Ventidue carte, ventidue racconti. Per ventidue settimane pescheremo insieme qualcosa di diverso per tema, lunghezza e stile, ascoltando solo le carte. Buona lettura con La Giustizia, carta delle conseguenze.
Erano le due del pomeriggio, eravamo tutti usciti in cortile perché la mensa non era ancora attiva e avevamo la libertà di mangiare in classe i nostri piatti di pasta chiusi nei tupperware o di occupare le scale dell’ingresso e sciamare fino al campetto di pallavolo, l’importante era che alle due e mezza tornassimo tutti dentro per le lezioni pomeridiane.
Mamma mi aveva fatto le penne con i pomodori freschi, lo sapeva che io detesto i pomodori, fino ai sedici anni non mangiavo ortaggi né verdure e ai tempi che vi racconto ne avevo undici appena, ma sperava di affamarmi visto che ero fuori di casa e senza soldi e non avrei potuto procurarmi niente di alternativo. Ignorava che un modo c’era, e per me era facile e abituale: impadronirmi del pranzo di qualcun altro, una pasta al tonno, un semplice panino con il prosciutto. Non necessariamente con uno scambio equo: anche semplicemente soffiandoglielo di mano al primo morso.
Ho fatto così, con Riccardo e con la sua pasta al pesto.
Lui è andato subito sul pesante: strattoni, spintoni, prima ancora delle preghiere. Rivoleva il suo tupperware che io gli facevo sgusciare dalle dita, mangiavo con la forchettina di plastica tenendogli le spalle e infilandomi in gola sette, otto trofie per volta, finché la plastica non è stata tutta pulita, anche dall’olio. Allora gli ho detto che poteva mangiarsi la mia pasta al pomodoro, ma lui a quel punto piangeva. E ha detto: tua sorella è una puttana.
Non mi sono scomposto un gran che, anche perché a quel tempo lo pensavo anch’io, ma ho pensato giusto controbattere.
«La puttana è tua madre.»
A quel punto Riccardo non si è più tenuto. Ha iniziato a piangere a singhiozzi, le mani davanti alla faccia. Non sapevo che fare. Mi sembrava esagerato che i suoi nervi crollassero a quel modo. Poi Riccardo si è messo a urlare che ero uno stronzo, perché sua madre era morta, e mi è dispiaciuto tantissimo, così tanto che le trofie mi sono risalite in gola.
A quel punto è passata la professoressa, che si stava rollando una sigaretta in barba al fatto che non deve darci il cattivo esempio neanche in cortile. Si è fermata, leccando la cartina, e ci ha detto:
«Che succede qua?»
Riccardo si è messo a urlare nel pianto, un vero attacco isterico, e ha detto:
«Ha detto che mia madre è una puttana, e mia madre è morta.»
«E la cosa ti dispiace da che punto di vista?», ha risposto la professoressa.
Sia io che Riccardo, devo ammettere, siamo rimasti un secondo in silenzio.
«Nel senso», ha detto lei. «Tua madre è morta e immagino che con la cosa uno non è che ci faccia molto pace. Quindi non te l’ha propriamente ricordato Riccardo. Riccardo ha solo detto che è una puttana. La cosa è vera? Lasciamo stare sulle eventuali conseguenze che la cosa sia vera. Pensi che tua madre, dovunque sia, con tutto quello che ha da fare per proteggere te e i tuoi eventuali fratelli, se ne freghi qualcosa del fatto che un ragazzino di undici anni che neanche conosce le abbia dato della puttana? A proposito, perché hai dato della puttana alla madre di Riccardo?»
«Perché gli ho rubato le trofie al pesto», ho risposto io automaticamente, ancora preda del filo del discorso e temendo subito di aver peggiorato la mia situazione.
«E la pasta al pomodoro che hai in mano?», ha detto lei.
Io ho fatto spallucce.
«Riccardo, mangiati la pasta al pomodoro del tuo compagno. La prossima volta che ti ruba le trofie al pesto, reagisci di più. La prossima volta che dà della puttana a tua madre che, mi dispiace molto, non sapevo fosse morta, reagisci di meno. Tu» ha poi detto a me che credevo di averla scampata «facciamo i conti domani, per l’abitudine di dare della puttana ai vivi e ai morti. Ora ho da fare.»
Riccardo ha smesso di piangere e ha mangiato la pasta al pomodoro. Da quel giorno, e sono passati vent’anni, ho come la sensazione che la professoressa si fosse rivolta a me più che a Riccardo, perché ogni volta che mi chiamano “negro di merda” parto sì con le denunce per odio razziale ma sono immensamente in pace con me stesso.
© Giovanna Amato