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Io e I Langolieri (una storia d’amore)

“Quattro dopo mezzanotte”, la raccolta da cui è tratto il racconto I Langolieri

Non mi ricordo più per quale follia, ma mi ritrovai a comprare un biglietto dell’autobus per il mio ritorno da Firenze, dove avevo tenuto una presentazione, per Roma. Un biglietto dell’autobus, non del treno. Questo voleva dire non percorrere il Tirreno, ma salire fino a Bologna e da lì riattraversare gli Appenini fino alla Capitale. Follia, per questo non riesco a ricordarne il motivo. Ricordo solo che chiesi all’agenzia di viaggio due cose: la garanzia di un bagno in autobus, e la certezza di potermi fermare a fumare almeno una volta.
Ringrazio il cielo per questa follia, perché mi ha permesso di finire I Langolieri in un’atmosfera di viaggio ininterrotta, senza mai un ritorno a casa, dai tavolini risicati di un bar attorno al giardino di Boboli lungo il tragitto pazzo di un autobus che da Firenze risale a Bologna e che mi vede, con buona pace dell’autista, con le ginocchia al petto e una merendina in bocca tutta presa, rapita e trasognata, tra le pagine di un libro di King.
E solo King poteva chiamare racconto e non romanzo una narrazione di più di duecento pagine, e solo King poteva fare racconto e non romanzo di duecento pagine e passa, ognuna di loro perfettamente aderente, mai divagazione ma sempre necessità, incollata al nucleo pulsante della costruzione come carta moschicida. Perché I Langolieri parla di dieci persone, dei loro passati e presenti e può darsi futuri, nella cabina asfittica di un aereo come nell’ambiente di un aeroporto deserto, e ci permette di avere con loro dieci la confidenza e la familiarità che si ha con un amico. I Langolieri parla, soprattutto, della nostalgia e del rimpianto e del tempo che ci scorre attraverso, e lo fa proprio guardando in faccia quel tempo e non permettendogli di essere né individuale né nostalgico, ma bestialmente pronto a divorarci non appena sentiamo di averlo trascorso, di averlo perduto.
Ecco quindi cosa ho letto prendendo possesso di un tavolino di un bar accanto al giardino di Boboli, o sedendomi comoda comoda al mio sedile di autobus che mi scarrozzava in giro per gli Appennini. Un’idea geniale, che non sfigurerebbe vicino alla più grande mitografia, talmente geniale da sembrare strano che nessuno l’avesse prodotta prima, accanto ai più grandi miti antichi, accanto all’immagine di Narciso nell’acqua, di Dafne che diventa pianta di alloro. Dieci persone che si scoprono sole su un aereo di linea: l’idea che non sia il mondo ad aver cambiato destinazione, ma loro stessi, e che loro stessi siano scivolati appena indietro nel tempo, quel tanto bastante da essere rimasti incastrati nel passato, e che presto degli esseri preposti a quello, alla cancellazione del passato già avvenuto, stiano arrivando a divorarli con le loro zampette e i loro denti acuminati, degli esseri con quel nome bellissimo, i Langolieri, divoratori di un mondo ormai spento nei suoi sapori e rumori.
E a questo punto, per i nostri personaggi la domanda, completamente al di fuori da filosofismi e prettamente tecnica (e forse proprio per questo ancora più densa di filosofia): in che direzione scappare dallo scorrere del tempo?
È davvero esistito un universo precedente a quest’idea?
È questo che mi sono chiesta per tutto il tempo, mentre leggevo a bocca spalancata il racconto (romanzo?) che King ha voluto come apertura alla sua celebre raccolta Quattro dopo mezzanotte, che non toccherà mai vette pari a questa. Probabilmente, nulla di King tranne Misery (qui) toccherà vette simili ai Langolieri, tenuto conto come io credo che Misery sia frutto di un momento quasi sovrannaturale, di un’ispirazione superna.
Ecco cosa ho pensato scesa dall’autobus. Che da quel momento parlare con chi avesse letto I Langolieri e chi non l’avesse letto (ancora) sarebbe stato come parlare con chi avesse visto la versione americana di The Ring e chi non l’avesse vista (ancora): parlare con chi si era lasciato scoraggiare dall’alone di paura e non aveva fatto (ancora) esperienza con qualcosa che è mitografia, grandezza narrativa, impronta lasciata nel nostro tempo di ascoltatori di storie, né più nemmeno di chi non aveva conosciuto (ancora) il mito di Narciso, Dafne che si trasforma in alloro. Questo, ho pensato. Poi ho acceso svariate sigarette.

Il sole spuntò di nuovo mezz’ora dopo e Brian sentì la propria sanità mentale vacillare e scivolare un po’ più vicino all’orlo del suo personale abisso. Il mondo sottostante non c’era più, era scomparso definitivamente. L’arco del cielo sovrastava un ciclopico oceano di ebano purissimo.
Il mondo era stato cancellato da sotto il volo 29.
Un pensiero analogo a quello di Bethany aveva attraversato anche la mente di Brian: se la situazione fosse degenerata, se si fosse arrivati al peggio, avrebbe potuto scegliere una montagna su cui andare a schiantarsi, facendola finita una volta per tutte. Ora però non c’erano più montagne.
Ora non c’era nemmeno un suolo su cui scendere in picchiata.
Che cosa sarà di noi se non ritroveremo lo strappo? si domandò. Che cosa succederà se resteremo senza carburante? E non venirmi a dire che ci schianteremo, perché non ci posso credere. Non ci si può schiantare nel nulla. Io credo che cominceremo a cadere… e cadere… ma per quando tempo? Fino a quando? Per quanto tempo si può cadere nel nulla?
Non pensarci.
Già, e come si faceva? Come ci si impediva di pensare al nulla?

© Giovanna Amato


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