiutatemi. Sono nel fondo di un pozzo, e non vedo l’uscita. Aiutatemi a tornare alla mia foresta, fuori di qui.» Decine di animali accorsero, ma non tutti avevano il coraggio di dire la loro sulla grave sventura che aveva colto la pantera. Alcuni non le erano abbastanza amici, altri temevano di dire la cosa sbagliata, altri ancora non avevano semplicemente nulla di abbastanza saggio o abbastanza potente da suggerire.
Il grosso giaguaro si sporse allora sull’orlo di quel baratro nero, più nero della stessa pantera, e le disse:
«Tu sei forte. Sei forte quanto me, quante volte l’hai dimostrato tirando unghiate al puma che disturba le nostre cacce. Quante volte i tuoi salti sono stati più alti dei miei salti, le tue corse più furiose delle mie corse. Ricordati la tua forza, la potenza dei tuoi muscoli, e aggredisci le pareti del pozzo che ti richiude. Risali con i tuoi colpi di scapola. Dimostra la tua forza, avanti.»
Già mentre il giaguaro parlava, la pantera artigliava le pareti del pozzo, e le rocce si incastravano negli uncini delle sue unghie, fino a romperle la carne a sangue. La pantera provava, provava, ma a stento riusciva a risalire con le zampe posteriori prima di crollare con la schiena a terra, i trucioli di roccia ancora infilati sottopelle a darle più dolore dello schianto, e l’umiliazione che le risaliva gli occhi come un paio di grosse lacrime.
Il giaguaro non poteva vederla perché tutto era buio, ma ascoltava i colpi della sua schiena e i rantoli di dolore, e i brevi, nervosi soffi della sua frustrazione, così decise di non ascoltare oltre e se ne andò. La pantera si accoccolò in un angolo del pozzo, leccandosi le zampe.
Il grosso pitone si sporse allora sull’orlo di quel baratro nero, più nero della stessa pantera, e le disse:
«Tu sei astuta. Sei astuta quanto me, quante volte l’hai dimostrato facendo le poste a quei grossi armadilli perché lasciassero scoperta una fessura nelle loro corazze. Quante volte non mi sono svegliato dal mio sonno al tuo passaggio tanto erano silenziose le tue zampe, quante volte ho fermato a metà lo slancio della testa per catturare un formichiere perché già tu guizzavi via da un cespuglio per farne la tua preda. Ricordati la tua astuzia, la vispezza del tuo cervello, e cerca un buco nel pozzo che ti richiude. Percorri un passaggio con il tuo corpo di velluto. Dimostra la tua astuzia, avanti.»
Già mentre il pitone parlava, la pantera annusava le pareti del pozzo alla ricerca di un passaggio. Cercava odore d’acqua, di muschio, di aria fresca che venisse da un luogo che non fosse la superficie che i suoi occhi a stento guardavano quando li sollevava verso il cielo. E quanto incontrava un punto della parete più fresco, provava a scrollarlo via a zampate, o a colpi di testa, e la parete un po’ franava ma nulla che non fosse solo sporcarle il muso di pietrisco e sabbia, finché la pantera, in preda all’esasperazione, lanciò un potente e miagolante ruggito verso il cielo.
Il pitone non poteva vederla perché tutto era buio, ma aveva ascoltato il ruggito. Chiuse la testa nelle spire e se ne andò. La pantera si accoccolò di nuovo in un angolo del pozzo, il muso nelle zampe.
La grossa scimmia ragno si sporse allora sull’orlo di quel baratro nero, più nero della stessa pantera, e le disse:
«Tu sei coraggiosa. Sei coraggiosa quanto me, quante volte l’hai dimostrato inseguendo l’orso dagli occhiali. Quante volte mi hai impedito di prendere più acqua di quanta me ne spettasse nonostante tu conoscessi le mie rabbie, quante volte mi hai impedito di rubare una preda. E ora ti sento lamentarti, soffiare e piangere di disperazione. A cosa serve avere paura? Sii sprezzante. Avanti, sii sprezzante quanto me.»
E la scimmia ragno si mise a ballare sull’orlo del pozzo, bilanciando i piccoli passi laterali con un movimento fluttuante delle braccia.
«Avanti, balla», le diceva.
La pantera la osservò a lungo, e le sembrò di non aver mai provato una tristezza più profonda. Aveva paura, ed era triste perché l’aveva, e perché nessuno la poteva capire. In fondo alla sua gola c’era un miagolio, ma non poteva esprimerlo. Guardò la scimmia ballare, e poi stancarsi, guardò la scimmia scuotere la testa e poi andare via, lasciandola da sola nel fondo del suo pozzo.
Dopo molti minuti, il piccolo topo prese coraggio e si avvicinò all’orlo di quel baratro nero, più nero della stessa pantera, e le disse:
«C’è luna nuova, stasera.»
Poi stette un po’ in silenzio. La pantera non rispose.
Dopo altri minuti, il topo continuò:
«Le formiche del grande tronco caduto hanno cambiato regina, stanotte, e pare ci sia qualche discussione nella nuova famiglia dei cracatoa del fiume. Ed è morto il grosso caimano, quello che da qualche giorno aveva smesso di cacciare i pesciolini.»
«Perché mi dici questo?»
«Perché credo che tu ti annoi, amica mia. Scenderei volentieri a farti compagnia, ma trovo sia inutile stare in due nello stesso baratro quando c’è tanto da raccontarti di quello che accade qui fuori. Sono sceso un paio di volte anch’io, in quel pozzo, sai, e so che c’è una piccola strada che le tue zampe sapranno percorrere per risalire. Bisogna solo aspettare l’alba perché sia visibile. Finché si farà tempo, cosa preferisci che ti racconti, amica mia?»
«Che ne è del favo delle api?», chiese allora timidamente la pantera.
Il topo le raccontò che dopo la baruffa del tramonto le api erano tornate, come ogni sera, a dormire. Disse del vento di pioggia che si era levato verso le prime ore della notte, e di come si era interrotto senza che piovesse. Descrisse la stellata del cielo lucido e il salto che la rana aveva sbagliato nel fiume, lisciando la pietra e capitombolando con un gracidio imbarazzato. Descrisse il sonno del puma, e la dolcezza con cui la femmina lavava i cuccioli tanto piccoli da avere il respiro ostruito e gli occhi chiusi.
La pantera ascoltava, senza dimenticare la sua ferita e senza poter mettere a tacere la sua paura, ma provando tra la pelle e il mantello di velluto il sapore caldo di una sorta di sollievo.
Quando venne l’alba, perché l’alba non può che venire, la pista per risalire il pozzo fu chiara. Non avrebbe potuto vederla, prima. Non poteva che risalirla, adesso.
© Giovanna Amato (dicembre 2018)