A quel tempo ogni cosa
si spiegava con parole note.
Sillabe da contare sulle dita
scandivano il ritmo dell’invisibile.
Tutto era a portata di mano,
tutto comprensibile
e immediatamente dietro l’angolo
non si annidava ancora l’inganno.
La poesia era uno scrupolo
d’altri tempi, un muto richiamo
alla vera natura delle cose.
Così dissimulata da confondersi
con i palloni, con le bambole
dell’infanzia.
In quei tempi non c’erano disastri
da centellinare, difformità
da curare dentro abiti larghi,
padri da rifiutare e nomi
da pedinare in fondo agli stagni.
Finché non è arrivato il transito
a rivoltare le zolle su cui il passo
aveva indugiato, a rovesciare
il secchio dei giochi – richiamando
la poesia invisibile che mi circondava.
Non mi sono mai conosciuta
se non nel dolore bambino
di avvertirmi a un tratto
così divisa. Così tanto
parziale.
Quando nacqui mia madre
mi fece un dono antichissimo,
il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita.
Già dal primo vagito comprese
che il mio crescere sarebbe stato
un ribelle scollarsi dalla carne,
una lotta fratricida tra spirito
e pelle. Un annichilimento.
Così mi diede i suoi vestiti,
le sue scarpe, i suoi rossetti;
mi disse: «prendi, figlio mio,
diventa ciò che sei
se ciò che sei non sei potuto essere».
Divenni indovina, un’altra Tiresia.
Praticai l’arte della veggenza,
mi feci maga, strega, donna
e mi arresi al bisbiglio del corpo
– cedetti alla sua femminea seduzione.
Fu allora che mia madre
si perpetuò in me, mi rese
figlia cadetta del mio tempo,
in cui si può vivere bene a patto
che si vaghi in tondo, ciechi
– che si celi, proprio come Tiresia,
un mistero che non si può dire.
Una replica a “Giovanna Cristina Vivinetto: due poesie da “Dolore minimo” (Interlinea, 2018)”
sinceramente ho preferito il minor tasso di classicismo e leggiadria delle precedenti pubblicate qui, le 3+3, dove la cadenza malinconica era innesco e non fuoco un po’ stinto, un’assenza di onde che non disseta
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