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ProSabato: Giovanna Amato, Sciarpa rossa e azzurra

Nube stellare del Sagittario, da wikipedia.it

Dovresti avere da qualche parte una sciarpa rossa e azzurra, il rosso lo ricordo di sicuro perché si intonava con il tuo giaccone e l’azzurro perché mi aveva fatto pensare a quei vecchi fazzoletti con cui giocavamo da piccoli al gioco della bandiera, giù in centrale. Oppure forse era a grossi quadri e c’era del giallo, o il giallo lo percorreva solo come una continua finitura, non ricordo bene e non voglio complicare perché tutto quello che ti riguarda è limpido, perfino una sciarpa troppo colorata in qualche modo si risolve se è portata da te. Insomma, ho il ricordo esatto della tua sciarpa rossa e azzurra, che chiamerò rossa e azzurra per comodità, e di quella volta che eri seduta al tuo posto e la tenevi sulle gambe mentre alzavi la mano per richiamare l’attenzione. Ricordo di come gesticolavi, parlando. Ci mostravi i palmi e spiegavi punto per punto il tuo parere su tutta la faccenda. Deve essere stato il tuo gesticolare che li ha convinti, non erano le mani di una persona incerta ma di qualcuno che spiega morbidamente (anche la tua voce è morbida) un pensiero ragionato a lungo.
Dovresti avere la sciarpa da qualche parte e spero tu la stia mettendo, perché non so che tempo faccia lì da voi ma ho sempre detestato quando avevi la tosse o arrivavi dicendo di avere mal di testa. Mi va bene anche se ne hai messa una di un altro colore, ovvio, anche se quella rossa e azzurra mi ispirava tenerezza. Anche quando l’hai fatta cadere alzandoti in piedi quando hai rischiato che non accogliessero la tua idea. Peccato non ricordare con precisione com’era distribuito il giallo.
Io mi annoio, ho poco da dirti. Ho finito tutto quello che avevo da leggere, la memoria di tutti i dispositivi ormai è sovraccarica di quello che avevo da scrivere e perfino adesso che ti sto parlando lo faccio solo a voce, steso nel letto e guardando fuori dalla mia vetrata. Perfino il paesaggio, una vista per cui qualsiasi umano potrebbe uccidere, ormai mi stanca. La cosa che faccio più spesso è sbattere una pallina di gomma contro il muro di fronte, cerco di farlo a ritmo e di farla tornare sempre nella mia mano. Le apparecchiature vanno avanti per conto loro e ancora nessun errore mi ha reso necessario, a volte mi chiedo se la mia presenza servirà soltanto a essere proprio io l’errore, l’errore umano che per nausea o disperazione ha manomesso il funzionamento del sistema. Ma non voglio spaventarti con queste cose, anche perché non succederanno mai.
Ti sei fidata di me, mi piace pensare questo quando ricordo il tuo corpo tutto teso a chiedere attenzione, la sciarpa posata sulle gambe. Non è per tutti, quello che io faccio, quello per cui mi hai proposto. Si può impazzire, degli anni su una stazione orbitale, si può davvero manomettere per nausea o per disperazione l’unico sistema che potrebbe dare un futuro alla specie cui appartieni. Ma tu hai fatto il mio nome senza pensarci su due volte, e mi piace pensare che ti sei fidata di me.
Vi guardo da questa vetrata e cerco di immaginare quale puntino di quale puntino di quale puntino puoi mai essere, e se porti una sciarpa rossa e azzurra. Sfioro il monitor che hai progettato, le tue mani così brave a gesticolare hanno disegnato perfino i bulloni e le viti e i più precisi percorsi dei cavi che sono in questo lungo cassone grigio. E mi piace pensare che io sorveglio l’unica speranza che hai di respirare, e i tuoi figli con te, e anche lui. E avevi ragione quel giorno, quando ti sei infervorata tanto che la sciarpa ti è caduta dalle gambe; avevi ragione a dire che non potevo capire fino in fondo perché non ne avevo, ma proprio non avere dei figli faceva di me la persona perfetta a passare il resto della vita su una stazione orbitale. Nessuno avrebbe potuto chiederlo a te. Per quanto esperta, a te no. So che avevi ragione. E credimi se ti dico che non avrei mai permesso che fossi tu a partire.
Quando eravamo piccoli, talmente piccoli da giocare con i fazzoletti azzurri così simili alle tue sciarpe, io già sapevo che saresti stata tu a salvarci. Qualsiasi disegno ti appartavi a progettare poteva contenere, per me che ti guardavo dall’altro lato della strada, il segreto futuro della nostra speranza. Ero troppo bambino per sospettare che potesse essere vero che saremmo stati destinati a pochi decenni di vita, che non avremmo visto diventare adulti i nostri figli; ma non era solo l’essere piccolo, era il fatto di guardare il tuo caschetto scuro chino su un foglio mentre noi giocavamo ad acchiapparello in centrale. A volte, mentre sbatto la mia palla di gomma contro il muro, cerco di tornare al momento esatto in cui la fiducia diventò innamoramento, e se tra le due cose ci fosse una connessione. Ma non riesco mai a tornare tanto indietro nel tempo o a mettere a fuoco un pensiero, un gesto, che mi permettano di capire.
Tutto quello che ti sto dicendo, l’ho sempre detto a voce. Te l’ho detto innumerevoli volte, ormai è un discorso imparato a memoria. Nessuno troverà mai niente che riguardi noi due nello spazio saturo di archiviazione che mi hanno riservato per scrivere prima che io partissi. Troveranno bozze di racconti, qualche poesia stupida, osservazioni dello spazio, specie ai primi tempi. Ma niente di noi due. Non voglio, se morirò quando tu sarai ancora viva o se per qualche ragione dovranno venirmi a prendere (ne esiste qualcuna?), che trovino nulla di te. Erano così scuri i tuoi occhi quando me l’hai presentato, così cauti e pieni di rimprovero anche se non avevo fatto niente. Non voglio vederli più diventare così opachi.
Hanno fatto bene a non darmi uno specchio e a non darmi nessuno strumento di calcolo del tempo. Anche se non so quanto varrebbe, da quassù, mi hai spiegato una volta che ci sono tante teorie in merito sul tempo e il suo modo di scorrere. Non ricordo nulla, sai, in fondo non c’è niente su cui io sia competente se non la distinzione tra il verde e il rosso se una lucina di allarme si dovesse illuminare. Però ti ringrazio di esserti fidata di me. Solo, mi domando quanti anni avrai adesso.
Non ce l’ho con te per non essere venuta a salutarmi, quando sono partito. Penso solo a come renderti fiera. Continuamente.
E accarezzo il cassone da cui dipende il tuo respiro, quello dei tuoi figli, e il suo.

© Giovanna Amato


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