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Vincenzo Mastropirro, Notturni

 

Vincenzo Mastropirro, Notturni, Terre Sommerse, Roma 2017

Musicista e poeta che si è distinto per le sue raccolte in dialettoVincenzo Mastropirro torna alla poesia in lingua italiana (ricordo Nudosceno, LietoColle 2007) in questa raccolta dal titolo programmatico, Notturni, che a sua volta si divide in quattro sezioni, Notturni, Notturni bisbigliati, Notturni urlati, Notturni masticati. Sono poesie che rimandano ad altrettante composizioni musicali, a “notturni”, appunto, di riflessione e meditazione sull’esistenza, sulle esistenze e sulle loro manifestazioni, a “notturni” di contemplazione, così come di constatazione. La parola poetica spicca il volo, coinvolge e convince là dove essa riesce a creare nuove armonie, là dove, per riprendere una poesia di Mastropirro di qualche anno fa, che considero un vero e proprio manifesto, «il fiato si accarna» e «ogni vibrazione diventa musica». Prende quota anche la “giusta collera”, l’urlo di chi è «livido di livore», lo sdegno dinanzi ai massacri perpetuati da umani su umani: ne è un esempio la poesia dedicata a Stefano Cucchi.
Il dialetto di Ruvo, quell’idioma refrattario a ogni forma di addomesticamento, e, come tale, avvertito come baluardo a qualsiasi finzione, per quanto allettante possa essere la finzione, a qualsivoglia «lingua infradiciata», torna tuttavia nella sezione conclusiva, in quei Notturni masticati nei quali le considerazioni della madre e sulla madre del poeta, rigorosamente e ‘necessariamente’ rese in ruvese (nel concetto di necessità si fondono i dati biografici e l’intenzionalità etica alla quale si è appena accennato), si approfondiscono e si ampliano per abbracciare i temi cari a Vincenzo Mastropirro: tempo e contro-tempo, tempo come cornice e limite delle vicende, contro-tempo come scontro e confronto con la morte.

© Anna Maria Curci

 

Quando un flauto suona melodie impensabili
il ritorno dello spirito è a portata di mano.
Lo vede anche un bambino che sa di musica pura
lo sente un vecchio che le ha cantate in un’altra vita
le ascolto anch’io che non so nulla di nulla
e abbraccio il suono per questo miracolo eterno.

 

Ri-annuso vecchie fotografie
e vedo l’ingiallimento della carta
nella camera oscura. Morta.
Acidi e colori disegnavano facce.
Lo sbiadimento tiene ancora. Ora
tutti inciampano nelle crepe dei volti
e nello spazio della memoria
si addensano finte apparenze.

 

La mia poesia è una puttana infelice
con la lingua di fuoco che rimargina ferite
col sangue raggrumato sotto la pelle ruvida
col suono sporco di terra che sprofonda nel volgo
unico luogo al mondo dove ulivi e mandorli in fiore
invadono gli abissi del vicino mare odoroso.

 

Il gioco dei potenti
è colmo di inquietudine.
Quando il mondo
scoppierà
sarai costretta a dirmi
t’amo.

Non sentirò.

La curva della mia spina
forerà il cemento
fino allo scontro frontale
prima del risveglio definitivo.

 

Cucchi si è suicidato
si è massacrato di botte fino a morire
ha colpito al punto giusto e si è gonfiato tutto.
Tutto il corpo si è gonfiato
livido di botte fino al massacro.
Anch’io sono livido di livore
rabbia, impotenza e Stefano non lo sa.

 

Mia madre, soffre il suono afono della vita
non percepisce più i linguaggi, non capisce
neanche me. Quando le cospargo l’unguento
il corpo tace, si avviluppa come un involtino e
cede al dolore che incalza nella testa. Non reagisce
al pensiero debole e sottostà alle ultime scaglie.
Riposa lentamente verso il nulla ma rammento
la forza e l’inquietudine d’un tempo, la voce chiara
e la fierezza del volto, la possanza ardimentosa.
La ricordo allora come ora e vedo i suoi occhi
che trovano i miei in cerca di rabbia bambina.

 

Mamme u sope
ca nan sacce fo
manghe la “o” cu becchire
ma sope piure
ca me fìérve u sanghe ‘ngudde
quanne agghja scrèive na poésèje
o na museche ca manghe sope cè so.

Mamme u sope
ma nan me dèisce nudde
e sènza sapaje né lèsce e né scrèive
tremìénde u munne e me lasse fo
pe’ vedaje fin-a cè punde
fin-a cè punde se pote
fin-a cè punde se pote godè.

Mamma lo sa/ che non so fare/ neanche la “o” col bicchiere/ ma sa pure/ che mi ribolle il sangue addosso/ quando devo scrivere una poesia/ o una musica, che non sa neanche cosa sono.// Mamma lo sa/ ma non mi dice niente/ e senza sapere né leggere e né scrivere/ guarda il mondo e mi lascia fare/ per vedere fino a che punto/ fino a che punto si può/ fino a che punto si può godere.

 

Numere nirue

Assaliute numere so viste
da iune a quarandacinghe
chiandote saupe a re fùosse.

Fùosse de numere nirue
cuvirte da tèrra nirue
addò tutte è nirue
da quanne onne note.

Assaliute la muorte onne acchiòte
quarandacinghe numere nirue.

Nirue ca galleggiaine inde a more
aneme ca se tenaine a mone a mone
ca s’onne viste chiandò nu zippe ‘mbacce
cu saupe scritte nu numere nirue.

Numeri neri. Solo numeri ho visto/ da uno a quarantacinque/ piantati sulle fosse.// Fosse di numeri neri/ coperti da terra nera/ dove tutto è nero/ da quando sono nati.// Solo la morte hanno trovato/ quarantacinque numeri neri.// Neri che galleggiavano nel mare/ anime che si tenevano per mano/ che si sono visti piantare un bastone in faccia/ con su scritto un numero nero.

 

 

Una replica a “Vincenzo Mastropirro, Notturni”


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