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Emilia Barbato, Il rigo tra i rami di sambuco (rec. di C. Tosetti)

Coraggio non è l’assenza di paura, dice Osho, in realtà è la “totale” presenza della paura, con il coraggio di affrontarla.
Osho, Il coraggio, Edizioni Riza, 2003

Nella postfazione di Ivan Fedeli al libro Il rigo tra i rami del sambuco (Edizioni Pietre Vive, 2018), di Emilia Barbato, leggiamo: «Dicono che il sambuco nasconda in sé l’energia primordiale di una trinità mistica che ingloba alcune delle forze vitali della natura: la verginità, nel candore dei fiori, la maternità, nello splendore verde delle foglie, la morte, nella tinta cupa delle bacche. | Questa forza archetipica e, nel contempo, naturale e ambivalente, anima l’ultima produzione di Emila Barbato, Il rigo tra i rami del sambuco.»
La stessa autrice, nella poesia a pag. 12 (le poesie non hanno titolo), cita la trina simbologia della pianta:

Il sambuco stormisce
con una voce dimenticata
di campagna un oscillare
di foglie lieve per l’oscura
la rigogliosa e la vergine,
qualcuno strilla parole remote
di una bellezza senza fiducia.
La terra brucia
e genera e si accuccia,
un piccolo animale che scava
che ti somiglia,
una tazza che si sbreccia.

Mi permetto di aggiungere altre proprietà del sambuco, queste apprese direttamente, dialogando con un vecchio montanaro, conoscitore del bosco: leggerezza e resistenza.
Il sambuco più vecchio, che porta rami consistenti e dal legno che negli anni rimane leggerissimo, viene ancora utilizzato per ricavare i manici di vanga e badile, utensili la cui impugnatura – una leva – è soggetta a fortissime tensioni e sollecitazioni.
Il sambuco, allora, è simbolo e incarnazione della resistenza, del coraggio e del suo aspetto paradossale: l’apparente passività.
La raccolta di Emilia Barbato (che ha vinto il primo premio al concorso Luce a Sud Est – concorso di scrittura sociale, organizzato da Pietre Vive Editore e dall’Associazione Culturale “Il tre ruote ebbro”) è passivamente contrassegnata dal coraggio e questa atmosfera spero giustifichi lo stralcio posto a introduzione di questo articolo, tratto da un libro di Osho.
Vedo passività, perché nel pieno rispetto del mistero dell’arte – che cristallizza le emozioni del momento – il coraggio non è esplicitamente citato, né si leggono inni alla virtù che tanto dovrebbe “gonfiare e alimentare” le nostre esistenze. È un coraggio che si intuisce, nella macabra danza della paura e della malattia.
Si legge di coraggio, un accenno, in un paio di poesie; il coraggio è del malato (mai dell’autore), come nella poesia a pag. 19:

Se il poco di me che rimane
libero dai piccoli ingaggi quotidiani
si raccoglie in un corpo sfinito
la sera, ciò che mi insegna la forza
il giorno dopo è la caparbietà delle tue mani,
la fierezza con cui orienti la figura magra, ti tengo
così negli occhi, con la stessa maestosità dei cipressi
nel rigore tremendo del mese di febbraio.

Da notare che la maestosità dei cipressi, caratteristica indiscutibile, data dal loro portamento, è comunque tinteggiata di dramma, di morte, quale – anche in questo caso – la simbologia dell’albero suggerisce.
Eppure, tornando al coraggio, esso è la forza motrice di questa raccolta. Lo si annusa, lo si percepisce, lo si legge dietro alle righe, si comprende che una forza misteriosa e folle (folle quanto la fede) spinge il poeta avanti, lungo il percorso di dolore, poeta che ne è partecipe e osservatore, e che viene chiamato a scriverne dallo stesso impulso descritto a introduzione di grandi poemi epici.
Questa raccolta, però, è densa e breve (ciò obbliga a non rivelare molte poesie); questo è un altro fattore che la rende un lavoro solido e riuscito, perché il tema è il dolore, la malattia che trasuda dalla terra dei fuochi e impregna i corpi, iniettando in essi i venefici vapori della morte.
Perciò la raccolta è densa, per via dei contenuti, che tuttavia sono ben temperati dalla brevità della raccolta; una scelta (che sia voluta o meno) fondamentale.
La malattia ha colpito la madre dell’autrice, assieme a tanti altri.
Corpi scarnificati, relitti li definisce Emilia, uomini e donne fotografati durante il drammatico passaggio ospedaliero, dagli esiti sempre incerti.
Ci introduce al calvario la prima poesia, a pag. 9:

Minutissimi relitti alla deriva,
le teste canute nel sonno
inclinate su un lato,
naufragano qualche parola.
Si distingue una litania,
resta sospesa nella sua imperfezione
eppure propaga il senso e il suono che tuona
nell’aria immobile della stanza.
– Gesù Giuseppe e Maria
vi dono il cuore e l’anima mia –

Smozzichi di preghiere appena fiatate, la disperazione dei semplici (questa è l’immagine esalata dai versi) caduti nell’abisso della disgrazia e, nel quadro dipinto da Emilia, che tanto evoca i ritratti dei morenti che l’arte ci ha lasciato (siano essi quadri o dagherrotipi), questi morenti impiegano la poca vita rimasta nell’abbozzare suppliche.
“I semplici”, così da me definiti, non è definizione che ha intento svilente, ma vuole significare sia la specificità dell’umanità erosa dalla terra dei fuochi, sia quella descritta dalla Barbato, che, nel percorrere il mesto (e in alcuni casi, ultimo) cammino, si depersonalizza allineandosi nella prostrazione della malattia e delle pesanti terapie. 
A celare il coraggio, formando lo strato esterno delle poesie è la paura (e ancora sottolineo l’aderenza al pensiero in introduzione). Pag. 18:

Per ogni scarica di radiazioni che ti brucia
una stella rossa intermittente allarma me
e la porta, galleggio nelle preghiere mentre
la paura morde ogni mia regione.
Tremo finché minuta e pudica
in un sorriso mi offri un appiglio,
una mano per due esistenze, l’altra
sull’addome per l’evidenza muta.

Ancora, a pag 25:

Come gli anni
affollano i nostri
corpi consegnandoli
all’imprecisione dei gesti
così le edere imbruniscono
sulle mura in rovina.
Avanza l’autunno, stagione
della tua malattia.

Il libro è corredato in copertina e all’interno dalle illustrazioni di Nadiya Yamnych; sono immagini scarne, essenziali, le quali, con dirompente levità (pochi ed espliciti tratti) si fondono perfettamente coi testi.
Il libro si presenta di ottima fattura, nel rispetto della qualità di progettazione e stampa alla quale ci ha abituati la casa editrice.
Per ammissione della stessa autrice, il libro è rimasto a lungo dormiente in un cassetto, ragion per cui non posso collocarlo in ordine cronologico di stesura, rispetto ai precedenti lavori, tuttavia, con questo libro, Emilia Barbato ci mostra una maturazione nel verseggiare, rispetto al precedente Capogatto.
Vi è infatti maggior coerenza fra i testi e la suddivisione in tre sezioni (CA 19-9, 964, Oxaplatino 5-FU, il cui significato è illustrato a pag. 44, nelle Indicazioni Terminali) è puramente tematica.
Sposando idealmente il coraggio di Emilia (tanto ricorda l’aleggiante provvidenza manzoniana, i cui “protetti” fanno della resistenza il richiamo della mano divina e invisibile), seppur forse illecitamente, rivelo che la madre dell’autrice ha superato la malattia e concludo l’articolo con la poesia a pag. 33, che a mio avviso contiene una descrizione dell’essenza di Emilia Barbato (l’equilibrio fragilissimo delle vette e lo sgomento dei precipizi oscuri) invitandovi caldamente alla lettura di questo ottimo libro di poesia, che ci consegna – definitivamente – una poetessa ormai cresciuta, sicura nella sua fragilità e nella sua potenza.

Riflesso trovi un biglietto
del tram, la tazza blu delle tisane, un modo
di passare della luce che crea opalescenze,
un numero infinito di oggetti, la tua collezione
privatissima
di reliquie, sul viso hai l’equilibrio
fragilissimo delle vette
e lo sgomento dei precipizi oscuri.

 

© Carlo Tosetti

 

Emilia Barbato, Il rigo tra i rami del sambuco, Pietre Vive Editore 2018

 

Emilia Barbato è nata a Napoli nel 1971 e vive a Milano.
Suoi testi sono apparsi in diverse antologie e sull’Aperiodico ad Apparizione Aleatoria delle Edizioni del Foglio Clandestino. Ha inoltre pubblicato: Geografie di un Orlo (CSA, 2011), Memoriali Bianchi (Smasher, 2014) e Capogatto (Puntoacapo, 2016).

 

Una replica a “Emilia Barbato, Il rigo tra i rami di sambuco (rec. di C. Tosetti)”


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