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Trent’anni di Poesia (di Sara Vergari)

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È tempo che si sappia!
Trent’anni di Poesia

 

(…)
È tempo che si sappia!
È tempo che il sasso acconsenta a fiorire,
che l’ansia abbia un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

(Paul Celan, n.102, gennaio 1997; trad. di Gianni Bertocchini)

Solo con parole poetiche, con le più celebrative e intensamente piene di vita, è possibile omaggiare una rivista che all’apertura del nuovo anno compie trent’anni. È tempo che si sappia dunque, che «Poesia» di Crocetti editore arriva oggi ad un traguardo a cui pochi avrebbero creduto e anche a buon diritto, viste le difficoltà che un progetto simile incontra inevitabilmente nel suo percorso. È tempo che le fatiche di quei cuori battenti, primo fra tutti Nicola Crocetti, e la passione dei fedeli collaboratori e lettori fioriscano in un numero speciale, il 333, che ripercorre una storia di ricerca e proposta continua. «Poesia» è evidentemente un fenomeno editoriale anche in termini di cifre; da gennaio del 1988 la tiratura della rivista ha oscillato tra le 20.000 e le 50.000 copie offrendo oltre 36.000 poesie da 38 lingue diverse per un totale di 3.300 poeti spesso sconosciuti in Italia. Ma oggi possiamo permetterci di dire che il valore di «Poesia» non risiede davvero in questi numeri, seguendo quanto ha scritto Vivian Lamarque come augurio di compleanno.

Trent’anni di operazioni non in cifre,
in lettere.  Mai tornano i conti a Nicola
Crocetti, non lo amano i numeri.
Ma le lettere oh le lettere dell’alfabeto sì.
.  Lo inseguono come i topi il pifferaio
di Hamelin, come il mare Ulisse,
come gli invitati lo sposo e la
sposa, come le api i fiori,
come i poeti l’amore il dolore.

È tempo che sia il tempo della poesia, del potere giusto delle parole contro tutte quelle scagliate al vento in direzione sbagliata. È tempo di un gesto forse anacronistico, quello di comprare una rivista cartacea che offre esclusivamente poesia, che ci impegna a leggere, a sentire, a capire.
332 numeri sono difficili da contenere in qualsiasi discorso celebrativo ma sicuramente senza «Poesia» ci sarebbe in Italia meno poesia e più silenzio, mancherebbe cioè una voce che sappia dare con dignità un volto alle forme più imprescindibili del nostro essere uomini. Per capire quanto ha fatto e continuerà a fare basta scorrere le pagine di questo numero speciale di gennaio, dove al passare del tempo si affianca una passione letteraria che mai si è scissa dalla vita stessa. Parlare di «Poesia» significa chiamare in causa tutti quegli autori che hanno dato vita alle pagine della rivista, cercando in loro il significato stesso dell’esperienza lirica. Difficilmente potremmo trovare un angolo di mondo in cui, in questi trent’anni, la rivista abbia ignorato la voce di un poeta, creatura senza peso a cui è dato rubare anche le vergini agli dèi. Il poeta rompe gli argini, a lui è permesso vedere qualcosa che agli altri non è concesso, per riportare in parole una conoscenza irrazionale che pure aiuta a vivere. La poesia arriva da altezze sconosciute, è un istinto cieco, una mania nel senso platonico del termine.

Ci sono al mondo esseri superflui,
creature in più, aggiunte senza peso.
(Assenti dagli elenchi e dai prontuari,
inquilini dei pozzi più neri.)

Ci sono al mondo esseri cavi, esseri presi
a spinte, muti: letame
e chiodo per gli strascichi di seta.
Ripugnano anche al fango delle ruote.

Ci sono al mondo diafani, invisibili:
(screziati dal marchio della lebbra!)
Ci sono Giobbe che potrebbero invidiare
Giobbe… ma ai poeti, a noi poeti,

noi paria e pari a Dio –
è dato, straripando dalle rive,
rotti gli argini, rubare
anche le vergini agli dèi.

(Marina Cvetaeva, n. 78, novembre 1994; trad. di Serena Vitale)

Dialogano i poeti dentro le pagine della rivista, e dicono l’amore che fa nascere i versi, trasformano in miele le offese subite e tentano di spiegare il miracolo della poesia. Così per Borges arte poetica significa convertire l’oltraggio empio degli anni in una musica e per Fortini  dare un senso diverso all’identico.

(…)
Decifrare nel giorno o l’anno un simbolo
dei giorni dell’uomo e dei suoi anni,
convertire l’oltraggio empio degli anni
in una musica, un rumore e un simbolo,

dire sonno la morte, nel tramonto
vedere un triste oro, è poesia,
eterna e povera. La poesia
che torna come l’aurora e il tramonto
(…)

(Jorge Luis Borges, n. 133, novembre 1999; trad. di Francesco Tentori Montalto)

*

(…)
E io che scrivo
so ch’è un senso diverso
che può darsi all’identico
so che qui ferma dentro il verso resta
la parola che senti o leggi
e insieme vola via
dove tu non sei più, dove neppure
pensi di poter giungere, e cominciano
altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi
come hai visti viaggiando dagli aerei tremanti.
(…)

(Franco Fortini, n. 80, gennaio 1995)

La poesia è anche un interlocutore, la voce più intima che esprime un silenzio profondo, che pesa l’anima, come scrive Antonia Pozzi, e rende la vita una cerimonia pura, con le parole di Alejandra Pizarnik.

(…)
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi

(Antonia Pozzi, n. 316, giugno 2016)

*

Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.

(Alejandra Pizarnik, n. 165, ottobre 2002; trad. di Claudio Cinti)

Negli ultimi trent’anni, e ci auguriamo anche per i prossimi trenta, «Poesia» ha lasciato parlare con coraggio una voce che oggi, ma da sempre, fatica a farsi sentire, perché non vuole imporsi né farsi coscienza collettiva ma solo accogliere chi ne sente la necessità. Forse questa voce rappresenta una verità intima con tale semplicità da far spesso paura a un mondo che preferisce sfuggirla ma, nonostante questo, la poesia resiste grazie a chi ancora la fa e la diffonde.
Con la consapevolezza che «Poesia» esiste ed è un tentativo riuscito, non possiamo che porci le stesse domande di Fried.

Può una poesia
in un mondo
che forse affonda
per sua intima lacerazione
essere ancora semplice?

Può una poesia
in un mondo
che forse affonda
per sua intima lacerazione
essere altro che semplice?

Può un mondo
che forse affonda
per sua intima lacerazione
dare prescrizioni
a una poesia?

(Erich Fried, n. 306, luglio/agosto 2015; trad. di Gio Batta Bucciol)

 

© Sara Vergari

 


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