Giorgio Ghiotti, La città che ti abita, Empirìa, 2017
di Ilaria Grasso
Mentre in America esce il nuovo libro di George Saunders, Lincoln nel bardo, penso ai poeti e agli scrittori di casa nostra. Mi domando se si siano mai interrogati su questo stato della mente in cui la coscienza viene separata dal corpo e leggendo la raccolta di Giorgio Ghiotti, La città che ti abita, ho pensato molto al bardo come concept di lettura e di scrittura.
Nel bardo la mente acquisisce un corpo mentale simile a quello del sogno e ha il potere di raggiungere qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, senza alcun ostacolo. La vita nel bardo è fatta di sofferenze, sia per la non accettazione della propria morte, sia per l’attaccamento a se stessi, alla famiglia, agli amici, ai propri averi.
[…] cosa dovremo raccontare
di questi anni infiniti che a cento volti
insieme ci passano negli occhi, perché
più popolato del visibile è l’invisibile
o chi ne fa più parte, chi sta di là
o subito prima del filo
finché ci sarà chi tende le antenne […]
Questi appena riportati sono i versi che più di tutti mi fanno pensare al bardo; fanno parte della poesia che Ghiotti dedica a Biancamaria Frabotta, poeta, scrittrice, giornalista, e sua docente all’università, nonché prefatrice della raccolta. Ghiotti fa del distacco, dell’abbandono e persino della morte, materia viva ben consapevole del potere di rendere immortali che appartiene alla scrittura e letteratura in generale.Il mondo affettivo di Ghiotti si compone di persone, di scrittori e di poeti che il poeta rappresenta mettendoli tutti sullo stesso piano, dove “cuore” e “tempo” si «affrontano, si scontrano, prendono coscienza l’uno dell’altro», come afferma Deidier definendo l’autore della raccolta «un lettore dotto, prima che poeta e narratore», o ancora evidenziando come «il miglior Novecento si raccoglie dietro le sue parole e sarebbe poco utile provare a tirar giù dei nomi»:
Quando si mettono cuore e tempo in una stessa poesia, si muovono ampie tradizioni, e alla fine, tra i due, nessuno vince, perché non esiste che un «sentimento del tempo». Ma per Ghiotti questo non si identifica tanto nella «tragedia dell’infanzia» che pure Frabotta rievoca in apertura, quanto nel perdurare di un’adolescenza che brucia e brucia e brucia, come vuole il suo etimo (adolesco) portandoci verso nuove forme e nuove acquisizioni. E lasciando, nella cenere, la traccia di quel che siamo stati. Ha ragione Ghiotti: c’è un «lordo» e un «netto», nei nostri bilanci affettivi, un tempo pensato, qualcosa che si perde, e altro che si salva per sempre. [da «Ailanto», n. 49]
E così, una volta morta, la nonna Silvana, a cui Ghiotti dedica un’intera sezione della raccolta, si trasforma in una prestigiatrice nei versi del nipote poeta.
Prestigiatrice, senza farti vedere
dal pacchetto dietro il televisore
sfilavi come una spada dal fondo
la sigaretta, secondo passo
portarla alla bocca, terzo godere
di quell’odore di menta Pallini
e tabacco. “Una ogni due settimane”
dicevi “non può uccidere”.
Per l’amica Arianna immagina anche di “trattare con gli angeli” pur di riaverla con sé ma non per bisogno o volontà egoistica, bensì per salvarla per sempre perché quando si è bambini nulla può accadere, o se vogliamo anche quando desideriamo qualcuno. Perché quando desideriamo in modo puro, appunto con occhi bambini, non vogliamo certo che alla persona desiderata succeda qualcosa di brutto. Il tema dell’angelo è molto sentito da Giorgio Ghiotti che, assieme ad Angela Bubba, ha scritto Via degli angeli, raccontandoci «un pellegrinaggio dell’anima e una gita da ripetere ascoltando le voci e i ricordi di chi nei nostri massimi scrittori vedeva la semplice umanità di tutti i giorni» (Via degli Angeli, Bompiani). Gli angeli, tra l’altro, non solo non hanno sesso, ma neppure una appartenenza specifica a un mondo ben delineato. Ecco ancora l’idea del bardo.
Si trattava di trattare con gli angeli
per riavere indietro
due corpi ad altezza bambina,
portare tra le mani due corde
d’altalena e un po’ di sole tra le dita
che balena e abbandona e sveste
i passi di scarpe e i veste di luce .
Chi eri che gridavi a gran voce il mio nome
e i pini di villa Pamphili rispondevano
in coro che non è più domenica – torniamo
con la schiena alla corteccia a contare
in ordine inverso dal dieci allo zero
al punto d’inizio dove qualcosa
si è perso e qualcosa si è salvato per sempre.
O ancora nei versi che Ghiotti dedica a Giovanna Sicari, poetessa, scrittrice e critico letterario, morta nel dicembre del 2003. La chiama Giovanna come si rivolgesse a un’amica o una persona con la quale si ha familiarità o intimità. Per lui Giovanna è “Giovanna Sicari”, riconoscendole tutta la grandezza umana e artistica e per proteggere la donna, la poeta e il ricordo di lei che non c’è più.
Infatti si rivolge a lei con “ti ci porto io in via Poerio”, a Roma, l’unico spazio fisico in cui potrebbero davvero incontrarsi. La Sicari infatti ha abitato a Monteverde e la casa di Ghiotti è nella stessa zona. La porterebbe lì anche perché è lì che «inclina la luce dentro i rami sempre uguale/ e quelli a sbarrarle la strada di traverso, e noi/ a rintracciare il filo che conduce, a riportarlo/ là dove si è perso».
Credo fermamente che la poesia sia uno degli strumenti che abbiamo per trovare quell’armonia e quel bene che ci fa sentire a casa; dove ogni figlio è uguale e dove le differenze possano essere un valore in definitiva. Dove nessuno si sente mai solo e, non appena si inizia ad avvertire il senso di solitudine, ecco che puntuale arriva la poesia ad aprire porte e braccia.
Se per l’Amelia Rosselli di Variazioni Belliche il mondo è vedovo, per Ghiotti la città è “sola” («Com’è sola la città che ti abita/ nel petto come un cuore e un po’/ somiglia, pensi, alla tua giovinezza/ che pure è passata di qui»).
Si spezza allora il senso, esplode il flusso dell’io lirico come rapito da qualcosa di ingovernabile di fronte ai “muri che cambiano colore” o al “grigio nemico”. Ingovernabile, ma anche ineluttabile, come le cose che cambiano, che non sono più com’erano. Non mi sento di parlare di nostalgia nel senso classico, per i versi di Giorgio Ghiotti, ma di rievocazione delle sensazioni “giovanili”, attraverso lo strumento del ricordo, che serve a dare al cuore quel movimento in grado di dare energia, spinta, entusiasmo. Il meccanismo utilizzato si avvicina molto a quello della dinamo delle biciclette il cui fine ultimo è quello di dare luce, l’elemento predominante di cui è fatto l’autore e la sua narrazione sia in versi che in prosa.
Ma le atmosfere cantate da Ghiotti non sono legate esclusivamente al passato, come potrebbe sembrare a chi ha affrettato un po’ troppo la lettura. Ghiotti legge e rilegge il passato, continuamente senza mai stancarsi cogliendo appieno tutto il senso di incompiutezza di cui siamo impregnati come esseri umani. La questione è estremamente moderna e riguarda di sicuro i nostri giorni. Rappresenta infatti il punto di partenza di molti artisti, alcuni anche di avanguardia.
Appartiene, per esempio, al Collettivo Interavista che nel progetto “Incompiuto Siciliano” fa una narrazione del fenomeno delle opere pubbliche incompiute in Italia. Dico narrazione anche perché è in uscita un libro grazie a una campagna di crowfunding durata un mese e mezzo che ha avuto come obiettivo quello di documentare le opere incompiute e incontrare le realtà che sul territorio lavorano su questo tema. Il fenomeno di cui parlano ha la portata di oltre 750 opere di cui solo 350 siciliane sul quale è stato fatto grosso lavoro di ricerca, mappatura e studio arrivando alla definizione di un nuovo stile architettonico che si pregia anche fotografie di Gabriele Basilico e di un Manifesto proprio.
In Ghiotti la presa d’atto dell’incompiutezza avviene attraverso lo spazio aperto, interrogandosi su cosa ci sia in “tutto il ferro dismesso delle nostre vite” e provando a riempire buchi tra la vita e la morte e tra il “qui e ora” e il “mai più” e, seguendo la logica poetica di Jolanda Insana di Schiticchìo e Schifo, «continua a fare buchi/ io faccio tappi».
Un grande lavoro di cura dunque per ciò che è dato nelle condizioni dell’esistenza, storiche o naturali che siano. Come un bravo architetto si dedica agli spazi vuoti, così Ghiotti, attraverso i versi e le sue domande insistentemente rivolte a se stesso e al paesaggio, ai testi e a chi lo circonda, si occupa della vita tutta.
Nella prefazione mi sembra evidenziarlo anche Biancamaria Frabotta, che nel presentare la raccolta definisce così l’atto di “creazione della parola” di Giorgio Ghiotti:
È un’arte, un accorto artigianato esercitato da questo poeta non ignaro della bellezza intrinseca a una partitura ben eseguita, a una rispondenza di limpide architetture che si stagliano contro un cielo incorreggibilmente struggente come quello di Roma che poi è anche la sua città di nascita. E sono così pochi i poeti nativi di Roma nella nostra precarietà di esuli, di emigrati, di spatriati che quando ne capita uno è meglio non lasciarselo sfuggire.
Attraverso le parole di Ghiotti, le foto di Basilico e le elaborazioni artistiche del collettivo Interavista, le parole “ecomostro” o le espressioni come “simbolo di degrado” che generano paure, debolezza, tristezza finanche, lasciano spazio ad altre come “resistenza” o “incompiutezza” per dare quella forza e quelle speranza di cui spesso sentiamo la necessità quando ci accostiamo adun’opera d’arte.
© Ilaria Grasso
2 risposte a “Giorgio Ghiotti, La città che ti abita (di I. Grasso)”
…più popolato del visibile è l’invisibile… Quanto è vero! Grazie
"Mi piace""Mi piace"
L’ha ribloggato su Dentro il cerchio.
"Mi piace""Mi piace"