Banco del pane, alle sette di un mercoledì sera qualsiasi. Davanti a me un signore e una signora che la generalità delle persone definirebbe “distinti” per età e atteggiamento. Lui si aggira attorno ai settant’anni, portati molto bene se non fosse per quel pancione da tenore che gli complica e rallenta i movimenti. Pochissime rughe, soltanto di espressione, attorno a due occhi che decisamente hanno guardato alla vita senza troppi sforzi. Ha una coppola blu cobalto incalcata sui capelli che, strizzati, girano su loro stessi come dei trucioli avorio. Due baffi melange che mi ricordano le “effe” di un violino anzi di un violoncello considerate la taglia comoda e il peso. Si rivolge alla signorina con una pacatezza che rimbomba nel parka in cui è rimasto ingolfato, il maglione senape che spunta dalla zip, una camicia bianca button-down e a becchi larghi infilata quanto più possibile in un paio di eccentrici tartan a vita alta. Al tenore forse piace il punk e nemmeno se ne accorge.
“C’era prima lei” è la risposta che consegna vergognoso a una signora campana dalla bocca carminia e procace e che sembra doppiata da una Loren in piena gloria. Non capisco se è lei o se sono le sue guance a ridere per lei. Sporgono e sembrano sorrette da due pieghe del viso che delineano la parte del mento o la mascella, non saprei. Non penso mai alla mascella delle donne. Gli occhi sono grandi, sproporzionati e sgranano come le femmine dei cartoni animati quando c’è elettricità e sentimento nell’aria. Pantalone nero relativamente stretto che fa da gambo a una mantellina rossa e tronchetto nero alla Loredana Berté. La signora sembra un funghetto grintoso, di certo non è velenosa.
Superato l’impasse e stabilite le reciproche posizioni, entrambi incespicano in frasi di cortese convenienza fino a che lei, più gagliarda, si fa avanti. Gli anni del femminismo hanno aperto i vasi di pandora anche delle signore Classe 50. Si propone con un dritto “Ma noi credo che ci conosciamo” e il tenore si stringe all’angolo nella vergogna per essere caduto nel cliché del maschio perennemente distratto. Lui prende tempo, poi scandisce bene le parole e imposta la voce, ingrossandola. Lei incalza con un “Sì, abitiamo nello stesso palazzo, io al quarto e lei al quinto, giusto?”. Condisce il colpo strizzando gli occhi. Al tenore esce un potente e stupefacente “Ma certo!” e prosegue del tutto incontrollato, “Ha ragione, io sono Nino”. Mi pare di sentire un “Angela” dai toni suadenti di risposta. “Lei canta vero? La sentivo ogni tanto, Signor Nino, con il suo vocione la sera, mi teneva compagnia”. Angela va tutto d’un fiato come una gatta verso il suo padrone. “Lei è molto gentile” è tutto quello che il Signor Nino riesce a tirare fuori. Si ritrae. Tenore di forma e di fatto ma bambacione. “Ora non canta più tanto spesso”, insiste lei. “Eh, ho avuto dei problemi alla voce e sono sempre arrabbiato” borbotta lui. “Questi nostri governanti hanno trasformato la musica italiana in un cencio, ti passa la voglia di schiarirti l’ugola!” statuisce perentorio, dilungandosi su fondi statali e speculazioni politiche, ma soprattutto violando la prima regola del rimorchio: non si appesantiscono mai le conversazioni con una donna. Lei ride tanto quanto ci sa fare e arrotonda le ‘o’ gongolando in un: “Ma signoor Nino! Alla nostra età non ci dobbiamo arrabbiare più”. Nel mentre, allunga sorniona la zampa verso l’oggetto momentaneo della sua attenzione. Le pupille fanno sparire un po’ di quel verde oliva dagli occhi per la loro dilatazione.
Più li guardo cincischiare davanti al banco e più penso che questi due Signori siano come due pani infornati nel mondo e forse usciti un po’ malconci. I loro tempi di lievitazione sono diventati troppo lunghi, escono che sono troppo cotti oppure un po’ bruciati. Hanno una temperatura che non raggiunge picchi tali da far loro gorgogliare il sangue e i cuori sono diventati gommosi, non raggiungeranno più quella croccantezza e quel gonfiore di un cuore giovane e fragrante. Tuttavia, sento che entrambi stanno lì ad aspettare che qualcuno dia loro un ultimo morso. Un ultimo boccone e poi via, è andata.
Nino improvvisamente si accorge della mia osservazione paranormale e si affretta a chiedermi scusa per essersi sbadatamente intrattenuto più del dovuto. Lo fa in maniera sincera e frettolosa, proteggendo il suo bottino di pane per uno. Ad Angela decisamente piace il suo fare senza speranza. Sceglie di rimanerne divertita a prescindere, quasi le desse quella sicurezza di chi può trovarsi nella posizione di gestire le cose. “Abbiamo rubato 5 minuti preziosi a questo baldo giovanotto” mi dice, facendo trottare le parole e scaricando la colpa fifty-fifty. “Non c’è nessun problema” rispondo come i bravi ragazzi. “Siete così belli da vedere” e regalo loro un po’ della malizia dei miei trent’anni. Quanto sono, in fin dei conti, 5 minuti miei se possono risultare necessari ai loro tempi di cottura. Sento un così buon profumo io, Nino! Controlla il timer. Il cuore è già pronto.
Paolo Napol vive a Roma dove lavora in Parlamento e conduce un programma di letteratura sulla radio romana Cluster Radio. Ama i suoni synth e la storia dei Balcani, il pollo alle prugne e la sua barba da trentenne. Ha qualche poesia e attestato appesi ai muri di casa e un Buddha comprato in Cambogia. Ogni tanto scrive (le) cose sul suo pensatoio online.